Nel 1997 Paolo Prodi pubblica sulla rivista trentina Didascalie un articolo sulla figura di don Milani («Sacerdozio e impegno politico», [ottobre] 1997, pp. 25-28), inquadrandola all’interno del contesto storico e delle vicende del Paese nel secondo dopo guerra. Lette a vent’anni di distanza le riflessioni di Prodi appaiono di una lucidità del tutto attuale, capaci di proiettare il profilo di don Milani fino al nostro contesto odierno (Marcello Neri).
Il primo passo è quello di liberare don Milani da indebite strettoie, che ne avevano catturato l’immagine piegandola a chiavi di lettura militante degli anni Sessanta e Settanta, per riconsegnarlo a quella libertà che contraddistinse il suo vissuto di prete: «Credo che sia giunto il momento per una riflessione che restituisca don Milani a tutti e rinunci a impossesarsene in un qualche modo. Don Milani non poteva né può essere una bandiera di contestazione civile, infatti dobbiamo ricordare il suo richiamo continuo alla serietà, alla severità della scuola, il suo richiamo continuo all’autorità che lui sapeva e voleva essere nella sua scuola.
Tantomeno può essere una bandiera per una contestazione religiosa: pensiamo alle comunità di base postconciliari, all’Isolotto, a quei movimenti insomma di fronte a cui lui affermava questa sua obbedienza totale alla gerarchia. Lui diceva sempre però “dopo”: prima usufruisco di tutta la mia libertà di cristiano poi, “dopo”, obbedisco quando mi viene ingiunto» (25-26).
Sacralità del sacerdozio e impegno politico
Il secondo passo che Prodi sviluppa del suo testo è quello di mettere in atto una corretta comprensione di don Milani, che metta al centro il suo vissuto e ministero sacerdotale all’interno dei quali diventano comprensibili le implicazioni politiche della sua opera: «Quindi dobbiamo cercare ora soprattutto di capirlo, di accostarlo con rispetto, nel suo tempo. E dobbiamo chiedere anche a lui che ci aiuti a levare tante deformazioni, tanti luoghi comuni che nonostante tutto sono penetrati in noi su queste vicende italiane degli anni ’50 e ’60» (26).
Ministero e impegno politico non rappresentano, nel vissuto di don Milani, l’interiorità e l’esteriorità, ma sono portati a un’aderenza e coesione che ne fanno una figura unica e unitaria: «Un primo punto che mi sembra importante è l’identificazione nella sua persona della sacralità del sacerdozio e dell’impegno politico. C’è una totale identità delle due cose senza però che esse si confondano, si sovrappongano, si mescolino. Ed è questo forse una delle cose che abbiamo perso dopo la morte di don Milani» (26).
E fu proprio questa identità di sacerdozio e impegno politico che permise a don Milani di incidere nel tessuto sociale senza alcuna volontà di potere, mantenendo ferma la ragione religiosa che innervava tutto il suo vivere e operare: «Dopo, infatti, abbiamo avuto prevalentemente un certo tipo di tendenza fondamentalista, in cui l’obbedienza è diventata anche azione politica, è diventata in un qualche modo volontà di potere. Dall’altra parte, lo dico in modo schematico, abbiamo avuto invece una teologia della liberazione secolarizzata, in cui era molto spesso mancante la prima anima, che invece in don Milani era così importante» (26).
Conturbare le coscienze
Don Milani è ben lontano da un agire chiuso nella sua immanenza, da una riforma del Paese e della Chiesa basata tutta sulle strutture. Senza un risveglio inquieto della coscienza, basato sugli accordi del Vangelo, non sarebbe possibile portare alla luce le contraddizioni in cui l’Italia era immersa dopo la fine della II Guerra Mondiale: «In fondo la sua vocazione, come egli la ribadisce più volte nei suoi testi e nelle lettere, la sua missione è quella di “conturbatore delle coscienze” – come scriveva a don Renzo Rossi nel 1956. Al centro del suo pensiero c’è un discorso profondamente credente, che ha il suo perno sulla sacramentalità della Chiesa, cioè sulla presenza della Chiesa, di cui lui era in un qualche modo una manifestazione, proprio come nella sua funzione di far esplodere le contraddizioni esistenti nella realtà non secolarizzandosi, confondendosi con le ideologie, ma richiamandosi al soprannaturale e alla realtà dell’incarnazione» (26).
Il lessico dell’operato di don Milani rimaneva sempre profondamente cristiano e religioso, impregnato delle parole che plasmano il vissuto cristiano, anche quello del prete facendolo rimanere tale: «I termini obbedienza, peccato, confessione, ritornano continuamente nei suoi scritti e nella sua predicazione. La confessione come perdono del peccato, come riconciliazione, la Chiesa come sacramento di riconciliazione dell’umanità. Ecco, in questo senso la sua era certamente un’esperienza conturbante, ma estremamente serena, estremamente dolce. Pur nella pienezza del suo impegno politico don Milani scriveva: “L’operaio chiede a me quel che chiede alla Chiesa: annunciare la fede dando una prospettiva all’esistenza di ciascuno”.
L’operaio, l’uomo che egli vedeva come protagonista del suo tempo, non chiede al prete altre cose se non appunto la prospettiva dell’esistenza e della salvezza. Questo era il fondo del suo messaggio, a cui egli legava tutto il suo impegno» (26).
La scuola: don Milani e Illich
Che la scuola rappresentasse il tratto maggiore dell’opera di don Milani è cosa risaputa, fino a essere diventata semplice retorica. Ma ciò che fece la differenza dell’esperienza di Barbiana, mantenendola valida anche per noi oggi, fu lo stile e la comprensione della scuola stessa che don Milani cercò di realizzare: «Il principale impegno di don Milani era quello della scuola. Da una parte, la sua era una scuola socratica, cioè basata sul colloquio, sullo scambio, sulla continua comunicazione fra il docente e il discepolo. Non a senso unico, ma una scuola rivolta non all’individuo singolo bensì al popolo. Quindi il dialogo a due è sempre inserito in una comunità.
In questo senso voglio dire che la sua era una scuola pubblica, come sottolineava spesso. Qualche volta ne parlava come l’ottavo sacramento, nel senso di costituire attraverso di essa una comunità; in cui la funzione docente veniva a sciogliersi o a fondersi con la funzione discente – costituendo così un’unica realtà omogenea. Quegli anni sono dentro noi più anziani» (26).
Ed è proprio intorno alla scuola che Prodi accosta don Milani alla visione della sua crisi elaborata da Ivan Illich: «Credo sia possibile accostare, senza troppe forzature, questa visione con la critica di Illich a un sistema scolastico che si è andato costituendo, negli ultimi secoli, come corpo separato della società» (26).
Entrambi, Illich e don Milani, consapevoli che il modello di scuola prodotto dalla modernità, teso a garantire che il cittadino fosse anche suddito dello Stato, era entrato oramai in una fibrillazione irreversibile: «Due strade diverse che però miravano allo stesso fine. Don Milani e Illich hanno capito con grande anticipo sui tempi che quella scuola, che pur aveva avuto tanti meriti negli ultimi secoli ed era cresciuta poco a poco dalla scuola confessionale post-tridentina, era in crisi. Questa scuola, che identificava la propria funzione nella formazione prima del suddito e poi del cittadino dello Stato liberale era in grave crisi, perché nella realtà che Milani e Illich vedevano avanzare, da prospettive diverse, si mostrava impotente ad affrontare la nuova realtà.
Tutti e due avevano ben preciso che non bastava più un corpo scelto di insegnanti selezionato per la conservazione e la trasmissione della cultura. Per entrambi tutta la società doveva diventare, in qualche modo, una società educante, senza che il compito possa essere affidato a un corpo separato, a dei professionisti per questo stipendiati» (26).
La scuola radicata nella comunità
E fu proprio nell’orizzonte di don Milani e Illich che Prodi sviluppò la sua visione di scuola radicata nella comunità, che cercò di realizzare (senza riuscirvi) nei passaggi politici, locali e nazionali, a cui concesse con persuasione profonda le sue competenze di storico: «Credo che questo sia ancora oggi un problema estremamente attuale e che in realtà negli anni Settanta in Italia si è imboccato un cammino molto divergente da queste prime intuizioni. Nelle mie esperienze sono anche un po’ legato a questo tema, e mi viene in mente quando progettavamo i distretti scolastici insieme a un altro trentino, che era in queste materie mio maestro e predecessore nella direzione dell’Ufficio studi e programmazione del Ministero della pubblica istruzione – Giovanni Gozzer.
Pensavamo a questa scuola pubblica «non statale e non privata», radicata nella comunità, e poi ci siamo visti arrivare nel 1974 i Decreti cosiddetti Delegati; che invece, secondo me, hanno portato la chiusura della scuola ai non addetti ai lavori. E di qui, tante amarezze e poi tante energie che si sono spente» (27).
I giovani: poveri di parola
Ciò che caratterizzava la gioventù borghese dei tempi di don Milani, è divenuto nel frattempo indice diffuso della condizione giovanile in Italia: «Oggi la situazione è diversa da quella dei tempi di don Milani, ma tutti i nostri ragazzi sono diventati un po’ i “signorini” come lui diceva a proposito dei figli dei borghesi. Sono tutti “signorini”: oggi è difficile trovare la radicalità delle situazioni e delle contrapposizioni di classe che pure al tempo della scuola di Barbiana erano realtà. Oggi i nostri ragazzi sono signorini che hanno perso uso della parola e per questo sono tutti poveri» (27).
Il tratto che accomuna i nostri giovani oggi è quello di una perdita della parola, della creatività del linguaggio: «Naturalmente estremizzo un po’, però voglio dire con questo che è proprio in questa perdita della parola, della capacità di comunicare, di cercare, di inventare la parola, che l’insegnamento di don Milani diventa nella società di oggi estremamente significativo – in una stagione dell’omogeneizzazione del linguaggio e della sua riduzione a messaggio televisivo [e, a vent’anni di distanza, potremmo aggiungere digitale – ndr]. La limitatezza del linguaggio, che don Milani vedeva come propria a un certo ceto proletario dei suoi tempi, rischia oggi a mio avviso la nostra limitazione che produce la perdita della nostra sovranità, la perdita della possibilità di essere cittadini sovrani – per usare un termine caro a un altro amico che non c’è più, Roberto Ruffilli.
In questo senso, don Milani diceva nella Lettera a una professoressa che “il problema degli altri è uguale al mio, sortirne insieme è politica, sortirne da soli è avarizia”. Il problema politico è “sortirne insieme”, e questo appunto è uno dei punti più tremendi della nostra situazione» (27).
La capacità di disobbedire
Un altro perno della riflessione di don Milani è rappresentato dalla riconfigurazione del rapporto dei cristiani con il potere politico dello Stato. Che, per rompere con i paradigmi ricevuti, doveva passare necessariamente attraverso un atto di disobbedienza – che, per don Milani, rappresentava la virtù nuova di un certo modo di posizionamento del cristianesimo e della Chiesa nei loro rapporti con lo Stato: «Vorrei ora fare un riferimento alla Lettera ai cappellani militari. Il problema centrale su cui si fonda il concetto di obbedienza di don Milani è la virtù nuova, la virtù della disobbedienza non è una contraddizione perché proprio dalla capacità di disobbedire, non dalla sottomissione dei servi, nasce l’obbedienza come virtù.
Non è quindi un’esortazione in senso anarchico-rivoluzionario come quella predicata da tanti falsi maestri negli anni successivi alla sua morte, ma un invito a ritrovare la responsabilità di ciascuno all’interno della storia, della società e della Chiesa. E questo è ben diverso» (27).
Questa responsabilità di ciascuno all’interno della storia implicava il superamento dell’accomodamento concordatario sul quale il cattolicesimo italiano rischiava di cullarsi, perdendo così la capacità di incidere come novità nella vita del Paese: «Quello che lui voleva era che l’Italia uscisse dalla mentalità concordataria, cioè dalla fusione dello Stato e della Chiesa che avevamo ereditato dal Concordato mussoliniano e ancora più in là dai concordati precedenti tra i pontefici e i sovrani. Una cosa che ripeto sempre, e che io ritengo importantissima anche se nessuno in Italia sembra ricordarsene, è che solo dal 1984 (cioè molto tempo dopo la morte di don Milani), da quello che viene chiamato il concordato “Craxi”, i vescovi non giurano più fedeltà allo Stato.
L’obbedienza del cristiano stesso allo Stato si è trasformata radicalmente. Abbiamo attraversato questi anni senza accorgercene, una delle rivoluzioni secolari più importanti di questo passaggio, perché appunto quelle due realtà ritrovassero in un qualche modo la loro autonomia, anche se il cammino è ancora lungo» (27-28).
Il profeta
Per riferimento a don Milani, nel 1997, Prodi mette in campo il tema della profezia – intorno al quale, poi, raccoglierà parte dei suoi scritti sulla comprensione della modernità e della sua fine storica: «Per concludere credo che si possa parlare, come è stato detto da don Nesi e da altri, della “profezia” come cuore della storia per definire don Milani. Il profeta è colui che ha come suo compito fondamentale la denuncia del potere, la denuncia delle deformazioni del potere, la denuncia delle oppressioni da qualsiasi parte vengano, non sulla base delle parole umane e delle ideologie ma della parola di Dio» (28).
Il profeta, allora è colui che vede come «il potere è in qualche modo il male che domina il mondo e che don Milani denuncia in ogni sua forma. Nei suoi appunti anonimi e negli appunti inediti di don Milani (pubblicati da Pecorini) ci sono queste su riflessioni su Savonarola – un profeta che fu bruciato. Don Milani ricorda Savonarola, ricorda la frase di Macchiavelli su Savonarola descritto come profeta disarmato e quindi condannato a essere sconfitto, e in un qualche modo misura se stesso con Savonarola» (28).
Se Savonarola rappresenta la fine della profezia nella Chiesa cattolica, da un punto di vista storico, la storia offre però sempre occasioni affinché un credente possa rispondere a essa come spazio in cui risuona la chiamata di Dio: «“Magro bilancio per la Chiesa – scrive don Milani – il giorno del rogo di Savonarola: due fratelli salgono verso il paradiso ed un papa ed un vescovo precipitano nell’inferno. Non è un giorno di festa per la Chiesa…”. E poi dice: “Chi guarda la realtà quotidiana dei poveri invece che i libri dei ricchi sembra un profeta dinanzi al mondo che legge solo quelli”.
Ecco, questa era la capacità di lettura che don Milani aveva della realtà del suo tempo e che lo rendeva davvero un profeta» (28).
Si ringrazia la famiglia per aver messo a disposizione il testo del prof. Paolo Prodi su don Milani. Le indicazioni delle citazioni si riferiscono alla versione pubblicata sulla rivista Didascalie. Alcuni passaggi sono stati leggermente modificati, per ragioni redazionali, lasciando intatto il contenuto (ndr).