Nell’ambito francofono, alcuni anni fa, un vescovo lanciò come una provocazione l’associazione tra il termine “mestiere” e quello di “sacerdote”. Il vescovo Hippolyte Simon, della diocesi di Clermont, impiegò tale espressione nel 2001 principalmente per evidenziare la frammentazione delle competenze necessarie ai preti diocesani nell’attuale contesto sociale[1]. Da allora, l’allocuzione ha cominciato a diffondersi ampiamente in diverse aree linguistiche.
È opportuno evidenziare che nella lingua tedesca, ad esempio, il concetto di “professione” comprende sia la vocazione (chiamata, “Berufung”; “cosa vogliamo professare?”) sia la professione intesa come professionalità (Beruf). Noi adottiamo il termine “professione” nella sua accezione tecnica, indicando una persona che sviluppa e applica competenze autorevoli all’interno di un’istituzione[2].
Una professione viene definita quando una società riconosce che certi eventi sono troppo critici per essere lasciati al caso o alle decisioni individuali, e troppo complessi per essere gestiti mediante tecniche e procedure che chiunque può imparare ed eseguire senza intervento. La professione sorge quando nella società si stabilisce il conferimento a un determinato sottoinsieme di individui di una competenza specifica su quel tipo di eventi[3].
È necessario sottolineare che, se i presbiteri smarriscono la propria coscienza professionale e se il clero perde la sua posizione all’interno del sistema delle professioni, si perde una parte cruciale di ciò che è essenziale per il mantenimento e l’innovazione inderogabile delle istituzioni ecclesiastiche del cattolicesimo italiano[4].
Ministero: tra immagine e pratica
Attualmente, i presbiteri sono incoraggiati a rendere il loro ministero più professionale, ma ciò crea una tensione difficile da risolvere rispetto all’immagine tradizionale del presbitero post-tridentino, affatto caratterizzata da un approccio professionale.
L’ambivalenza teologica associata al processo di professionalizzazione si manifesta principalmente nella sfida di collegarlo in modo coerente con la tradizionale teologia post-tridentina del ministero, specialmente nella sua correlazione tra sacramentalità e autorità giurisdizionale[5].
Se la “professionalizzazione” non entra a far parte né della coscienza né dell’agenda del clero cattolico italiano, allora il contributo che i presbiteri possono apportare al rinnovamento delle istituzioni ecclesiali potrebbe essere limitato e forse insufficiente[6].
I mutamenti che coinvolgono effettivamente il ministero del presbitero diocesano generano notevoli tensioni nell’esercizio quotidiano di un “mestiere” che oggi non è più così evidente.
Il presbitero diocesano, una figura cruciale dall’epoca medioevale fino al XX secolo, ha visto profondamente alterate le sue condizioni di vita e di lavoro, incluso il proprio senso di identità. Non è l’unico a trovarsi in questa situazione, ma i cambiamenti che lo coinvolgono sono considerevoli e, sotto molti aspetti, essenziali.
È complicato discutere della professionalità senza ricorrere a concetti generici. Ed è ancor più complesso definire cosa si intenda per professionalità, secondo quali standard e parametri, poiché è strettamente collegata a una particolare teoria dell’organizzazione del lavoro, a un determinato “modello organizzativo” e alla prospettiva individuale di chi pratica una data attività. Inoltre, il concetto stesso non è universalmente compreso in tutte le lingue.
La professionalità si presenta come una realtà complessa che comprende la dimensione della conoscenza, le abilità pratiche, l’atteggiamento verso il lavoro pastorale e le strutture necessarie per una formazione teorica adeguata.
Qui si sottolinea che il concetto di professionalità non può essere considerato esclusivamente dal punto di vista soggettivo, ossia le qualità e i valori richiesti a una persona, ma deve essere anche considerato dal punto di vista oggettivo, cioè i rapporti con il mondo circostante e il contributo che la persona offre a tale mondo.
Il concetto di professionalità è un processo in costante mutamento e sviluppo, inserito in un contesto storico e culturale in evoluzione, il che richiede riflessioni regolari sulla propria personale professionalità.
In base a una visione dinamica in cui le professioni sono considerate un “amalgama fluido di segmenti in continua evoluzione”[7], anziché prodotti fissi di un’assimilazione uniforme da parte di tutti i professionisti di un nucleo centrale caratterizzante, o di un’adesione a una norma predefinita e costante da apprendere e interiorizzare successivamente, tali processi favoriscono una costruzione progressiva dall’interno, in cui il ruolo attivo del soggetto risulta cruciale.
Questo processo richiede, da un lato, la capacità di interagire con coloro che condividono il proprio ambiente per poter riconsiderare, adattare e accogliere con entusiasmo il nuovo. Dall’altro lato, richiede anche la capacità di confrontare il proprio pensiero con quello degli altri e di essere disposti e capaci di modificarlo in modo ragionevole o di spiegare meglio il proprio punto di vista.
Una professionalità che non è mai definitivamente acquisita, i cui limiti non si limitano solo agli aspetti istituzionali della professione ma coinvolgono anche pienamente la persona stessa come individuo in costante formazione.
Buone pratiche del ministero
Affinché il ministero diventi professionale, sono necessarie condizioni che lo distinguono dall’esercizio di un talento o di una pratica consolidata, definendolo in termini più ampi rispetto a una semplice competenza tecnica.
La professione si distingue dal mestiere per l’articolazione di un corpus di conoscenze specialistiche unite a un ideale di servizio che pone tali conoscenze a beneficio della società.
- Le decisioni professionali sono responsabili, basate su concetti fondamentali ed eticamente orientate, volte all’interesse del destinatario e guidate da una discrezionalità e creatività che tengono conto dell’unicità delle situazioni, dei contesti e degli attori coinvolti.
- La decisione consapevole e responsabile richiama la necessità di un ulteriore livello di conoscenza, una sorta di “sapere sul sapere”, che sollecita le competenze metacognitive del professionista.
Questo sapere consiste nel dotarsi di criteri per un utilizzo prudente del sapere specialistico, orientato all’azione da un’etica delle relazioni e dell’acquisizione della conoscenza.
La responsabilità si manifesta principalmente nella relazione con gli altri, implicando l’accettazione dell’altro come misura dell’azione, la consapevole valutazione delle conseguenze delle proprie decisioni e la risposta all’altro.
Il professionista assume la responsabilità delle proprie scelte poiché risponde a qualcuno: colui che usufruisce del suo servizio, considerato nella sua concretezza situazionale e nella totalità della sua condizione cognitiva, emotiva e motivazionale.
La professione viene compresa, mentre le tecniche vengono utilizzate. L’aspetto interpretativo della professione trae nutrimento dall’intenzionalità, dai valori e dall’incertezza creativa che si manifesta nell’incontro con una realtà complessa, spingendo a esplorare varie prospettive e a cercare un significato più profondo e mai definitivo.
L’impegno professionale è una responsabilità assunta, resa possibile principalmente attraverso una combinazione intricata e prudente di conoscenza che fornisce una base concettuale e articolata per una vasta gamma di opzioni d’azione, insieme a una direzione etica che seleziona, tra le alternative rilevanti, la risposta ritenuta adatta alle esigenze specifiche del destinatario. Inoltre, è supportato da un processo continuo e sistematico di riflessione e valutazione che consente di correggere, adattare, migliorare e potenziare l’intervento.
È nel contesto della professione che si manifesta un’azione pastorale responsabile e innovativa, superando schemi e modelli predefiniti, evitando di cadere nella ripetizione stereotipata delle abitudini consolidate, e mantenendo una sana diffidenza verso le convinzioni personali per concentrarsi invece sulla ricerca di criteri, ragioni, giustificazioni, fondamenti e metodi appropriati alle specifiche circostanze, secondo un approccio autocritico e orientato eticamente verso l’individuo e il suo completo sviluppo.
Il processo di professionalizzazione del clero evidenzia l’importanza di mantenere viva la tensione tra ciò che è concreto e ciò che è potenziale, di testimoniare la complessità delle persone e delle situazioni evitando ogni forma di semplificazione anticipata, e di evitare che il compito si esaurisca semplicemente nell’applicazione di pratiche consolidate, attraverso un costante impegno nella ricerca e nell’innovazione.
Il ritorno al focus sul ministero specifico può aiutare a ridurre l’ampia diffusione della retorica manageriale che a volte caratterizza la concezione del ministero, orientando l’attenzione non solo sull’efficienza, ma soprattutto sull’efficacia, dai risultati ai processi, e dalla standardizzazione alla valorizzazione delle differenze, dell’unicità e dell’originalità dei soggetti e degli elementi coinvolti in un percorso formativo.
Noi crediamo che competenza equivalga a professionalità, intesa come la combinazione di capacità, conoscenze, abilità e qualità che rendono un presbitero abbastanza preparato da riconoscere, comprendere e gestire le sfide della sua esperienza pastorale. In particolare, questa professionalità competente si caratterizza per i concetti di dinamicità e relazionalità.
La pratica professionale consiste nelle azioni e negli atteggiamenti che i presbiteri sperimentano quotidianamente nel loro lavoro pastorale. È il modo in cui i presbiteri vivono e interpretano il concetto di professionalità nel loro contesto pastorale.
Quando ci riferiamo alla professionalità, intendiamo descrivere la totalità delle conoscenze e delle abilità pratiche che un individuo utilizza in modo intenzionale per affrontare attivamente la vita all’interno di un contesto storico specifico, possedendo in modo positivo la propria occupazione.
Nel contesto ministeriale, possiamo considerare la professionalità come una sensibilità nei confronti dell’essere coinvolti nell’intero processo sociale, evidenziando la consapevolezza dell’interdipendenza completa tra le relazioni pastorali e quelle che definiscono la più ampia comunità sociale.
Questa situazione è positiva, tuttavia richiede un cambiamento di alcuni approcci, una nuova “professionalità” intesa come capacità di lavorare o collaborare in gruppo per pianificare e supervisionare diverse azioni.
Tutto questo avviene in una società in continua evoluzione, dove, come afferma Drucker, “ciò che una volta era chiamato conoscenza oggi sta diventando informazione”[8].
Viviamo in una società che richiede una costante revisione del proprio ruolo e dei criteri con cui si interviene nei diversi contesti umani, al fine di assumere un ruolo professionale vero e proprio, in grado di formare persone capaci di interagire con il contesto in cui vivono e, se necessario, di trasformarlo.
Desidero indicare alcuni ambiti significativi del ministero presbiterale da implementare continuamente per una sempre più qualificata professionalità del clero: lo stile pastorale, le competenze relazionali, la formazione culturale e le attitudini personali.
Stile pastorale
Riguardo allo stile pastorale, i tratti che indicano la professionalità devono caratterizzarsi come capacità di ascolto, accoglienza, atteggiamento di apertura e disponibilità.
Il pastore rende visibile la sua arte; ricerca la sua bellezza, particolarmente nel culto, nella catechesi, nell’animazione spirituale e nella cura animarum. La competenza professionale del pastore risiede nella sua abilità ermeneutica, che consiste nell’integrare la comprensione delle situazioni concrete, specialmente attraverso l’uso della teologia e delle scienze umane. Non confonde religione, spiritualità ed etica (moralità), ma sa come articolarle.
Il pastore rispetta l’unicità e l’integrità della persona. Fa affidamento sulle sue “capacità” e tiene conto della sua vulnerabilità. È particolarmente attento e sensibile alle situazioni estreme. Riconosce i limiti della propria professionalità e si affida alla professionalità degli altri.
Competenze relazionali
In stretta connessione con questo ambito vanno considerate le competenze relazionali. Da questo punto di vista, si sottolineano due differenti modi di vivere la relazione con l’altro con senso di responsabilità cioè del farsi carico dell’altro: l’occuparsi e il preoccuparsi.
L’occuparsi consiste nel fornire ciò che è necessario per mantenere, riparare e migliorare la qualità della vita senza coinvolgimento personale, come una serie di compiti da svolgere. D’altra parte, il preoccuparsi implica un coinvolgimento emotivo più profondo. Quando il prendersi cura assume la forma del preoccuparsi, l’altro diventa una parte dei tuoi pensieri, comportando quindi un forte coinvolgimento personale sia a livello mentale che emotivo. [9]
Un aspetto significativo è rappresentato dal concetto di riflessività, il quale offre una prospettiva dettagliata sulla pratica professionale e richiama gli elementi di una professionalità che si basa sulla riflessione.
Questa riflessione include sia il pensare durante l’azione che il riflettere sull’azione stessa, portando ad un arricchimento professionale attraverso una costante attenzione da parte del presbitero alla propria pratica. Questo processo culmina in un esame critico degli eventi pastorali che caratterizzano la loro attività. Si tratta di un tipo di apprendimento avanzato, definibile come di terzo livello secondo Dewey, che si manifesta nello sviluppo dell’abitudine mentale del pensiero riflessivo[10].
Un’altra categoria essenziale è la creatività, che può essere interpretata come la capacità dell’individuo di andare oltre ciò che è già noto, già realizzato o già ottenuto (o esistente), guardando verso un orizzonte esistenziale autentico rappresentato dal possibile, dal futuro, dalla trasformazione e dal cambiamento. Questa capacità comprende la capacità di costruire qualcosa di nuovo partendo da ciò che già esiste e di esplorare, nei pensieri, nei comportamenti e nei sentimenti, vie alternative spesso inaspettate e imprevedibili.
Creatività significa intraprendere iniziative personali per realizzare ciò che si desidera fare[11].. Tuttavia, i nuovi contesti richiedono che il ruolo del presbitero non sia più solamente una questione di improvvisazione o di assemblaggio di esperienze più o meno creative.
Inoltre, va precisato che una professione vive di intense relazioni tra chi la esercita. Il presbiterio è, pertanto, uno spazio relazionale (oltre che teologico) grazie al quale i presbiteri restano liberi e capaci di fronteggiare casi diversi. L’intensità e la qualità delle relazioni dentro un presbiterio e la libertà del presbitero crescono insieme, o insieme calano e deperiscono. Al centro di queste relazioni debbono esserci le modalità necessariamente diverse, ma non necessariamente incoerenti, con le quali viene esercitata la stessa professione e la stessa autorità nella professione.
Formazione culturale
La categoria della formazione include tutte le affermazioni che evidenziano, da un lato, l’importanza di una formazione teologica iniziale e, dall’altro, la necessità di un apprendimento continuo. È anche rilevante sottolineare l’importanza della disposizione individuale all’autoformazione[12], insieme alla volontà di favorire il proprio sviluppo culturale attraverso canali sia istituzionali che non.
La categoria delle conoscenze e competenze professionali include competenze diverse come quelle teologiche, omiletiche e pastorali, considerate elementi cruciali della professionalità, con un’attenzione specifica al concetto di flessibilità.
Fondamentali sono le competenze teologiche e culturali. Non possiamo ignorare il crescente livello di ignoranza teologica e l’interesse sempre più limitato nei confronti della teologia da parte del clero italiano, e persino certi approcci unilaterali caratterizzati da un eccessivo spiritualismo[13] perché l’azione pastorale viene giocata del tutto, o principalmente, sul registro del dare e ricevere emozioni.
La teologia che richiede un rinnovato interesse non è affatto un sistema rigido che pretende di fornire già tutte le risposte a ogni possibile domanda. Proprio questa concezione rigida della teologia è una delle cause della crisi attuale sia della professione del prete che della teologia stessa.
Il sapere necessario per un professionista deve essere al contempo organizzato e aperto, coerente e flessibile, un sapere dinamico che si nutre e si aggiorna attraverso costanti mediazioni, inculturazioni e revisioni critiche, pur mantenendo una certa sistematicità.
Un professionista, specialmente uno come il presbitero che opera in questo periodo di transizione, si trova ad affrontare una significativa pressione sul proprio sviluppo personale. Il documento conciliare Optatam totius del Concilio Vaticano II aveva compreso bene questa dinamica (cf. OT 11-12).
L’idea del prete “superuomo” può rivelarsi ingannevole. Il presbitero, come ogni individuo maturo, non può ignorare, nascondere o sperare di non avere ferite. Tuttavia, può imparare a gestirle. Per il presbitero, il raggiungimento di una profonda maturità umana implica la capacità di essere guaritori che hanno conosciuto le ferite, ma non malati.
Attitudini personali
Riguardo alla categoria denominata attitudini personali o virtù umane del presbitero, mettendo assieme quelle ricordate dai vari documenti[14] se ne ottiene un lungo elenco (in ordine alfabetico): accoglienza, affidabilità, amore per la verità, apertura all’altro, armonia tra i valori umani e i valori soprannaturali, autenticità, benevolenza, bontà, buon umore (eutrapelia), buona conversazione, buona stima, buoni costumi, capacità di coordinare le energie verso l’obiettivo proposto, capacità di perdono, capacità di prendere decisioni ponderate, capacità di rapporti schietti e fraterni, capacità di relazionarsi con gli altri, capacità di relazioni libere oblative e sincere, carità nel conversare, clemenza, coerenza, compassione, comprensione, conoscenza di se stessi, conoscere in profondità l’animo umano, coraggio, corporeità riconosciuta e assunta come linguaggio della persona, correttezza, cortesia (curialitas), buone maniere costanza, cura adeguata della propria persona nella pulizia e nel vestiario, disciplina del proprio carattere, discrezione, disinteresse, disponibilità al servizio, dolcezza, dominio di sé, dono di sé, equilibrio di giudizio e di comportamento, facilità nell’incontro e nel dialogo, fedeltà alla parola data, fedeltà, fermezza d’animo, fermezza della volontà, fiducia, fierezza, fortezza d’animo, franchezza (parresia), generosità, gentilezza, giovialità, giustizia, gratitudine, gusto dell’impegno, identità sufficientemente consistente, impegno quotidiano, integri costumi, intelligenza aperta alla verità, intuizione delle difficoltà e problemi, lealtà, libertà, libertà interiore, lungimiranza, mansuetudine, modestia, modo autorevole e fraterno di entrare in rapporto con gli altri, modo maturo di presentarsi e di esprimersi, non arroganza, non litigiosità, onestà, ospitalità, ottenere fiducia e collaborazione, pazienza, perdono, perseveranza, personalità matura, pietà genuina, prudenza, responsabilità, retta intenzione, retto modo di giudicare uomini ed eventi, riconoscenza, rispetto, saggezza, salute psichica, semplicità, servizio, sincerità, spirito di sacrificio, tenerezza, umiltà, veracità.
Sviluppare la formazione del presbitero sul versante della virtù è spostarne l’asse d’attenzione e pedagogia dagli atti al soggetto, dalle adeguazioni esteriori alle disposizioni interiori: è puntare sulla persona. Per dirla con il Vangelo, è mirare all’albero prima che ai frutti. Se l’albero è buono anche i frutti saranno buoni (cf. Mt 7,17-18). L’albero dice il soggetto, i frutti le azioni. Si è buoni prima di tutto dentro. E dentro l’uomo abbiamo le potenze operative, da cui si origina e prende forma l’agire umano anche del presbitero. Si tratta di operare su queste, mirare a “bonificare” i centri di decisione e attivazione dell’agire.
Il prete “è il viator non soltanto per l’inquietudine dell’eterno, che possiede in comune con ogni uomo, ma per vocazione e offerta. Si deve tutto a tutti, e lui non si può mai abbandonare interamente a nessuna creatura. È un pane di comunione che tutti possono mangiare, ma di cui nessuno ha l’esclusiva» (Primo Mazzolari, Adesso, 1° marzo 1949).
Il prete deve essere credibile, anche se non completo e continuamente alle prese col dilemma tra il suo essere paolino «vaso di coccio» e il «tesoro» di grazia di cui è ministro (2Cor 4,7; cf. Mt 13,44). Deve essere segno del Trascendente, pur essendo immerso nelle esperienze quotidiane di tutti gli uomini. Un uomo che sta in contatto continuo col suo Dio, ma senza mai interrompere la piena esperienza della condizione umana.
Conclusione
Il carattere “insolito” della professionalità nel ministero pastorale del presbitero si basa principalmente sulla dimensione etica dell’ufficio ecclesiastico. Pensare a un’etica professionale dei presbiteri non equivale certo né a una secolarizzazione del ministero, né a una volontà di standardizzazione. Anche la sua eventuale codificazione nell’ambito delle Chiese particolari non è la promozione di un cattivo legalismo. Si tratta solo di dare prevalenza all’etica che circonda il corretto dispiegamento del ministero pastorale del presbitero, affinché possa essere oggettivamente apprezzato nella dinamica dell’azione missionaria della Chiesa[15].
Infine, è fondamentale porre particolare attenzione ai paradossi del clericalismo. Benché una professione possa trarre beneficio da esempi e modelli di eccellenza, essa non può basarsi esclusivamente su tali elementi, né tantomeno sulla loro superficiale idealizzazione. Se i presbiteri iniziassero a valutare lo stato della propria professione in base al livello di ossequio formale o di idealizzazione che ricevono, sia all’interno che all’esterno della Chiesa, incorrerebbero in un grave errore, facendo una scelta pericolosa di dipendenza dall’opinione altrui.
Il ministero è una manifestazione pratica della fede e, proprio per questo motivo, richiede una sua etica professionale. Non è sufficiente avere una vita spirituale fervente; l’uso eccessivo della retorica morale può causare più danni che benefici. È necessario invece sviluppare una coscienza collettiva della responsabilità nei confronti della cura della fede, delle esperienze spirituali e del benessere fisico e mentale degli individui. È indispensabile che all’interno della comunità clericale esista una normativa interna che contribuisca al buon esito del ministero nella Chiesa e che al tempo stesso limiti i danni causati. È evidente, in modo drammatico, che il solo Vangelo non è sufficiente[16].
[1] Cf. H. Simon, Libres d’êtres prêtres, (coll. Interventions théologiques), ed. de l’Atelier, Paris 2001, pp. 92-101; cfr. L.-L. Christians, La deontologie des ministeres ecclesiaux, Cerf, Paris 2007.
[2] Cf. L. Diotallevi, Abitare la crisi. La “professione” del prete in un tempo di transizione, in “Rivista del clero italiano”, 4/2010, pp. 286-295; 370-384.
[3] Cf. L. Diotallevi, Abitare la crisi. La “professione” del prete in un tempo di transizione, in “Rivista del clero italiano”, 4/2010, p. 379.
[4] Cf. L. Diotallevi, Abitare la crisi. La “professione” del prete in un tempo di transizione, in “Rivista del clero italiano”, 4/2010, pp-380-381.
[5] Cf. R. Bucher, La pastorale come professione, in www.settimananews.it del 11 febbraio 2018.
[6] Cf. L. Diotallevi, Abitare la crisi. La “professione” del prete in un tempo di transizione, in “Rivista del clero italiano”, 4/2010, 381.
[7] Cf. A. Strauss, La trame de la negociation, L’Harmattan, Paris 1992.
[8] P.F. Drucker, Post-Capitalist society, Butterworth Heinemann, Oxford 1993, pag.7.
[9] Cf. L. Mortari, La pratica dell’avere cura, Mondadori, Milano 2006, p. 31.
[10] Cf. J. Dewey, Come pensiamo, La Nuova Italia, Firenze 1961, p. 111.
[11] D. Winnicott, Gioco e Realtà, Armando Editore, Roma 1971, p. 52.
[12] Cf. R. Guardini. Lettere sull’autoformazione, Morcelliana, Brescia
[13] In questo caso l’azione pastorale viene giocata del tutto, o principalmente, sul registro del dare e ricevere emozioni.
[14] A titolo semplificato segnaliamo alcuni: cf. Presbyterorum ordinis, 3; Optatam totius, 15; Paolo VI, Lettera enciclica Sacerdotalis cælibatus (24 giugno 1967), nn. 63-64: Pastores dabo vobis, 43-44; CEI, La formazione dei presbiteri nella chiesa italiana. Orientamenti e norme per i seminari3, 2007, 90; Cec, Orientamenti per l’utilizzo delle competenze psicologiche nell’ammissione e della formazione dei candidati al sacerdozio”, Roma 2008, 2.
[15] Cf. A.P. Bosso, Une codification déontologique du ministère du cure?, in “Ius ecclesiae” 1(2023), pp. 31-54.
[16] Cf. M. Neri, Una deontologia per il ministero?, in www.settimananews.it del 23 gennaio 2024.
Proprio perché il sacerdote dovrebbe avere una sua coscienza professionale, occorrerebbe rifare i preti (non solo quelli che si stanno formando, ma anche già “formati”). Comunque rimane aperta la questione dell’autorità e del suo esercizio.
Mi è sempre piaciuto osservare come nella storia del pensiero emergono certi filosofi che traggono i fondamenti delle loro teorie dai termini linguistici del proprio contesto culturale e tutto questo mi è sempre apparso come indice di vulnerabilità del loro dire, perché scarsamente universale; di fronte a quest’articolo devo indubbiamente ricredermi.
Tuttavia ritengo che la professione del prete debba fare i conti anche con l’ambiente ecclesiale contemporaneo, nel quale ci sono vescovi e superiori ecclesiastici abbondantemente scelti tra persone di scarso valore umano e “professionale”, motivo per il quale le riflessioni dell’autore dell’articolo non cadono nel vuoto, ma vengono contrastate nella realtà delle cose.
Nelle attitudini personali ne manca una che le riassume tutte! ESSERE DIO!
giovanni lupino. prete