Seminario è il nome dato al tempo e allo spazio per la formazione dei sacerdoti. Nel primo millennio della storia della Chiesa, la formazione non era istituzionalizzata, essendo ogni vescovo responsabile della formazione dei suoi presbiteri, sebbene vi fossero scuole episcopali e parrocchiali per la formazione del clero.
L’origine del Seminario, con l’attuale configurazione, risale al Concilio di Trento (1545-1563), che prescrisse la necessità per i ministri cattolici di ricevere una solida formazione umana, spirituale, intellettuale e pastorale.
Il canone 18 della XXIII sessione del concilio di Trento fornisce in vari modi indicazioni sul profilo ideale e la formazione dei futuri ministri ordinati: devono essere dei giovani formati a “fuggire i piaceri del mondo” e a condurre una vita all’insegna di “pietà e religione”.
Per questo vengono istituiti i seminari, con il duplice scopo di separare fin dalla tenera età un numero congruo di adolescenti (nei seminari “minori”) tra cui individuare i candidati idonei alla vera e propria formazione al ministero (nei seminari “maggiori”).
Il criterio fondamentale di selezione dei futuri presbiteri è la loro scelta tra coloro che, oltre a saper leggere e scrivere, mostrino per “indole e volontà” di essere sempre “al servizio di Dio e della Chiesa”. I pilastri della loro formazione sono la liturgia, la Scrittura e le omelie e le vite dei santi.
Desacralizzazione
Nel primo millennio il modello agostiniano di presbitero faceva riferimento anzitutto al servizio pastorale, mentre i secoli successivi videro una crescita di importanza della funzione cultuale.
Oggi il modello liturgico non è affatto tramontato. Anzi… si trovano preti, anche giovani, che assolutizzano alcuni linguaggi antichi decontestualizzati della liturgia, dimenticandosi di appartenere al popolo di Dio, riducendo l’azione liturgica a una sacralità esteriorizzata, esclusivamente relativa alle proprie idee, se non alla cura estetica della propria immagine: invece di spendersi in modo profetico, sembrano coltivare narcisisticamente il proprio hobby sacerdotale.
Va superata una lettura gerarchico-sacrale del ministero ordinato, concependolo ed esercitandolo non come «promozione all’altare»,[1] ma come servizio gratuito e generoso da offrire[2].
Accanto a una decisa desacralizzazione del potere ecclesiastico,[3] vanno abbandonate pratiche pastorali, liturgie, simboli, titoli, cerimonie, linguaggi, modi di dire, stili di comportamento, aspettative che sovra-esaltano il clero a detrimento del non clero e che, non di rado, sono associate a logiche patriarcali e androcentriche[4]. Il ministero ordinato va rifondato «sulla comune radice battesimale, non solo a livello di principio, ma in modo fattivo e visibile»[5].
Non penso che ci sia una crisi di vocazioni, ma l’erosione di un paradigma di reclutamento del clero e della sua formazione. È necessario ripensare il modello tridentino di una formazione “separata”, che non è stato modificato, desiderando un maggiore impegno con la vita delle comunità e con situazioni normali di vita.
Contrariamente alle convinzioni di molti, a parer mio i concili successivi – in primis il più recente Vaticano II – non solo non hanno mai mutato la visione fondamentale del ministero presbiterale maturata a Trento, ma l’hanno per certi versi resa ancor più definita, netta e onnicomprensiva (e dunque, in un modo o nell’altro, “clericale”). Hanno insistito su un ruolo oltremodo impegnativo per i presbiteri cattolici, che sarebbero i soli a cui competono in pienezza i tre munera, ovverosia la funzione di insegnare, santificare e governare nella Chiesa.
La vera novità dei documenti ecclesiali conciliari e postconciliari è tuttavia l’introduzione sempre più forte dell’idea di “vocazione”, intesa non tanto e non più come chiamata di singole persone riconosciute come fidate da parte del corpo ecclesiale perché assumano un incarico pastorale e di servizio al culto, ma piuttosto come il riconoscimento da parte della gerarchia ecclesiale di una chiamata individuale percepita dai singoli candidati nella loro coscienza.
I cambiamenti sono stati minimi e hanno riguardato solamente l’aggiunta di alcuni elementi “umani” alla formazione tradizionale, assieme a una strutturazione molto più sostanziosa e ambiziosa degli studi teologici necessari per essere ammessi all’ordinazione presbiterale.
Separazione e formazione
In una certa misura separati dal resto del corpo ecclesiale, in un rapporto particolare con il sacro, a cui vengano conferite in maniera unica (“piena”, a differenza di quanto avviene per il sacerdozio di tutti i fedeli) le tre funzioni di insegnamento, santificazione e governo della Chiesa, che abbiano l’obbligo del celibato e che siano fondamentalmente i difensori di una verità acquisita una volta per sempre (malgrado li si inviti a non essere ostili al mondo). Per adempiere una simile missione estremamente ambiziosa, si ritiene che un lungo tempo di “segregazione” dal mondo negli edifici dei seminari sia la soluzione tuttora ottimale.
Il seminario attrae questi ragazzi perché è un luogo protetto, nel quale loro non devono preoccuparsi di nulla. L’istituzione fornisce tutto quello di cui hanno bisogno e organizza la loro esistenza in ogni dettaglio, la riempie in ogni interstizio. In questa logica, i seminaristi sono soggetti da “resettare” e da “riprogrammare”, persone dentro cui “buttare ogni genere di roba, ogni sorta di iniziativa”.
Si comprende come il primo e il radicale ripensamento della formazione dei presbiteri deve riguardare il luogo dove vengono formati i futuri presbiteri, ovverosia il seminario. Non mancano ormai gli studi che confermano come il rifugio rappresentato dall’attuale forma segregata e protetta dei seminari, lungi dall’attrarre le personalità più solide e adeguate all’esercizio del ministero presbiterale, costituisca in realtà una calamita ottimale per persone immature alla ricerca di sicurezze e di compensazioni rese possibili molto più da uno status e dalle protezioni proprie di un “ceto “che non da un reale cammino di crescita umana.
La Chiesa deve liberarsi dal clericalismo, dalla concezione che esiste un’élite, un’aristocrazia che, per studi, origine sociale, ha legittimità per il primato sul resto. È nocivo continuare a formare giovani che credono fermamente nell’idea che, una volta che saranno ordinati, saranno esseri sacri e radicalmente diversi.
È necessario coltivare un pensiero critico riguardo un tipo di insegnamento risalente al XVI secolo francese che “mitizza” l’assunto che i preti che sarebbero ontologicamente cambiati con l’ordinazione. Tale “mitizzazione” viene usata per rafforzare un certo atteggiamento: “Siamo migliori di voi (laici) e possiamo fare quello che vogliamo”. Questo ha portato molti nella Chiesa a vedere il clero come “al di sopra di ogni responsabilità”.
È necessario, pertanto, archiviare definitivamente l’orribile concezione che la Chiesa sia fatta dal clero e che i fedeli ne siano solamente i beneficiari o la clientela o, peggio, i sudditi, e acquisire la consapevolezza che, nella Chiesa, «vige una vera eguaglianza riguardo alla dignità e all’azione comune a tutti i fedeli nell’edificare il corpo di Cristo» (LG 32).
L’ora del cambiamento e delle rapide trasformazioni nella società e nella Chiesa richiede chiaramente nuovi modi di organizzare la vita ecclesiale e nuovi stili diversificati di esercizio del ministero sacerdotale. Le strade da percorrere e le decisioni da prendere vanno ricercate, in comunità, nell’ascolto attento della Parola che ci salva e del suo mormorio nelle parole umane plurali.
Riconfigurare il ministero
Non si può continuare la formazione in un modello ministeriale “esaurito”, perché “è stato creato nel XVI secolo”. Si rischia di formare presbiteri per una società che non c’è più, definita da una realtà sociale, culturale e socioeconomica completamente nuova.
Siamo coinvolti in un processo non solo di immaginazione, ma anche di trasformazione che ci richiede, in un certo senso, di saper cogliere l’opportunità che ci viene data. Urge una riconfigurazione del ministero del presbitero, decentrandolo dalla sua esclusività di ministro, ponendo fine alla «cultura della separazione» tra futuri presbiteri, comunità cristiane e società.
I seminari sono ancora delle “bolle”, nonostante gli sforzi per introdurre altre dimensioni nella formazione dei futuri presbiteri e per rafforzare la presenza delle donne o delle coppie in questo cammino.
I seminari sono a un bivio! La necessità di cambiamento è chiara, ma non ci sono soluzioni facili. I seminari rispecchiano la Chiesa nella sua ricerca di comprendere sé stessa, con notevole stanchezza istituzionale e mancanza di chiarezza, per questo richiedono una particolare attenzione.
Si impone una riflessione onesta, libera da luoghi comuni e approfondita per essere in grado di allinearsi alle grandi sfide che il mondo affronta oggi nel servizio delle comunità e nel dialogo con i mondi diversi.
Il seminario non può essere la formazione delle élites. Il seminario deve essere aperto ad altri ministeri e ad altre forme di gestione della stessa Chiesa. Deve essere aperto a un dialogo con tutti i tipi di conoscenza e con le sfide comuni a tutti gli esseri umani. Bisogna evitare che si formi una bolla intorno ai seminari.
Purtroppo ad oggi non esistono soluzioni facili o progetti esemplari. Nessuno può sperare di semplificare la situazione. Da più parti è stato avviato un lavoro di ricerca sulle “buone pratiche” che si vanno sviluppando negli altri seminari in Europa, ma pare che non si trovino progetti educativi degni di essere considerati “esemplari”. Il problema sta in come effettuare il passaggio al nuovo modello che nessuno osa ancora dire come dovrebbe essere.
Prima di tutto, ritengo che bisogna porre fine alla separazione dei presbiteri dal popolo altrimenti il ministero ordinato diventa potere e forza e perde la sua ragion d’essere.
È importante evitare che il discorso sulla vocazione presbiterale si limiti all’“esperienza soggettiva” di chi si sente chiamato alla vita presbiterale. Ci sono altre strade da esplorare. Ad esempio, una comunità può – come fa oggi, in relazione ai diaconi permanenti –, nella propria dinamica, suggerire che un suo membro si prepari a prestare un servizio a quella stessa comunità.
I luoghi formativi dovranno essere spazi capaci di generare lettura e crescita spirituale, capaci di generare molteplici incontri, e per questo non possono essere luoghi chiusi, ma devono essere luoghi dove si coltiva la sperimentazione.
Distanti dal quotidiano
Come si forma oggi un prete, come è organizzata la giornata di un candidato al ministero presbiterale? Lodi, colazione, poi il pulmino che riporta in seminario alla fine delle lezioni; pranzo, riposino e poi tempo per lo studio, Vespri e Messa, cena…
Ma non si occupano di cucinare, di fare la spesa, di lavare e stirare i panni. A parte lavare i piatti e sparecchiare, il tempo è consacrato tutto alla preghiera e allo studio. Problemi pratici, gestionali e domestici pari a zero. Spesso neppure la fatica di prendere i mezzi pubblici e mescolarsi fra la gente.
Vi è uno scollamento tra teoria e pratica, tra una formazione filosoficamente e teologicamente ineccepibile e il suo travaso nella vita quotidiana di seminaristi troppo “protetti” dalla realtà quotidiana, dalla fatica, dalla concretezza di indossare un grembiule e pelare le patate o stirarsi una camicia.
Impregnare di Vangelo i gesti di tutti i giorni, non solo le liturgie solenni, forse è la chiave di volta per una formazione davvero integrale. Il presbitero cristiano, chiamato come ogni credente a essere un altro Cristo, non può essere “separato” dagli altri, privilegiato, protetto. Fin dal seminario. È una formazione di base più adatta ai monaci che non ai futuri preti, chiamati a confrontarsi con una realtà complessa e in costante cambiamento della nostra moderna “società liquida”.
Il problema di fondo sta proprio nella struttura formativa del seminario. Il contesto culturale postcristiano e postmoderno in continua evoluzione sta mettendo a nudo tutti i limiti di quelle strutture educative religiose sorte nell’epoca moderna, impostate sul primato della dottrina sulla coscienza, della fermezza sulla sensibilità umana.
Nella fase antropologica che stiamo attraversando, ad esempio, siamo in grado e quindi siamo appellati a riconoscere forme di difesa egoica molto sottili e spesso occulte, siamo chiamati a comprendere che anche molte attitudini, ritenute magari “sante”, possono nascondere inconsci desideri di fuga da sé stessi. Siamo chiamati a smascherare le nostre distorsioni “spirituali”, il nostro inconscio desiderio di essere speciali proprio perché ci sentiamo carenti e umanamente inconsistenti.
È infatti proprio dallo scarso o malfatto lavoro a quei livelli che vengono poi fuori le personalità autoritarie, rigide e fredde, le personalità fragili e nevrotiche, incapaci di relazioni autentiche, le personalità assetate di potere e di dominio sulle persone, le personalità insomma che compensano le loro ferite non curate con la violenza sui piccoli e sulle donne.
Ministero e funzioni
Un ulteriore elemento che favorisce tale deriva riguarda i processi istituzionali di nomina e assunzione di ruolo. In molti casi per il presbitero non si prevede una gradualità nell’inserimento in nuovi ambienti e incarichi, ma egli ha sempre un entry level troppo alto: arriva in parrocchia e, ancor prima di conoscere qualcuno, ha già un ruolo più elevato della maggioranza dei fedeli. Il principio evangelico, per cui chi sta sopra deve servire, viene di fatto smentito nella prassi organizzativa e poi ci si lamenta della malattia del carrierismo!
Bisogna recuperare una più autentica centralità contemplativa, dobbiamo dirci con chiarezza che non può sussistere alcuna esperienza spirituale di qualità che non sgorghi da pratiche quotidiane e serie che ci aiutino innanzitutto a silenziare il nostro chiacchiericcio mentale e poi a disporci in silenzio ad ascoltare, a ricevere la grazia della Parola di Dio.
E anche il livello culturale va ripensato in un senso specifico. Dobbiamo elaborare invece una nuova cultura, una sintesi culturale inedita che ci sappia donare chiavi interpretative fondate di ciò che sta accadendo sulla terra, che sappia cioè interpretare questa straordinaria svolta antropologica in chiave messianica, e cioè evolutiva e sostanzialmente salvifica.
Questa integrazione però richiede, come dicevamo, lavoro e sperimentazione. Dobbiamo perciò aprire al più presto una grande stagione di ricerca in questa direzione,
L’iter formativo proposto corrisponde adeguatamente all’esercizio dei compiti cui si è fatto riferimento? L’estrema fluidità della situazione attuale – la liquidità cui allude Bauman si verifica anche su questo piano – rende impossibile prefigurare quale sarà la fisionomia del prete negli anni che verranno.
Le vere domande da porsi sono dunque: Quali ministeri sono necessari oggi nella Chiesa? Quale ruolo realistico e non onnicomprensivo può essere attribuito ai presbiteri (e a ogni altra forma di ministero)?
«Oggi l’intero stato dei chierici potrà recuperare una certa credibilità» solo a patto che riesca a riposizionarsi sulle orme di Gesù «che non era né monaco né sacerdote; piuttosto era profeta, poeta, vagabondo, visionario, medico e persona degna di fiducia, predicatore ambulante e trovatore, arlecchino e incantatore dell’eterna e inesauribile misericordia di Dio» (Eugen Drewermann).
Un’eccessiva sovra-estimazione della vocazione sacerdotale a discapito di quella battesimale rischia di imbalsamare il presbitero nel sarcofago del ruolo. Papa Francesco afferma che la vocazione presbiterale dischiude nel prete “quel potenziale di Amore che abbiamo ricevuto nel giorno del battesimo”[6].
Quando manca una personalità autentica formata alla scuola del Vangelo – non alle diverse scuole psicologiche (non si tratta di riempire di psicologi i seminari![7]) –, è del tutto naturale che il ruolo diventi la maschera della propria fragilità non accolta e della propria incapacità a far fronte alle sfide più ordinarie e normali della vita.
Discernimento
Lo stile evangelico lo si apprende nella vita quotidiana, mantenendo il contatto con la realtà. Si diventa uomini e donne sensibili all’umano vivendo situazioni umane, e la scuola di questo stile umano non può che essere la vita. È in essa, infatti, che scopriamo le sorprese, le situazioni che escono dall’ordinario, che esigono prontezza, capacità di risposte nuove.
Chi proviene da anni di indottrinamento, di educazione all’obbedienza alla dottrina, in un ambiente artificiale, esclusivamente maschile, lontano dai problemi quotidiani della vita, ogni volta che si troverà dinanzi alla novità che la realtà manifesta, rimarrà spiazzato, imbarazzato, in una parola: impreparato.
Sorge allora la questione di come discernere la chiamata di Dio in questione. È solo un impulso interiore e personale, o anche una chiamata che viene dalla comunità? La comunità è centrale nei processi di evangelizzazione e, quando possibile, può individuare i bisogni, valutare, tra i suoi membri, chi si sente “capace di soddisfarli” e assumere la chiamata comunitaria come “chiamata di Dio”.
Insistere troppo sull’immensa dignità del sacerdozio, sulla grandezza del ministero della celebrazione eucaristica, sull’esclusività creata dall’obbligo del celibato, sul carattere eminentemente personale ed esclusivamente divino della “vocazione”, per solennizzare il sacramento dell’Ordine, non si rischia di plasmare un’immagine del presbitero, al limite insostenibile a lungo termine?
Papa Francesco ha messo in evidenza tre priorità riguardo all’identikit del presbitero.
La prima è la capacità di immedesimarsi nelle situazioni esistenziali della gente, condividendone le gioie e le fatiche quotidiane – papa Francesco sottolinea l’importanza di “sentire l’odore delle pecore” – e divenendo, in tal modo, partecipi del mistero dell’incarnazione.
La seconda priorità è costituita dalla scelta della povertà come sobrietà di vita e come rinuncia ad ogni tentazione di potere, così da conquistare quella libertà interiore, che consente di diventare pienamente solidali con il mondo dei poveri e di impegnarsi per la loro liberazione.
Vita spirituale
La terza priorità è, infine, il ricupero di una spiritualità autentica, non formale o devozionale, ma connotata da una forte tensione mistica, capace di interpretare il bisogno di trascendenza che alberga anche oggi nel cuore di molti e di diventare in tal modo testimoni credibili del mistero di Dio.
Abbiamo urgentissimo bisogno di guide e di maestri che sappiano iniziarci ad una più autentica e diretta esperienza delle dimensioni spirituali e divine del nostro essere. Ma i nostri preti fino a che punto sono educati a questo scopo?
Fino a che punto sono essi stessi persone più libere e più felici, più integre, iniziati cioè capaci di iniziare? Fino a che punto poi la formazione dei preti è finalizzata alla fioritura libera delle loro potenzialità, e quanto invece viene posta al servizio di una funzione più o meno burocratica da svolgere? Ci si può rendere conto di quanto sia difficile la sfida e di quanta creatività e sperimentazione essa richieda.
Al di là delle frasi altisonanti che si leggono sui documenti ecclesiali sulla formazione dei futuri presbiteri, la preparazione a essere guida di comunità è quasi esclusivamente intellettualistica, in un ambiente artificiale separato dalla vita, che non permettere di cogliere, in una comunità che s’ispira al Vangelo, che l’essenziale non consiste nel controllare l’ortodossia di una dottrina, ma nel condividere le gioie e le sofferenze con coloro che desiderano camminare sul percorso tracciato dal Signore.
[1] Francesco, Dialogo con i gesuiti del Madagascar (5 settembre 2019).
[2] Francesco, Discorso alla prima Congregazione generale del XV Assemblea ordinaria del Sinodo dei Vescovi (5 ottobre 2018).
[3] Cf. S. Segoloni Ruta, Fratelli tutti? Chiesa e fraternità in questione, in: E. Green – S. Zorzi, S. Segoloni Ruta, Sorelle tutte, Edizioni La Meridiana, Molfetta 2021, pp. 121-122.
[4] Cf. S. Noceti, Vie di una riforma in prospettiva sinodale, in: R. Luciani – S. Noceti, Sinodalmente. Forma e riforma di una Chiesa sinodale, Edizioni Nerbini, Firenze 2022, p. 199.
[5] M.D. Semeraro, Preti senza battesimo. Una provocazione, non un giudizio, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2018, pag. 62.
[6] Francesco, Secondo lo stile di Dio. Riflessioni sulla spiritualità del presbitero, Libreria editrice Vaticana, Città del vaticano 2022, p. 20.
[7] “Nell’ultimo mezzo secolo la psicologizzazione e la medicalizzazione delle nostre esistenze è a dir poco esplosa… fino all’eccesso di zelo che induce a sovra-interpretare come patologia ogni forma di dissenso o di rifiuto manifestati verso l’istituzione semi-totale” (A. Muni).
Ho scritto sull’argomento, dal punto di vista della vita religiosa, qualche mese fa, partecipando al Capitolo Generale dell’Ordine dei Frati Predicatori, in Messico. Mi limito a segnalare di seguito il link:
http://www.padrebruno.com/la-formazione-dei-religiosi-come-cammino-di-ricerca-nella-liberta-oppure-come-costrizione-in-una-caserma-una-sfida-raccolta-e-affrontata-dal-capitolo-generale-dei-domenicani/
Ci sarebbe tanto da dire ma immagino che questo articolo sia stato scritto senza chiedere ai seminaristi. Io sono un seminarista e sebbene possa condividere in parte alcune cose, su altre mi sembra di vivere in due mondi diversi o due Chiese diverse. Non credo che la scelta di desacralizzare ancora di più l’immagine del presbitero possa essere buona, ancora di più non condivido la scelta di celebrare una liturgia in maniera sciatta o desacralizzando semplicemente perché sennò ci si rinchiude nel “clericalismo”.
Poi per quanto riguarda la formazione, avrei tantissime cose da dire, ma con tutto quello che è stato scritto sulla formazione praticamente il seminario dovrebbe durare 20anni. Penso sia proprio questo l’errore: vedere nel seminarista un contenitore da riempire. In seminario non ci indottrinano mostrandoci l’ortodossia della dottrina (quanti paroloni), anzi se solo ci insegnassero ciò che dovrebbero insegnarci. Nella formazione ci sono tantissime cose da rivedere ma io nella scelta consulterei anche i diretti interessati. È inutile farci pelare le patate, prendere i mezzi di trasporto (perché così possiamo dire che li abbiamo presi, che non siamo alieni, e che non siamo diversi dagli altri) se poi non ho tempo di stare con me stesso, di relazionarmi e soprattutto di pregare. Il seminario è diventato solo un fare fare fare, perché c’è chi pensa come in questo articolo, che il seminarista uscito dal seminario debba essere la persona migliore del mondo (campione delle relazioni, maestro di tutto lo scibile, il miglior pastore del mondo, sulla preghiera chissà perché non è richiesto). Dimentichiamo, se ci crediamo veramente, che è Cristo che ci ha chiamati (la vocazione al presbiterato è solo una vocazione tra le tante, vero, ma è diversa! Dovrebbe sicuramente essere nel servizio, servire gli altri come ha fatto Cristo ma non posso nemmeno ridurlo a semplice ruolo en passant come in tutto il mondo protestante), e Cristo non chiama i perfetti! Gli Apostoli non erano né i migliori e né i più bravi, ma è Lui che li ha resi capaci di testimoniare. Questo manca: testimonianza! Dove sta la testimonianza dei laici? Dove sta la testimonianza dei preti che formano in seminario? Il discorso sarebbe troppo lungo per approfondire ogni parte dell’articolo.
Caro seminarista, anzitutto auguri per il tuo percorso! Mi preme farti notare solo una cosa: se per te il Seminario è “fare/fare/fare” e, invece, dovrebbe essere preghiera, beh… quando sarai in parrocchia da prete (te lo auguro!) sarà ancora peggio. Chi ti farà da mangiare? Chi laverà i tuoi panni? Chi pulirà il tuo appartamento? Per non parlare di tutte quelle cose che riguardano la gestione economica della parrocchia… Chi ti aiuterà? Chi chiamerà l’elettricista quando una luce in chiesa non andrà? Per carità è giusto quello che tu dici: prima la preghiera. Ma anche già negli anni del Seminario visione della realtà, presa di coscienza della vita delle parrocchie, soprattutto quelle di periferia!!
Forse però stiamo pretendendo troppo dai preti: li vogliamo tuttofare! Devono: guidare la preghiera comune, confessare, celebrare Messa, visitare i malati, celebrare i Sacramenti, guidare le attività parrocchiali, controllare/gestire la parte economica, guidare i campi estivi parrocchiali, organizzare le gite, organizzare la sagra, mediare tra le varie associazioni parrocchiali, esercitare la leadership etc. Però uno non può fare o saper fare tutto, o se ci prova rischia di fare tutto male! e poi vanno in burnout. Forse nel futuro, con la nascita di “collaborazioni” più grandi delle parrocchie e affidate collettivamente a più presbiteri, ognuno si specializzerà in poche cose. E molte cose non strettamente appartenenti ai tre munus del presbiterato saranno affidate ai diaconi, ai ministri istituiti e ai laici.
Se i paradigmi di riferimento per un aggiornamento della forma del seminario sono Drewermann, Papa Francesco e la negazione del sacramento dell’ordine (dove oggettivamente e per grazia di Dio il sacerdote muta ontologicamente e riceve la dignità sublime di trasformare realmente il pane e il vino nel corpo e nel sangue di Cristo) è interessante vedere come si evolverà questa nuova Chiesa. Vi sono troppi slogan, una voglia spinta di novità e pochi riferimenti alla tradizione ed alla Parola di Dio in questa analisi e nella prospettiva delineata. Ho la sensazione che vi saranno più vocazioni nelle forme e nelle esperienze ecclesiali che si attengono al Catechismo della Chiesa Cattolica che non in quelle che per prurito di novità vogliono stravolgere l’essenza dei sacramenti e della dottrina (che significa insegnamento) trasmessa da Gesù Cristo agli apostoli. Buona fortuna
Inserisco questo commento per portare alla Vostra attenzione la necessità di rivedere la sottolineatura che vede i sacramenti come un dono “che aggiunge” e che “da inizio”, mentre le scritture ce lo mostrano come “svelamento” e “compimento”. Nel primo caso è determinante il ruolo del singolo, che discerne su di sé e sul suo futuro per disporsi a ricevere “un dono in più”; nel secondo caso il discernimento è compito della comunità che gli sta intorno, che “riconosce” quello che “già c’é” e lo riceve “in dono” come via.
I doni di Dio ci precedono sempre e non ci sono premi o doni che si aggiungono nei vari passaggi della vita. Essi, invece, si “svelano” e chiedono di essere “accolti”, “riconosciuti”, valorizzati, vissuti nel tempo … e per questo servono gli “altri”. E’ in questa linea che occorre iniziare a rivedere tutti i sacramenti e il ruolo di tutta la comunità cristiana. Gli Atti, non a caso, ci mostrano che la Chiesa “sceglie” dove e in chi “riconoscere” i doni del Signore; non cerca “un volontario per …”, per autopromozione o autocandidatura. Gli Atti ci testimoniano non solo un criterio per scegliere, ma una via per riconoscere quello che “già c’é”! Nel primo caso basta un singolo, nel secondo é necessaria una Chiesa.
Non facciamone una cosa ipermoderna influenzata dalle correnti di pensiero in voga.
La Tradizione sia la guida. Soprattutto attenzione prima di consacrare gente troppo giovane.
Non servono teorie manageriali,psicologiche vuote, ma solo buon senso pratico.
Serve non abbandonare il mondo da giovanissimi. Serve studiare e pregare.
Al resto pensa LUI.
Condivido pienamente le idee dell’autore. Scrivo solo poche considerazioni: 1. la formazione dei futuri preti va svolta insieme ai laici e anche da fedeli e da donne oltre che da preti; 2. Meno formazione dottrinale e più umana; 3. Quanto meno gli ultimi 3-4 anni di formazione vanno svolti nelle parrocchie per capire se i candidati sono adatti a fare vita pastorale. L’alternativa più radicale a rispetto a quella di cui sopra è la chiusura dei seminari.
Devo fare i complimenti all’autore di questo articoletto perché finalmente qualcuno inizia a dire con onestà e coraggio che i seminari sono LA struttura più tridentina che ci possa essere in una Chiesa che sta piano piano, a fatica, assumendo la forma conciliare. Sono strutture in cui non solo i candidati vivono protetti da un mondo che diventa sempre più complesso, ma si apprende un’ideologia che è fuorviante: il rettore comanda e il seminarista obbedisce (altrimenti sei fuori dal Seminario). Chissà perché, una volta usciti dal seminario, i preti si dimostrano fragili e prima non lo erano? La cosa più sorprendente è che questo stato di cose è ormai evidente, è palese e nessuno fa nulla per cambiarlo. Al riguardo avevo scritto a suo tempo: https://iltuttonelframmento.blogspot.com/2020/11/cattolicesimo-borghese-4.html
Ho l’impressione che l’esperienza dei seminari si possa dichiarare conclusa, se non altro perché i seminaristi sono ormai in decrescita vertiginosa, almeno in Europa. Se vogliamo avere ancora dei presbiteri dobbiamo ripartire da zero e fare crescere comunità di semplici battezzati che leggono la Parola e si edifichino su di essa nella fraternità. Da qui possono nel tempo uscire persone che dalla concretezza dell’esperienza cristiana possano essere guida affidabile per il popolo di Dio.
grazie Andrea Venuta! Le soluzioni più semplici e dal basso sono piu innovative e fattibili purchè lo si voglia,,,, finora in troppe chiese leggere la parola insieme è cosa inaudita….
Giuliana Babini
Riflessione molto interessante ma rivelatrice di una grave difficoltà ad elaborare una aggiornata, ma non nebulosa, visione del presbitero della Chiesa di oggi e di domani, del suo ruolo e della sua formazione. Alla base della difficoltà stanno le contraddizioni insite nei documenti del Vaticano II su questa materia. Quindi solo l’assunzione di un chiarimento “dottrinale” può aiutare a risolvere i problemi ricordati nel testo. Nè, a mio avviso, un’impostazione sullo stato “liquido” della società può proporre soluzioni realistiche in campo ecclesiale, pena la “liquidità” della stessa Chiesa. Le incertezze e le difficoltà, in cui versano le più “liquide” Chiese riformate, insegnano in proposito. Che poi in “molti” sia avvertita oggi, nel contesto culturale tecno-scientifico, una sete di “trascendenza”, mi pare del tutto insostenibile.