Virgilio Balducchi ha dedicato gran parte della sua vita di presbitero al servizio dei detenuti. Per vent’anni è stato cappellano del carcere di Bergamo, dopodiché ha ricoperto il ruolo di ispettore generale dei cappellani carcerari italiani. Nel lasciare l’incarico ha scritto il libro Carcere e fede. Il Padre libera i prigionieri, Oltre Edizioni, 2017.
- Don Virgilio, quando sei entrato per la prima volta in un carcere?
Il mio primo contatto col carcere l’ho avuto – da giovane prete – negli anni ’80, quando ero col Gruppo Abele: un dissociato delle Brigate rosse aveva chiesto ad una volontaria di fare un percorso di spiritualità. Il mio primo incontro con questo detenuto è avvenuto nel carcere di Torino. Ricordo bene quel giorno: non è stato un incontro nel silenzio e nel raccoglimento; mi sono ritrovato nella sala dei colloqui collettivi, in mezzo alla confusione. Non è stata certamente, quindi, una prima esperienza positiva. Nei colloqui successivi è andata meglio.
Quel primo incontro mi ha comunque lasciato la sensazione di trovarmi di fronte ad un’istituzione chiusa, oppressiva e priva di senso. Mi sono detto che non avrei mai fatto il cappellano, perché ho pensato che la figura del cappellano fosse troppo organica, quindi funzionale al sistema carcerario.
- Invece sei finito col fare il cappellano…
Al decimo anno del mio sacerdozio sono tornato in diocesi di Bergamo a fare il curato in parrocchia. Questa esperienza mi ha consentito di vivere nella casa canonica con giovani obiettori di coscienza con me dedicati all’oratorio frequentato da ragazzi, italiani e stranieri, che venivano da famiglie povere e con problemi. Tra di loro c’erano anche figli di detenuti. Ho conosciuto meglio, in questo modo, situazioni che avevano a che fare col carcere.
Dopo un po’ di anni, il vescovo ha pensato che io fossi pronto per fare il parroco. Ma francamente la prospettiva non mi attirava. Pensavo – come penso tuttora – che un parroco fosse troppo preso da cose che poco hanno a che fare col ministero. Alla prima chiamata mi sono sottratto. Il mio parroco – che mi voleva molto bene – mi ha aiutato a restare nel servizio dell’oratorio.
Si è aperta poi la possibilità per la diocesi di aggiungere un secondo cappellano nel carcere di Bergamo. Mi è stato fatto sapere. Mi sono di nuovo detto che non volevo farlo. Ma sono andato a rileggermi i compiti del cappellano e ci ho riflettuto: per la prima volta ho avuto la percezione che, al di là di ciò che continuavo a pensare, la figura del cappellano potesse rappresentare per i detenuti uno dei pochissimi spazi di libera relazione a loro consentiti.
Il regolamento – ma anche l’organizzazione pastorale – dice chiaramente che il cappellano è inviato per far avvertire che c’è una comunità cristiana anche per le persone che vivono in carcere. La libertà di religione deve sussistere anche dentro le mura. Ho quindi pensato che il mio compito potesse essere quello di garantire un “luogo” di libertà e di apertura in un mondo di chiusura. Così ho provato…
- Per quanto tempo hai fatto da cappellano?
L’ho fatto, sempre a Bergamo, per vent’anni: è stata la mia più lunga esperienza pastorale. Sono entrato col vantaggio dell’esperienza che avevo maturato coi ragazzi tossicodipendenti. Allora come oggi, infatti, la popolazione carceraria conta una grande presenza di tossicodipendenti. In comunità di recupero era più facile far avvertire loro un senso di comunità. In carcere è più difficile. Ma ci ho provato.
Ministero e carcere
- Quanto tempo passavi in carcere?
Per contratto dovevo fare diciotto ore alla settimana, su cinque giorni, ma ne facevo molte di più. In pratica, ero in carcere tutti i giorni, alla mattina o al pomeriggio, a volte alla mattina e anche al pomeriggio. Ma non sono mai stato solo: con me ho sempre avuto volontari.
- Come sono stati i tuoi vent’anni in carcere?
Dopo tre o quattro anni sono andato un po’ in crisi. Stavo veramente portando un annuncio di libertà, come mi ero proposto? Il desiderio di libertà era già dentro al vissuto interiore dei detenuti. Le mie parole per loro erano belle, ma sentivo che mancava qualcosa. Nel brano del Vangelo in cui Gesù annuncia a Nazaret la liberazione dei prigionieri, ho scoperto allora meglio il suo senso. L’annuncio non doveva essere solo con le parole, appunto, ma anche con fatti concreti.
Da quel punto mi sono convinto che se per il 50% del mio tempo utile dovevo lavorare dentro al carcere, per l’altro 50% avrei dovuto lavorare al di fuori del carcere, per preparare luoghi di accoglienza e di libertà nelle comunità cristiane, per le persone detenute e con le persone detenute. Da ciò è nato un percorso che ha maggiormente coinvolto le comunità parrocchiali, nella mia diocesi e nelle altre diocesi lombarde, attraverso le Cappellanie, le Caritas diocesane e l’istituzione della Conferenza Regionale Volontariato e Giustizia, con una trentina di associazioni operanti negli istituti di detenzione.
L’annuncio della liberazione doveva sempre più avvenire, per me, non solo con le parole giuste, non solo con la preghiera, ma anche con la ricostruzione dei vissuti, nelle case e col lavoro. Sono così nate e cresciute le cooperative di lavoro e gli appartamenti di accoglienza per facilitare la fuoriuscita dal carcere. Ora queste esperienze sono piuttosto diffuse, ma più di vent’anni fa erano del tutto nuove.
Naturalmente da solo non avrei potuto fare nulla. Ho potuto fare sempre insieme ad altri credenti in Cristo e anche assieme a non credenti o non praticanti, nel senso di persone che non andavano in chiesa: tutti insieme, al lavoro, nella associazione che ho contribuito a creare, così come in altre associazioni.
- Che cosa, questo, aveva a che fare la spiritualità dei detenuti?
C’era e c’è una domanda che mi toccava e che mi tocca ancora in profondità: le persone che sono in carcere quali cammini di spiritualità e di fede possono personalmente fare? La comunità cristiana porta la sua presenza, porta i sacramenti, ma dentro di loro cosa accade?
Un giorno mi è venuto in mente di fare una piccola inchiesta su dieci detenuti. Con loro avevo evidentemente un bel rapporto. Qualcuno era tossicodipendente, qualcun altro aveva commesso un omicidio, uno era ancora legato alle Brigate rosse. Ho preso quindi vari tipi di autori di reato. C’erano già state le loro confessioni e ammissioni di colpa. Ho chiesto a ciascuno di loro: “hai mai pensato di riparare al male che hai fatto?”. La seconda domanda che ho posto è stata: “hai mai parlato di questo con qualcuno in carcere?”. La terza: “sapresti come cominciare?”.
Queste dieci persone detenute mi hanno detto – al di là delle parole che avevano fatto con me in confessione e fuori della confessione – che non avevano mai parlato con nessuno di questo aspetto così importante e delicato della loro coscienza, quindi della loro spiritualità. Nei percorsi di reinserimento sociale, di per sé, gli educatori avrebbero dovuto aiutare gli autori di reato a riparare al male fatto. Ma non era e non è per niente facile. Non c’erano ancora dei modelli. Quei detenuti avevano certamente il desiderio di riconciliarsi, soprattutto con i loro familiari: sapevano di aver fatto molto male soprattutto a loro, per le fatiche e le sofferenze che avevano procurato, direttamente e indirettamente.
Che cosa sarebbe stato possibile fare di più e diverso? Mi sono chiesto: ci sarà pure qualcosa o qualcuno che possa provare a dare corpo al desiderio di riparazione che queste persone hanno in fondo al loro cuore! Io lo sentivo. Dalla domanda, ho incrociato il modello della giustizia riparativa che è evidentemente cosa diversa dalla riconciliazione “religiosa”. Forse devo chiarire.
Per giustizia riparativa si possono intendere infatti diversi modelli. Io ho fatto riferimento a quello che arriva a proporre la mediazione penale tra colui che ha commesso un reato e colui che l’ha subito. In questi termini, ho lavorato sulla riparazione sociale, con i lavori socialmente utili e altre cose di questo tipo. Nel 2000 abbiamo fatto i primi esperimenti di riparazione sociale nei Comuni. Sono, anche queste, cose che ora sembrano abbastanza scontate, ma allora non lo erano affatto.
Il lascito di un’esperienza
- Cosa ti senti di consegnare dopo la tua lunga esperienza in carcere?
Per quanto ho già detto, io oggi consiglierei alle Cappellanie due cose: visitare i prigionieri per proclamarne la libertà e proporre loro percorsi di riconciliazione. Mi sembra l’essenziale. È chiaro che questo non è solo il compito del cappellano, come non è solo del parroco nella parrocchia.
Le finalità di fondo che ho indicato dovrebbero, secondo me, ispirare la pastorale del carcere, sia per le persone detenute, sia per quelle che ne escono e pure per quelle che oggi neppure ci entrano, grazie alle nuove condizioni legislative. Oggi, infatti, per alcuni reati, si può passare immediatamente all’affidamento al territorio, anziché scontare una pena in carcere, così come avviene da molto più tempo per i minori. Anche nelle nostre parrocchie, in questi ultimi cinque anni, abbiamo visto sempre più frequentemente situazioni di questo tipo.
- Hai scritto il libretto “Carcere e fede“. Ci sono dunque religiosità e fede manifeste in carcere?
Sicuramente. Posso dire che in carcere ho visto il Signore lavorare molto e in varie maniere. Forse si è fatto aiutare un poco da me, sicuramente dai volontari, ma – direi – soprattutto dagli stessi detenuti. Ricordo che spesso erano i detenuti a dire ai compagni di cella: “cosa stai a fare lì? È domenica, vieni anche tu a Messa!”. L’invitato veniva magari una volta e poi non veniva più, oppure veniva ancora e poi sempre: è sulla testimonianza di altri che si entra nella comunità di fede.
Nella chiesa dove celebravo la Messa, ci stanno un centinaio di persone. La metà dei detenuti che stava camminando verso il proprio incontro o re-incontro con Dio era sempre nei primi posti. Gli altri stavano un po’ a guardare. Si può solo testimoniare: il dono della fede lo dà Dio, a tutti indistintamente; uno può rispondere “sì”, l’altro, in quel momento, può dire “no”, perché non ci riesce. Ma questo capita a tutti.
La fede poi cos’è? Per me sta nel cogliere la presenza di Dio che è dentro ogni persona. È molto importante che il prete, con gli altri – diaconi e volontari -, abbia questo occhio verso il bene che è nel cuore di ogni persona detenuta. C’è una presenza di Dio che sta dialogando in tutti.
Stava dialogando anche con me che ero lì in carcere a cercare di annunciare il Vangelo: prima di chiedere alla persona di fronte a me se avesse avuto fede o meno, sentivo di essere lì per annunciarle la buona notizia che quella già portava dentro di sé, almeno in parte. È questo che, secondo me, fa scattare la voglia di provare a credere – ad avere fede – con tutte le contraddizioni che ci sono nella vita in carcere e, ovviamente, non solo in carcere. Peraltro, il carcere è un posto in cui – se non ci si intontisce con i farmaci per non pensare – le domande fondamentali vengono da sé. Si è, in qualche modo, costretti a rispondervi.
- Ricordi qualche caso?
Ricordo persone che hanno ucciso un’altra persona, a cui dicevano di voler bene. Che cosa succede a questi? Qualcuno rimuove tutto, come se non fosse successo niente, dicendo a sé stesso: “sconto la mia condanna, rigo ben dritto, cerco di rispettare le regole e, prima o poi, esco”. Qualcun altro comincia a chiedersi: “come ho fatto io a fare quello che ho fatto alla persona a cui volevo bene?”. Naturalmente nasce la domanda: “chi sono io? sono ancora degno di vivere?”. Quando si arriva a quel punto di coscienza, la situazione è assai delicata, perché è forte il rischio del suicidio.
Qualcuno mi diceva: “confessami, confessami perché non ne posso più!”, come se l’assoluzione potesse togliere la sofferenza, la fatica di vivere in quella condizione. Mentre qualcun altro mi diceva: “io non mi confesso, perché Dio non può perdonare la mia colpa, non può perdonare me; neppure Dio può perdonarmi, perché io non posso perdonarmi”. Ricordo una persona in particolare che ha impiegato anni per riuscire a perdonarsi e a sentirsi perdonata da Dio: la persona che aveva ucciso non poteva più dirgli “ti perdono”, i parenti men che meno.
Questi sono solo alcuni esempi per dire che ogni vita può essere aiutata, a suo modo, verso la liberazione dal male. Ci sono sempre cose buone che la persona può fare. Ricordo un’altra persona che non ci riusciva in nessun modo. “Hai una sola maniera per venire fuori da questa situazione”, le ho detto. “Impossibile, padre”. “Tu hai ammazzato una persona”. “Certo, è così, ormai non posso farci niente”. “Adesso – ho detto – tu puoi lavorare per due persone: devi fare il bene per due, perché tu hai impedito a quella persona di fare ancora del bene nella sua vita”. Dopo un momento di esitazione mi ha detto che non avevo tutti i torti.
Ricordo ancora il caso di un detenuto che, entrato in una cella, vi ha trovato una Bibbia abbandonata. L’ha presa in mano per la prima volta e quella Bibbia è diventata il suo pane quotidiano. Certamente è un solo caso, ma si è effettivamente verificato. Dopo 15 anni di carcere è finito in un eremo. Sono andato a trovarlo.
Più di una persona mi diceva: “quando sono fuori dal carcere non vado mai a Messa, però quando sono qui, ci vengo sempre!”. Che dirgli? “vediamo che cosa si può fare anche con te!”.
Fede e comunità
- Nel libro hai scritto che ci sono tante soglie da superare per accostarsi alla fede: la prima è il giudizio degli altri.
Sì, è sicuramente così. Ma in carcere si diventa forse più coraggiosi, anche rispetto al giudizio degli altri circa la fede, perché, come ho detto, si devono fare per forza i conti con sé stessi e quindi con gli altri. In carcere, poi, si fa alla svelta a trovarsi di fronte a qualcuno che misura la coerenza: “bravo, tu vai a Messa, ma come la mettiamo con le cosette che tu dici e che tu fai?”. In carcere – se bari – sei subito pescato.
- Si è più in vista nella comunità del carcere?
Certo! Con quelli con cui andiamo a Messa la domenica ci vediamo una volta alla settimana, se va bene, mentre in carcere si è a Messa – io dicevo – 24 ore su 24, pur senza averlo scelto.
- Si può parlare di comunità credente dentro al carcere?
Devo ringraziare moltissime persone – non poche! – che mi hanno davvero aiutato a costruire la comunità cristiana all’interno del carcere. Alcune erano persone persino “stimate” per i loro crimini.
Certamente in carcere bisogna stare molto attenti: bisogna saper accogliere senza essere ingenui, dare fiducia senza credere a tutto quel che circola. Ma, a volte, mi sono vergognato come prete davanti a persone che conoscevano la Bibbia meglio di me, pregavano più di me ed erano più trasparenti di me.
- Si può persino dire che, per certi versi, il carcere è un luogo privilegiato per la fede?
In carcere ho capito meglio che il dono della fede è strettamente intrecciato col vissuto. Non bisogna andare necessariamente in carcere per capire questo. Il Signore è all’opera ovunque.
Continuo a pensare che il carcere andrebbe abolito, se non mantenendo quel minimo di cui parlava il cardinal Martini, ossia il minimo per impedire che chi sta facendo del male possa continuare a farlo, specie a danno dei più deboli, ma per puntare al riscatto, alla redenzione.
- La fede in Dio in carcere passa precisamente per Gesù Cristo?
Ci sono naturalmente tante maniere di credere in Dio. Il carcere è divenuto un grande laboratorio non solo di ecumenismo cristiano ma anche di inter-religiosità. Per me Dio Padre è sempre il Dio di Gesù Cristo, perché Dio si è incarnato in Gesù. Il discorso della riconciliazione e della riparazione è un esempio di incarnazione divina nella bontà. Si può credere e si può non credere, a parole. Ma l’incarnazione divina è sempre l’incarnazione di una bontà.
E solo questa è veramente credibile, anche poi con le parole. Ricordo il rapporto dei detenuti con i figli. A volte erano rotti. A volte erano fortissimi e tenevano in vita. Qualcuno diceva: “secondo me quel figlio non è mio, perché è troppo bravo!”. Un altro padre mi ha detto: “se vado fuori prendo mio figlio a sberle, perché ha cominciato a usare la coca”. Ed io: “ma scusa, tu cosa facevi? E allora?”.
La richiesta poi di capire il Vangelo, mi veniva anche, ad esempio, da musulmani sposati con donne italiane e i cui figli erano battezzati. In quei casi cercavo di operare con tutta la delicatezza possibile, perché stavano parlando di cose che ad altri musulmani non piacevano affatto. Stavano rischiando. Anch’io. Intrattenevo questi dialoghi assieme a un diacono e a un volontario. Leggevamo insieme il Vangelo di Gesù Cristo tra pari.
Pastorale carceraria
- Come orientare la pastorale carceraria oggi e in prospettiva?
Bisogna, sempre di più, che non vada solo il cappellano in carcere: bisogna andare – come da tante parti già si fa – con una équipe pastorale, in cui il prete fa la sua parte, senza che sia scontato che sia necessariamente lui il referente per l’amministrazione, così come il coordinatore della attività.
Ci sono, ad esempio, posti in Francia in cui il ruolo che da noi è svolto dal prete lo fa una suora o un laico, mentre il prete va naturalmente a celebrare l’eucaristia e ad annunciare la Parola.
- In Italia sarebbe ora possibile?
In Italia no! In Italia esiste solo il cappellano. Negli ultimi due anni in cui sono stato coordinatore nazionale, ho provato a fare in modo che i vescovi – quando nominavano i loro cappellani – provassero ad indicare anche dei diaconi, delle religiose o dei religiosi e dei laici organizzati in associazione per cominciare a far capire, sempre più, anche alle Istituzioni, che la rappresentanza ecclesiale può essere, anche ufficialmente, molteplice. Ideale, con tutte le cautele, potrebbe risultare il riconoscimento di una équipe, comprendente anche qualche detenuto ed ex detenuto.
- Un’ultima domanda personale: per la tua fede, quanto è stato importante il carcere?
Sicuramente i detenuti mi hanno aiutato a vivere il mio sacerdozio. L’ho detto quando ho lasciato il carcere, durante il saluto ufficiale. C’era anche il mio vescovo. Mi hanno invitato a dire qualcosa e l’unica cosa che ho saputo dire è che ringraziavo i detenuti per avermi aiutato a “fare il prete”.
Ho inteso che proprio quelle persone mi avevano costruito come uomo, come persona umana innanzi tutto, mi avevano forgiato anche nella mia vocazione: mi hanno conferito un’impronta di prete che penso di aver conservato sino ad ora.
Quando, ad esempio, ho intrapreso i nuovi percorsi sulla riconciliazione di cui ho detto, mi sono trovato – sia all’interno che all’esterno del carcere – in una situazione particolare, nella quale mi sono chiesto: “io che faccio le prediche ai detenuti e dico le cose belle che loro dovrebbero fare, ora che mi trovo nello stesso stato d’animo, che cosa penso, che cosa faccio, sono forse migliore?”.