Premessa
È, questo che viviamo, ancora un tempo per noi? Un tempo, cioè, per noi che abbiamo accolto e abbracciato la vocazione di diventare preti? Non sono, in verità, molti i segni che dicono che nell’epoca che ci tocca vivere lentamente ma abbastanza seriamente stia come perdendo valore e significato il ministero sacerdotale cui abbiamo deciso di dedicare la nostra esistenza?
I dati statistici circa le nuove vocazioni al sacerdozio, almeno qui nell’Occidente avanzato, non abbisognano di tanti commenti: sono sempre di meno i giovani che entrano nelle schiere di un clero che è già mediamente anziano e i non pochi casi molto anziano. Avremo ancora preti italiani, francesi ed europei in genere da qui a qualche decennio? Difficile non porsi la domanda.
Anche quando poi non già alle prese con la cura del proprio corpo che si ammala e invecchia, i preti adulti sembrano sempre comunque in affanno, in riserva: non hanno letteralmente mai tempo, tante sono le incombenze che loro toccano, tra il tanto sacro e il tanto profano, cui devono dedicare le loro giornate. C’è chi non riesce neppure a preparare una predica come papa Francesco comanda!
Ed ancora: non è forse vero che sono non pochi i casi di sacerdoti che fanno a fatica ad imprimere un minimo di entusiasmo al loro impegno pastorale e che piuttosto portano avanti il ministero come un ininterrotto ciclo di produzione che non dice quasi più nulla alla loro stessa esistenza? Che cosa è rimasto degli anni del Seminario, dello slancio della prima ora, della prontezza con cui si era detto di sì al Signore Gesù?
E che cosa dire poi di fronte a quei confratelli che per le ragioni più disperate – ma aventi a che fare più o meno sempre col sesso e con il denaro – finiscono sulle pagine dei giornali o all’attenzione di quel giornalismo popolare che tanto ama intrattenere i propri spettatori su tali argomenti?
Ma forse la prova più grande che oggi ci tocca vivere e che ci interroga sul profondo circa la nostra presenza in questa società ha a che fare con una sensazione di disagio più generale: il disagio di non riuscire più a comunicare con la parte vitale di quella parte di popolazione che gravita nelle nostre parrocchie e comunità. Penso qui ai tantissimi giovani che stanno ben lontani dai nostri luoghi; penso ancora alle donne giovani adulte o già adulte, le mamme e le lavoratrici per intenderci, le quali, terminato il cammino di iniziazione dei loro figli, sembrano non avere più tempo né interesse per ciò che noi preti diciamo e celebriamo; penso ancora agli uomini e alle donne di cultura o delle istituzioni pubbliche di un certo rilievo, i quali, pur nel rispetto per la realtà ecclesiale e per noi suoi rappresentanti, celano sotto sotto l’idea di aver a che fare con noi e con il nostro lavoro come con un piccolo souvenir di un mondo che fu. Li vedi così a qualche battesimo, matrimonio, funerale e quasi più nessuno di loro ricorda neppure quando è il momento di alzarsi oppure di sedersi.
Ma possiamo dimenticarci di quelli che in Chiesa ancora ci vengono? Non alberga da qualche parte nel nostro cuore la seguente domanda: davvero ci stanno ascoltando? Sul serio riusciranno a misurare i parametri del loro vivere quotidiano alla luce di quella bella ma impegnativa parola di Gesù che tramite noi li raggiunge di domenica in domenica? Non sembra anche in questo caso che tali persone, alla fine dei conti, per ciò che davvero conta nella loro vita siano loro a decidere quale o quanto Vangelo mettere in pratica? E noi, a che serviamo allora?
Ci restano, certo, i poveri, che di frequente bussano alla nostra porta: la solidarietà è fuori discussione, ma il fatto che ritornino così spesso e che ai quelli della prima ora se ne aggiungano altri di continuo e che quasi nessuno riesca ad uscire da questa immensa catena umana di persone che semplicemente faticano a mettere insieme il pranzo con la cena getta, pure questo, un po’ di tristezza. Quanta povertà genera questo tempo e si troverà forse un qualche punto di equilibrio in questa strana economia che governa il mondo?
E forse è qui che troviamo anche noi, in questa riflessione, un primo punto di sintesi: questo tempo che viviamo è per noi preti, innanzitutto, un tempo di povertà; sì, anche noi fatichiamo a mettere insieme lodi e compieta, in quanto viviamo un momento storico in cui abbiamo perso alcune coordinate culturali e sociali che hanno dato sino a giorni non molto lontani dai nostri un contesto, uno charme e una fisionomia chiara al nostro essere preti. Ed è da qui che si deve forse partire per poter rispondere alla domanda sul come sia possibile oggi continuare a essere preti.
Riprendiamo, per gentile concessione della rivista Presbyteri, l’articolo di Armando Matteo, «Come è possibile?», pubblicato sul fascicolo n. 4 del 2017. Don Armando Matteo, sacerdote della diocesi di Catanzaro-Squillace, è docente di Teologia fondamentale alla Pontificia università urbaniana. Dal 2005 al 2011 è stato assistente nazionale della Federazione Universitaria Cattolica Italiana (FUCI).
San Paolo, Lettera a Filemone I, 10 : Io lo ho generato nel carcere
Non so se i Testimoni di Geova includano o meno le Lettere paoline. In esse si trova già, sin dall’inizio del cristianesimo, la figura della paternità spirituale.
Caro Sig. Armando Matteo.
Tutto il suo ragionamento è viziato dal fatto che nella cultura cattolica è troppo presente la figura di una persona che si pone come “padre spirituale” rispetto agli “altri”. Un concetto però totalmente estraneo al vero cristianesimo.
Le chiedo di fare un esperimento, vale la pena farlo, almeno una volta nella vita.
Esca fuori dal suo ruolo di prete, e una sera si metta un paio di pantaloni e una maglietta che lo renda il più possibile “uguale a tutti” insomma, cerchi di rendersi meno riconoscibile.
Entri in una qualsiasi sala del Regno dei testimoni di Geova, l’ingresso è libero per tutti.
Poi si metta in un angolo in fondo alla sala e osservi attentamente tutto ciò che accade. Scoprirà una realtà nuova, inedita per lei. Scoprirà il vero Cristianesimo.
Un cordiale saluto.