Il messaggio di papa Francesco per la 58ª giornata di preghiera per le vocazioni, il 25 aprile, ha per tema San Giuseppe: il sogno della vocazione, nello speciale anno dedicato al patrono della Chiesa universale, indetto lo scorso 8 dicembre.
Nel testo più volte si incontra la parola “servizio”, diaconia (ricorre ben otto volte). Scrive il papa che «servizio è una parola che segna l’itinerario di san Giuseppe e della vocazione. Liberando l’amore da ogni possesso, si aprì infatti a un servizio ancora più fecondo: la sua cura amorevole ha attraversato le generazioni, la sua custodia premurosa lo ha reso patrono della Chiesa. Il suo servizio e i suoi sacrifici sono stati possibili, però, solo perché sostenuti da un amore più grande: “Ogni vera vocazione nasce dal dono di sé, che è la maturazione del semplice sacrificio. Anche nel sacerdozio e nella vita consacrata viene chiesto questo tipo di maturità. Lì dove una vocazione non giunge alla maturazione del dono di sé fermandosi solo alla logica del sacrificio, allora, invece di farsi segno della bellezza e della gioia dell’amore, rischia di esprimere infelicità, tristezza e frustrazione”. Il servizio, espressione concreta del dono di sé, non fu per san Giuseppe solo un alto ideale, ma divenne regola di vita quotidiana».
Quindi, la diaconia è la regola di vita quotidiana di ogni cristiano, ma in particolare per i diaconi deve essere il cuore del loro ministero.
Custode del servizio
La visita a tre famiglie negli alloggi popolari di un quartiere periferico, l’incontro con il clero ambrosiano in duomo, nel cuore ecclesiale della diocesi e il pranzo con i detenuti del carcere di San Vittore è stata la prima parte del viaggio di Francesco che si è svolta a Milano nel marzo del 2018, con la consueta attenzione privilegiata agli ultimi.
Nel duomo ha dialogato con i presenti, rispondendo alle domande di un prete, di una religiosa e di un diacono.
Il diacono è Roberto Crespi, il quale pone al papa una domanda facendo prima presente che il diaconato è entrato nel clero milanese nel 1990 e da quella data i diaconi della diocesi sono 143 (oggi sono 151). Poi aggiunge: «Non è un numero grande, ma è un numero significativo. Siamo uomini che vivono pienamente la propria vocazione, quella matrimoniale o quella celibataria ma vivono anche pienamente il mondo del lavoro e della professione e portiamo quindi nel clero il mondo della famiglia e del mondo del lavoro, portiamo tutte le dimensioni della bellezza e dell’esperienza ma anche della fatica e, qualche volta, delle ferite. Le chiediamo allora: come diaconi permanenti qual è la nostra parte perché possiamo aiutare a delineare quel volto di Chiesa che è umile, che è disinteressata, che è beata, quella che sentiamo che è nel suo cuore e di cui spesso ci parla? La ringrazio dell’attenzione e le assicuro la nostra preghiera e, insieme alla nostra, quella delle nostre spose e delle nostre famiglie».
Papa Francesco risponde con chiarezza affermando: «Voi non siete mezzi preti e mezzi laici, questo sarebbe “funzionalizzare” il diaconato: siete sacramento del servizio a Dio e ai fratelli. Una vocazione che, come tutte le vocazioni, non è solamente individuale, ma vissuta all’interno della famiglia e con la famiglia; all’interno del popolo di Dio e con il popolo di Dio». E scherzando ha aggiunto: «Voi avete la suocera».
Rispondendo alla domanda di Roberto, il pontefice ha continuato dicendo: «All’interno del presbiterio, voi potete essere una voce autorevole per mostrare la tensione che c’è tra il dovere e il volere, le tensioni che si vivono all’interno della vita familiare, come pure le sue benedizioni. Ma dobbiamo stare attenti a non vedere i diaconi come mezzi preti e mezzi laici. Alla fine non stanno né di qua né di là. No. Guardarli così ci fa male e fa male a loro».
Secondo il papa, «questo modo di considerare i diaconi toglie forza al carisma proprio del diaconato nella vita della Chiesa. E nemmeno va bene l’immagine del diacono come una specie di intermediario tra i fedeli e i pastori. Il diaconato è una vocazione specifica, una vocazione familiare che richiama il servizio come uno dei doni caratteristici del popolo di Dio».
Il papa poi usa un’espressione direi nuova e interessante quando afferma che «il diacono è custode del servizio nella Chiesa».
Nell’omelia dell’inizio del suo pontificato, nella festa di san Giuseppe, Francesco parlando del custodire diceva che «la vocazione del custodire non riguarda solamente noi cristiani, ha una dimensione che precede e che è semplicemente umana, riguarda tutti. È il custodire l’intero creato, la bellezza del creato, come ci viene detto nel Libro della Genesi e come ci ha mostrato san Francesco d’Assisi: è l’avere rispetto per ogni creatura di Dio e per l’ambiente in cui viviamo. È il custodire la gente, l’aver cura di tutti, di ogni persona, con amore, specialmente dei bambini, dei vecchi, di coloro che sono più fragili e che spesso sono nella periferia del nostro cuore. È l’aver cura l’uno dell’altro nella famiglia: i coniugi si custodiscono reciprocamente, poi come genitori si prendono cura dei figli, e col tempo anche i figli diventano custodi dei genitori. È il vivere con sincerità le amicizie, che sono un reciproco custodirsi nella confidenza, nel rispetto e nel bene. In fondo, tutto è affidato alla custodia dell’uomo, ed è una responsabilità che ci riguarda tutti. Siate custodi dei doni di Dio!».
San Giuseppe come “custode”
Questo accostamento alla figura di Giuseppe quale custode[1] è molto affascinante. Come esercita Giuseppe questa custodia? Con discrezione, con umiltà, nel silenzio, ma con una presenza costante e una fedeltà totale, anche quando non comprende. Quante cose noi diaconi non compendiamo nel nostro ministero nel nostro rapporto con i presbiteri, nel rapportarci con la società e a volte anche nella nostra famiglia!
Noi diaconi siamo chiamati a custodire ogni persona, specie la più povera, custodire noi stessi. Diaconi che, come san Giuseppe – così come papa Francesco scrive –, devono essere nella loro diaconia «padri nella tenerezza, padri nell’obbedienza, padri nell’accoglienza, padri nell’ombra, padri dal coraggio creativo». Davvero questa caratteristica si addice bene al ministero diaconale. «Se la prima tappa di ogni vera guarigione interiore è accogliere la propria storia, ossia fare spazio dentro noi stessi anche a ciò che non abbiamo scelto nella nostra vita, serve però aggiungere un’altra caratteristica importante: il coraggio creativo. Esso emerge soprattutto quando si incontrano difficoltà. Infatti, davanti a una difficoltà ci si può fermare e abbandonare il campo, oppure ingegnarsi in qualche modo. Sono a volte proprio le difficoltà che tirano fuori da ciascuno di noi risorse che nemmeno pensavamo di avere».[2]
Ma mi piace anche riportare quanto Bergoglio ha detto nell’omelia di marzo 2019 a Santa Marta affermando che Giuseppe è custode anche delle debolezze. Infatti egli «è capace di far nascere tante cose belle dalle nostre debolezze, dai nostri peccati». Egli «è custode delle debolezze perché divengano salde nella fede». Un compito fondamentale che Giuseppe «ha ricevuto in sogno», perché lui era «un uomo capace di sognare». Quindi egli non solo «è custode delle nostre debolezze, ma anche possiamo dire che è il custode del sogno di Dio: il sogno di nostro Padre, il sogno di Dio, della redenzione, di salvarci tutti, di questa ricreazione, è confidato a lui».
Questo è il “sogno” di papa Francesco per gli uomini e le donne che devono testimoniare Cristo. Dipende da noi metterci cuore, mani e testa affinché questo “sogno” possa diventare realtà.
Pertanto, ogni nostra parola dev’essere ben misurata. «Voi siete i custodi del servizio nella Chiesa: il servizio alla Parola, il servizio all’altare, il servizio ai poveri. È la vostra missione, la missione del diacono e il suo contributo consistono in questo: nel ricordare a tutti noi che la fede, nelle sue diverse espressioni – la liturgia comunitaria, la preghiera personale, le diverse forme di carità – e nei suoi vari stati di vita – laicale, clericale, familiare – possiede un’essenziale dimensione di servizio. Il servizio a Dio e ai fratelli».
«Guardatevi dal clericalismo»
Per Francesco, dunque, la chiave per comprendere il ministero dei diaconi è il servizio.
Infatti, al papa «piace tanto il brano degli Atti degli Apostoli in cui si racconta dei primi cristiani ellenisti che vanno dagli apostoli a lamentarsi perché le loro vedove e i loro orfani non erano ben assistiti, e hanno poi fatto quella riunione, quel “sinodo” tra gli apostoli e i discepoli, e hanno “inventato” i diaconi per servire. E questo è molto interessante anche per noi vescovi, perché quelli erano tutti vescovi, quelli che hanno “fatto” i diaconi. E che cosa ci dice? Che i diaconi siano i servitori. Poi hanno capito che, in quel caso, era per assistere le vedove e gli orfani; ma servire. E a noi vescovi: la preghiera e l’annuncio della Parola; e questo ci fa vedere qual è il carisma più importante di un vescovo: pregare. Qual è il compito di un vescovo, il primo compito? La preghiera. Secondo compito: annunciare la Parola. Ma si vede bene la differenza. E a voi [diaconi]: il servizio». Il pericolo per Francesco è il clericalismo, «guardatevi dal clericalismo». E l’altra tentazione, «il funzionalismo: è un aiuto che ha il prete per questo o per quello…; è un ragazzo per svolgere certi compiti e non per altre cose… No. Voi avete un carisma chiaro nella Chiesa e dovete costruirlo».
«Quanta strada – ha esclamato – c’è da fare in questo senso! In ciò consiste il valore dei carismi nella Chiesa, che sono un ricordo e un dono per aiutare tutto il popolo di Dio a non perdere la prospettiva e le ricchezze dell’agire di Dio».
In sintesi, ha poi concluso il papa dicendo che:
- non c’è servizio all’altare, non c’è liturgia che non si apra al servizio dei poveri, e non c’è servizio dei poveri che non conduca alla liturgia;
- non c’è vocazione ecclesiale che non sia familiare.
Infine, oggi sembra che tutto debba “servirci”, come se tutto fosse finalizzato all’individuo: la preghiera “mi serve”, la comunità “mi serve”, la carità “mi serve”. «Voi siete il dono che lo Spirito ci fa per vedere che la strada giusta va al contrario: nella preghiera servo, nella comunità servo, con la solidarietà servo Dio e il prossimo”.
Speriamo che non cada, poi, nel vuoto la raccomandazione sul valore dei carismi nella Chiesa, che sono un ricordo e un dono per aiutare tutto il popolo di Dio a non perdere la prospettiva e le ricchezze dell’agire di Dio. «Voi – sottolinea Francesco – siete sacramento del servizio a Dio e ai fratelli. E da questa parola “servizio” deriva tutto lo sviluppo del vostro lavoro, della vostra vocazione, del vostro essere nella Chiesa. Una vocazione che, come tutte le vocazioni, non è solamente individuale, ma vissuta all’interno della famiglia e con la famiglia; all’interno del popolo di Dio e con il popolo di Dio». Questo significa rivalutare il diaconato come vocazione ecclesiale.
Il ruolo di una famiglia “diaconale”
Il 19 marzo scorso, proprio il giorno della festa di san Giuseppe, si sono celebrati i cinque anni dalla pubblicazione dell’esortazione apostolica Amoris laetitia sulla bellezza e la gioia dell’amore familiare. In questo stesso giorno papa Francesco ha inaugurato l’anno “Famiglia Amoris laetitia”, che si concluderà il 26 giugno 2022 in occasione del X Incontro mondiale delle famiglie a Roma.
Il card. Farrell, nell’intervento alla conferenza stampa di presentazione dell’anno “Famiglia Amoris laetitia”, ha detto che «la famiglia rimane per sempre “custode” delle nostre relazioni più autentiche e originarie, quelle che nascono nell’amore e ci fanno maturare come persone. I cinque anni dalla pubblicazione di Amoris laetitia, poi, rappresentano uno stimolo per tutta la Chiesa a riprendere in mano questo importante documento, frutto di un lungo cammino sinodale». L’anno “Famiglia Amoris laetitia” è una preziosa opportunità per far maturare i frutti di questo cammino, non solo nei vari contesti ecclesiali, ma nelle famiglie stesse.
Oggi, che la perdurante situazione di pandemia crea in tutti noi preoccupazione e sofferenza, cerchiamo di esaminare cosa è stato il valore profetico della famiglia cristiana in genere e di quella diaconale in particolare? «A questo – scrive Francesco – tendono le vocazioni: a generare e rigenerare vite ogni giorno. Il Signore desidera plasmare cuori di padri, cuori di madri: cuori aperti, capaci di grandi slanci, generosi nel donarsi, compassionevoli nel consolare le angosce e saldi per rafforzare le speranze. Di questo hanno bisogno il sacerdozio e la vita consacrata, oggi in modo particolare, in tempi segnati da fragilità e sofferenze dovute anche alla pandemia, che ha originato incertezze e paure circa il futuro e il senso stesso della vita».
È bene avere uno sguardo capace di cogliere la pluralità delle situazioni e la complessità del fenomeno culturale che formano una ragnatela tale da imprigionare e rendere spesso vana la realizzazione di una famiglia.
Le difficoltà in cui si sono trovate soprattutto le giovani generazioni, prive di lavoro e quindi senza possibilità di costruirsi solidamente un futuro; la cultura dominante che invita a vivere con interesse solo un weekend spensierato e ricco di emozioni, piuttosto che un impegno e una decisione duratura e stabile.
La concezione falsata del rapporto interpersonale che mortifica la complementarità per la sopraffazione della volontà dell’individuo.
La visione parziale della vita che si conclude in una miope accettazione del successo immediato, più che della fatica per ricercare il senso dell’esistenza.
La concezione sempre più marcata del possesso dell’altro più che della donazione di sé…
L’elenco sarebbe lungo, ma in questo momento ci chiediamo se, quando usciremo da questa condizione che stiamo vivendo, saremo cambiati, migliorati. Se coglieremo che il valore profetico della famiglia è modello di realizzazione di sé nella compartecipazione, nell’amore gratuito e nell’accoglienza di tutto ciò che si è, in forza di una vocazione e di una missione da realizzare.
Diaconato e matrimonio
La dimensione del mistero d’amore diventa fondamentale per la visione cristiana della famiglia. Il mistero grande di cui parla l’Apostolo (cf. Ef 5,32) che è capace di dare senso alla vita. Il mistero non schiaccia le persone, le eleva e conduce progressivamente a scoprirsi parte integrante di un progetto che solo attraverso la propria libertà può realizzarsi. Però in un tempo drammatico, in un tempo inedito, bisogna rimanere vigili nelle nostre famiglie, mi riferisco alla violenza maschile sulle donne, alle relazioni abusanti della violenza domestica. Un dramma che persiste da un tempo immemorabile e che si potrà acuire in questa convivenza “forzata”. Questo è anche l’appello che viene dall’Osservatorio interreligioso sulle violenze contro le donne.
Questa reciproca relazione deve ispirare l’esercizio del ministero diaconale che non deve mai essere in opposizione con gli impegni del matrimonio, della famiglia e i suoi compiti.
Quindi il rinnovamento della Chiesa e della pastorale di cui il diaconato è chiamato ad essere fattore, espressione, comincia dalla famiglia. È un settore della vita della comunità cristiana, nel quale può esplicarsi in forme nuove il ministero diaconale. È la “famiglia che si fa Chiesa”, aprendosi ad altre famiglie; è “la Chiesa che si fa famiglia”, recuperando la sua dimensione elementare e “domestica”, e aprendosi all’evangelizzazione nell’ambito dei rapporti interpersonali autentici di fratellanza.
Bisogna collocarsi, dunque, sulla stessa lunghezza d’onda dei fratelli, in un sentire cum corde con essi e con le loro aspettative più profonde di riscatto, crescita, condivisione, salvezza. Sì, qui è possibile costruire e fare parte di una Chiesa diversa. Una Chiesa che è innanzitutto fatta di persone, dove la comunità diventa centro vitale, e l’attenzione non è più posta sulla ritualità. Una Chiesa il cui tratto distintivo è la misericordia, il sentire con il cuore, nella dimensione e a livello di chi è nell’angustia, nella pena, nel dolore, nella miseria.
Il messaggio di Francesco per la giornata di preghiera per le vocazioni si conclude con questo auspicio: «Auguro a voi, fratelli e sorelle che con generosità avete fatto di Dio il sogno della vita, per servirlo nei fratelli e nelle sorelle che vi sono affidati, attraverso una fedeltà che è già di per sé testimonianza, in un’epoca segnata da scelte passeggere e da emozioni che svaniscono senza lasciare la gioia. San Giuseppe, custode delle vocazioni, vi accompagni con cuore di padre!».
[1] Cf. Francesco, Lettera apostolica Patris corde, Città del Vaticano, 8 dicembre 2020.
[2] Cf. Francesco, Lettera apostolica Patris corde, Città del Vaticano, 8 dicembre 2020, n. 5