Donne: diaconato no, episcopato sì?

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Con un commento alla pubblicazione del mio post rilanciato su SettimanaNews (che si può leggere qui), Giuseppe Guglielmi ha colto un punto importante dello stile teologico e istituzionale con cui il Dicastero per la dottrina della fede ha impostato la “pars construens” del futuro documento sulla donna nella Chiesa. Ecco che cosa ha osservato il teologo di Napoli:

«Non sono bravo con i distinguo e gli equilibrismi ecclesiastici, ma mi sembra di capire che con il n. 3 (storia delle donne ecclesialmente autorevoli) si voglia non dico distinguere ma perlomeno estendere la potestà giuridica oltre la potestà d’ordine, così da includere i non chierici e dunque anche le donne in compiti fino ad oggi riservati al clero? Questa è la posizione avanzata da tempo da diversi canonisti…».

Proprio su questo punto io credo che la tradizione canonistica e quella teologica debbano confrontarsi più a fondo ed elaborare nuovi modelli di lettura della tradizione e così anche aprire nuove strade alla Chiesa del futuro. Mi pare infatti che proprio tra le “fonti” che la Relazione del gruppo 5 segnala come punti di riferimento del futuro documento, almeno due si muovano precisamente nella direzione segnalata da Giuseppe Guglielmi. Effettivamente nel breve documento si richiama una “teoria” che è stata proposta apertamente in Querida Amazonia dove si afferma al n. 103:

«In una Chiesa sinodale le donne, che di fatto svolgono un ruolo centrale nelle comunità amazzoniche, dovrebbero poter accedere a funzioni e anche a servizi ecclesiali che non richiedano l’ordine sacro e permettano di esprimere meglio il posto loro proprio. È bene ricordare che tali servizi comportano una stabilità, un riconoscimento pubblico e il mandato da parte del vescovo. Questo fa anche sì che le donne abbiano un’incidenza reale ed effettiva nell’organizzazione, nelle decisioni più importanti e nella guida delle comunità, ma senza smettere di farlo con lo stile proprio della loro impronta femminile».

Il modello che qui viene proposto ritorna ad una scissione tra “ordine” e “giurisdizione” che è stata patrimonio della Chiesa latina per più di un millennio.

Il modello medievale della “potestà di governo”

In questo modello medievale e moderno, che arriva fino al 1983 e che non era pensato secondo un pensiero funzionale tardo-moderno, i due poteri (quello di ordine e quello di giurisdizione) facevano capo a due soggetti diversi.

Il sacerdote-presbitero era il depositario del potere di ordine, mentre il vescovo era il titolare del potere di giurisdizione. Diceva Tommaso d’Aquino, in una splendida sintesi: il potere di ordine è autorità sul Corpo di Cristo sacramentale; il potere di giurisdizione è autorità sul Corpo di Cristo ecclesiale. Secondo questo modello, che è rimasto in piedi sostanzialmente fino al Concilio Vaticano II, l’episcopato non era un grado  del “sacramento dell’ordine”, come si legge ancora al can. 949 del Codice del 1917.

In questo modo potremmo restare molto sorpresi dall’apprendere che le donne, se investite di autorità ecclesiale, assumerebbero aspetti tratti dal modello classico del vescovo, invece che del prete. Esse avrebbero un’autorità sulla Chiesa come Corpo di Cristo istituzionale, senza poter avere alcuna autorità sul Corpo di Cristo eucaristico. Diversamente dai “laici maschi”, che potrebbero sempre essere ordinati, la donna “potente” sul piano della giurisdizione, sarebbe sempre sacramentalmente “impotente”.

Ovviamente il nuovo modello, introdotto dal Concilio Vaticano II e poi dalla riforma del Codice del 1983, ripensa completamente le cose. La distinzione non è più tra “potestas ordinis” e “potestas iurisdictionis”, ma tra i “tria munera” (regale, profetico e sacerdotale) a cui partecipano tutti i battezzati, mentre i ministri ordinati (diaconi, presbiteri e vescovi) esercitano in modo specifico le funzioni di governo, di annuncio e di santificazione, senza alcuna separazione tra le tre funzioni. Il modello del Vaticano II non si riesce a gestire bene, se si reintroduce la distinzione tra “ordine” e “giurisdizione”, proprio per il fatto che si tratta di un modo diverso di pensare l’autorità.

Alcune curiosità sull’episcopato medievale

Per capire i limiti di questa proposta, che sembra convincere alcuni canonisti, è sufficiente citare due elementi della tradizione medievale e moderna sull’episcopato, che abbiamo dimenticato. Anzitutto, si deve ricordare che “ordinati” erano diaconi e presbiteri (sacerdoti), mentre i vescovi erano “consacrati”: l’atto con cui si diventava vescovi non era un sacramento!

La teologia medievale perciò ha dovuto inventare la categoria di “sacramentale” proprio per giustificare l’importanza della “consacrazione episcopale”, che per loro non era un sacramento. È curioso sapere che le nostre discussioni attuali sulla “benedizione” (anche delle coppie in condizioni irregolari) hanno come precedente le discussioni medievali sulla consacrazione episcopale.

Questo implicava anche una grande differenza nel pensare le “condizioni” e gli “impedimenti” per l’ordinazione e per la consacrazione: ad es., la minore età era impedimento all’ordinazione, ma non alla consacrazione episcopale. Nella storia, anche del 500, abbiamo ancora vescovi consacrati a 12 anni, mentre si diventava presbiteri solo a 25 o a 30 anni!

Non è un caso che il sesso femminile, che viene ancor oggi considerato impedimento all’ordinazione, non lo sia, di fatto, per la assunzione di uffici di giurisdizione. La storia ci insegna qualcosa, anche se non ci garantisce di trovare sempre la via migliore.

La novità del Concilio Vaticano II

Qui vorrei ricordare, con molta simpatia, un’espressione fenomenale di padre Ghislain Lafont, quando diceva che la più grande novità del Concilio Vaticano II è stato il recupero del carattere sacramentale dell’episcopato.

Molti anni fa, ascoltandolo, non capivo bene che cosa intendesse e perché desse tanta importanza a una cosa che mi appariva secondaria. Questo recupero, in realtà,  trasforma radicalmente la mens dell’esercizio dell’autorità nella Chiesa cattolica. Entro questa novità si iscrive anche la nuova versione del “potere di governo”, che ha come condizione di esercizio l’ordinazione, cosa che leggiamo nella legge canonica solo dal 1983 (cf. can. 129).

È evidente che la nuova visione guadagna molto sul piano teologico, ma può essere anche alla base di una maggiore “clericalizzazione”. Se l’ordinazione è una condizione per l’esercizio della giurisdizione, non si tratta di una piccola novità.

Per questo appare inevitabile che la possibilità di attribuire autorità alla donna non derivi dalla riesumazione delle antiche distinzioni, utilizzate in modo asettico, ma solo pensando più a fondo la ritrovata unità di ordine e di giurisdizione. Sarebbe paradossale che, solo per la donna, dovessimo reintrodurre nel corpo ecclesiale una separazione tra ordine e giurisdizione che il Concilio Vaticano II ha inteso esplicitamente superare.

Ordine e giurisdizione da riconciliare

Altrettanto paradossale sarebbe pensare che la clericalizzazione –  come sembra intendere Querida Amazonia e in scia ad essa anche le anticipazioni in bozza del nuovo documento del Dicastero presentato dal gruppo n. 5 – sia il frutto dell’ordinazione sacramentale e non dell’esercizio della giurisdizione in un ufficio ecclesiale.

Pensare che il “carattere femminile” sia salvaguardato soltanto dall’“assenza di ordinazione”, e che possa invece essere del tutto compatibile con ogni forma di esercizio della giurisdizione non sacramentale, appare contraddittorio e difficilmente giustificabile.

Appare come l’ombra lunga di un pregiudizio, magari infarcito di “principi mariani” o di “generi grammaticali femminili della parola ‘Chiesa’”, usati ancora una volta come postazione di contraerea nei confronti di una nuova coscienza culturale ed ecclesiale. Un’“impronta femminile” garantita dalla riserva maschile per l’ordinazione, che può invece cadere per l’esercizio della giurisdizione, appare una tesi priva di alcun fondamento.

Anche questa prospettiva di “valorizzazione della donna”, che può riguardare uffici di rilievo ecclesiale, purché non riguardi l’ordinazione, mi sembra guidata da un pregiudizio non teologico, ma da un deficit culturale.

L’autorità femminile, nella Chiesa, può riguardare il Corpo di Cristo, non solo nella sua accezione ecclesiale, ma anche nella sua accezione sacramentale: anzi, direi che può riguardare il primo solo se riguarda anche il secondo. Guai se rinunciassimo a questa nuova evidenza, maturata con il Concilio Vaticano II, per l’incapacità di pensare l’autorità della donna nel contesto contemporaneo e nello “spazio pubblico”.

Dobbiamo arrivare a pensare una donna che possa essere riconosciuta nella sua autorevolezza anche grazie alle categorie di recupero della sacramentalità episcopale, senza dover necessariamente riesumare la mens diplomatica e secolare dell’antico Caeremoniale Episcoporum... per consentirci di sopportare che una donna possa “presiedere” un ufficio, possa presiedere anche una comunità, ma continui a non avere alcun ruolo di presidenza all’altare.

Questa resistenza istintiva e viscerale, per quanto coperta da presunti “principi”, assomiglia più ad un sospetto di “impurità” che a un limpido ragionamento giuridico.

  • Pubblicato il 7 ottobre 2024 sul blog dell’autore Come se non.
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