«Oggi più che mai si sente il bisogno di recuperare il senso carismatico del sacerdozio»[1]. Il presbitero non è un semplice funzionario, un semplice esecutore di organigrammi ecclesiastici, ma un uomo libero di testimoniare e di esplicare il suo ministero sacerdotale e la sua missione pastorale in conformità alle esigenze spirituali più profonde della sua anima e del suo desiderio di servire Cristo.
Oggigiorno sembra essersi insinuata in coloro che sono preposti alla formazione dei presbiteri la logica degli addetti alla selezione del personale.
Probabilmente anche nei contesti formativi si è andata sempre più affermando la mutazione antropologica dell’“uomo psicologizzato”, come ha affermato recentemente in un’intervista il cardinal Zuppi[2]. Siamo sulla scia del “riduzionismo” di cui E. Samek Lodovici, nel suo Metamorfosi della gnosi analizza due esempi: il primo è il riduzionismo sociologistico, il secondo è la variante genetica del riduzionismo psicologistico[3].
Ministero e spiritualità
Contro una sua sempre più frequente “psicologizzazione e deontologizzazione” (H. Muhlen)[4], ciò che invece può aiutare in profondità e favorire concretamente un rinnovamento del ministero presbiterale è la ricerca di una spiritualità. Senza una spiritualità adeguata, l’agire pastorale non ha energia, né respiro trascendente. È la via perché possa svilupparsi una tale maturazione.
Il problema è che si può essere anche un prete «maturo» quanto si vuole e non testimoniare nemmeno una scintilla del mistero cristiano! Siamo in presenza di una clamorosa deriva pelagiana.
Ritengo che valga anche per i ministri ordinati quanto afferma per gli sposi il documento del Dicastero per i laici, la famiglia, Itinerari catecumenali per la vita matrimoniale. Orientamenti pastorali per le Chiese particolari: “Ben più grave di qualsiasi carenza psicologica, o di qualsiasi imperfetta dinamica interpersonale, è l’allontanamento da Dio, che innesca nel cuore umano una spirale di chiusura e di egoismo che ostacola il vero amore, perché impedisce l’apertura, il rispetto, la generosità nei confronti dell’altro” (n. 67).
Il prete “è il viator non soltanto per l’inquietudine dell’eterno, che possiede in comune con ogni uomo, ma per vocazione e offerta. Si deve tutto a tutti, e lui non si può mai abbandonare interamente a nessuna creatura. È un pane di comunione che tutti possono mangiare, ma di cui nessuno ha l’esclusiva» (Primo Mazzolari, Adesso, 1° marzo 1949).
Umanità e formazione
L’antropologia cristiana fornisce dati validi per un’interpretazione soddisfacente per una vita spirituale in genere, e presbiterale in particolare, perché comporta il concetto integrale della personalità, motivata da valori soprannaturali.
L’antropologia cristiana apre cioè la strada per una elaborazione antropologica dove il valore trascendente cristiano costituisce il criterio di unificazione dell’essere e dell’agire umano. Per questo è lecito affermare che “mediante la sua inserzione in Cristo, l’uomo si eleva a una dimensione nuova, a un umanesimo trascendente… fine supremo dello sviluppo personale”[5].
La formazione rischia di rimanere impigliata nei riduzionismi del “funzionare”. Si esprimono teorie ma si alimenta meno il divenire sempre più consapevoli di sé spiritualmente e umanamente e dunque capaci di comprendere l’umanità altrui.
Su questa scia si può finire in una selezione efficientista dei candidati al presbiterato, mentre la lettura di una vocazione richiede una profonda ed equilibrata maturazione spirituale e umana, consapevole che le vie di Dio non sono le nostre vie. Può facilmente accadere il paradosso che i discernimenti dei secoli passati, meno avvertiti sul piano psicologico, risultino almeno in certi casi alla fine più aperti sul mistero e capaci di lasciar operare Dio.
Per ciò che concerne i criteri di selezione dei preti, se è giusto e doveroso accertarsi che un aspirante prete non sia affetto da particolari turbe di carattere emotivo ed affettivo, sarebbe d’altra parte insensato pretendere una sorta di normalizzazione del comportamento del prete sulla base di fattori standard e socialmente condivisi come il fatto che egli sia sempre e comunque gradito dalla maggioranza dei suoi parrocchiani o sia sempre ossequioso di determinate abitudini sociali o istituzionali persino quando esse confliggano manifestamente con la carità, la giustizia e la pace evangeliche.
Funzionari di Dio
Si corre il rischio di abbondare di tanti manager, di tanti accademici, di tanti specialisti, di tanti organizzatori di incontri e di eventi, ma non riuscire a trasmettere a tante coscienze inquiete quella forza e quella pace spirituale di cui hanno bisogno e di cui sentono sinceramente l’urgenza.
Abbiamo bisogno di preti “scomodi” e non di preti “comodi”, “normalizzati”, “eleganti”, “omologati”, funzionali al “sistema”, che alla domenica, commentando il Vangelo, sono capaci di accontentare tutti senza dire niente di particolare, senza scuotere le coscienze. Sono i funzionari di Dio.
Troppo spesso, certamente in buona fede, viene loro ordinato di “non” essere se stessi, di non seguire i dettami della loro coscienza, della loro generosità e della loro sensibilità, nonché della loro intelligenza.
Persino i rapporti tra presbiteri, gli incontri formativi, da opportunità in cui si cerca di conoscersi meglio diventano occasioni in cui “sfrugugliare” nelle rispettive irrisolutezze. È sempre in agguato un approccio potenzialmente “iatrogeno”, che limita gravemente la comprensione dell’altro.
Avere voglia di condividere e mettersi a nudo è ovviamente importante umanamente e permette di creare legami più profondi. Fin qui è la parte bella… Il brutto viene quando, come per ogni cosa, si esaspera quel lato alla ricerca accanita di analisi o significati, letture comuni o dietrologiche che non fanno bene alla salute della relazione.
I momenti di incontro divengono, in alcuni casi, terapie di gruppo in cui ognuno racconta dove si trova nella sua vita, espone se stesso anche togliendo quel velo di pudore che la natura della relazione richiederebbe, aspettandosi una comprensione e un aiuto un po’ troppo terapeutico. Si rischia di fare il verso al mito di Narciso, pronti ad ascoltare solo l’eco di sé stessi.
Si snatura il dettato evangelico: li scelse “perché stessero con Lui e per mandarli a predicare” (Mc 3,14). Né con Lui, né per predicare, ma per stare sempre avvitati su se stessi, per parlarsi addosso in un’autoreferenzialità narcisistica o persino autocommiserante in una continua enfasi delle fragilità e delle vulnerabilità. Si rischia di generare, da una parte, uno stile depressivo e, dall’altra, una spasmodica ricerca di “imbellettamento” psichico, non diverso da chi frequenta palestre o case di bellezza. Nel frattempo, la passione per il regno si affievolisce e il fuoco per la missione svanisce.
Paradossalmente, il mondo interiore si dilegua a favore del mondo esteriore; la riservatezza e la preziosità, nonché l’introspezione con sé stessi, viene persa. Si manca di leggerezza e ci si confronta con gli altri anche parlando di se stessi attraverso altri argomenti: cosa leggiamo, le nostre idee pastorali, politiche, un’esperienza comune, in fondo, dicono tanto di noi. Parlare sempre del personale rende quel personale meno intimo, meno interiore e prezioso.
Il peso della realtà
Sopravviene altresì una lettura filtrata da quello che si conosce soggettivamente del mondo, con il rischio di banalizzare la realtà, sostituendo la realtà esterna con la percezione interna. La realtà è terribilmente più complessa. E spesso sfugge, acceca, quando supera le griglie astratte entro cui si tenta di imbrigliarla.
Quando la realtà irrompe dinanzi a noi, abbiamo due possibilità per proteggerci dalla violenza di questa irruzione non desiderata: chiuderci nella nostra bolla cognitiva, nella propria ideologia (anche le competenze professionali possono mutarsi in lettura ideologica della realtà!), e valutare quello che accade prendendone distanza, come un “esso”, un “oggetto”, sempre all’interno della propria griglia concettuale.
Oppure aprirsi, incontrare l’altro al di fuori della propria bolla, come un “tu”, come una persona che vive quella stessa realtà a cui tutti apparteniamo, e comportarsi di conseguenza, proteggendosi e prendendosi cura di quella richiesta d’aiuto, nella consapevolezza dei propri limiti[6].
Tra i presbiteri si parla poco di Dio, come se si temesse di non essere ascoltati, o anche, più probabilmente, non si sapesse cosa dire di Dio. Questo relativo ma reale “silenzio su Dio”, come se Dio non fosse il tema, anzi l’unico tema, che cosa rivela?
Paradossalmente, sono più spesso gli atei, più o meno devoti, a parlare di Dio, come del loro principale antagonista in absentia. Potremmo concludere con un paradosso, dicendo che, in fondo, siamo tutti religiosi, persino i preti, ma non tutti credenti. Tanti cercano Dio tramite i suoi ministri ma non sempre ci riescono.
Gli uomini di Dio, i presbiteri, pur tenuti ad essere irreprensibili sotto il profilo morale e comportamentale, non possono e non devono essere troppo condizionati dalla preoccupazione di non creare “conflitto” nel cuore della comunità e dei singoli parrocchiani, perché, se il loro compito è, come deve essere, quello di guidare, di educare, di formare il gregge, oltre che quello di confortarlo e di aiutarlo nei momenti più difficili del suo cammino e della sua esistenza, essi non possono esimersi sistematicamente dal rimproverare e dall’ammonire quanti siano riluttanti a lasciarsi trasformare costantemente e definitivamente dalla grazia salvifica di Cristo, e soprattutto non possono esimersi dal dire cose o compiere atti che potrebbero costare loro anche molto caro.
Pietra di scandalo
Il prete deve essere credibile, anche se non completo e continuamente alle prese col dilemma tra il suo essere paolino «vaso di coccio» e il «tesoro» di grazia di cui è ministro (2Cor 4,7; cf. Mt 13,44). Deve essere segno del Trascendente, pur essendo immerso nelle esperienze quotidiane di tutti gli uomini. Un uomo che sta in contatto continuo col suo Dio, ma senza mai interrompere la piena esperienza della condizione umana.
Mi piace concludere con le parole che troviamo nell’ultimo capitolo di Il Figlio dell’Uomo di Mauriac: “Questa pietra di scandalo per tanti spiriti ribelli, il prete (…) costituisce in mezzo a noi il segno sensibile della presenza del Cristo vivo (…). Uomini ordinari, simili a tutti gli altri, chiamati a diventare il Cristo quando levano la mano sulla fronte di un peccatore che confessa i suoi falli e domanda perdono, o quando prendono il pane fra le mani “sante e venerabili”, o quando alzano il calice della nuova alleanza e ripetono l’azione insondabile del Signore stesso (…). Sì, degli uomini simili ad ogni altro, ma chiamati più d’ogni altro alla santità (…). Quale mistero in questo sacerdozio ininterrotto attraverso i secoli!”.
In queste espressioni Mauriac enuncia il paradosso del prete: sintesi di contrari. In lui confluiscono gli elementi più contrastanti: umanità e divinità, tempo ed eternità, forza e debolezza, grandezza e miseria.
[1] G. Crea, Patologia psichica e normalità del prete, Bisogna vigilare sulla propria storia, in “L’Osservatore Romano” del 18 febbraio 2010.
[2] https://www.vaticannews.va/it/vaticano/news/2022-09/zuppi-cei-osservatore-romano-intervista-italia-uomo-dialogo.html.
[3] Cf. E. Samek Lodovici, Metamorfosi della gnosi. Quadri della dissoluzione contemporanea, Ares, Milano 1991. Secondo quest’autore, nel cristianesimo tutto è “umano, troppo umano”, per dirla con Nietzsche, e tutto risulta accessibile alle spiegazioni che di esso sa dare la ragione degli uomini. Le modalità principali sono: la storicizzazione, ovvero la riduzione del messaggio cristiano alla divinizzazione post rem di dati originariamente storico-culturali; l’ideologizzazione, ossia il tentativo di spiegare il cristianesimo come travestimento poetico di conflitti di classe; l’allegorizzazione cioè la riduzione ad allegoria di tutta la storia di Cristo; la psicologizzazione, ove i dogmi appaiono quali segni di bisogni psicologici dell’uomo; l’esistenzializzazione cioè l’accettazione del contenuto cristiano non per il suo valore di verità, quanto per la sua “significanza per me”; e, infine, la razionalizzazione, cioè l’esclusione di qualsiasi mistero.
[4] Cf. http://www.clerus.org/clerus/dati/2000-10/21-999999/Gherar.html.
[5] Cf. B. Goya, Psicologia e vita spirituale. Sinfonia a due mani, EDB 2000, pp. 18-19.
[6] Cf. M. Bessone – M. Sassoon – N. Lioy, Dallo psicanalismo allo psicoterapismo. Per una politica della clinica e una psicoterapia critica, Radio 32 edizioni, 2022.
Il mio parroco essendomi coetaneo è un po’ un amico però cerco di mantenere intatto il rapporto parrocchiano-pastore, ne riconosco l’autorità, tuttavia non mi capacito come possa essere sacerdote in un caotico “fare” spesso più di competenza laicale che presbiteriale. Spesso mi chiedo cosa vorrei dal pastore di anime e mi rispondo: celebrare la s.messa, celebrare i sacramenti, portare l’eucaristia agli ammalati, stare nel deserto del confessionale per dare
testimonianza che Dio ci aspetta con la sua misericordia. Vedo a malincuore troppo attivismo, troppo rumore attorno al nostro parroco