Fabbrica del clero cercasi

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Seminario arcivescovile di Milano a Venegono (foto del 1932).

Seminario è il nome dato al tempo e allo spazio per la formazione dei sacerdoti. Nel primo millennio della storia della Chiesa, la formazione non era istituzionalizzata, essendo ogni vescovo responsabile della formazione dei suoi presbiteri, sebbene vi fossero scuole episcopali e parrocchiali per la formazione del clero.

L’origine del Seminario, con l’attuale configurazione, risale al Concilio di Trento (1545-1563), che prescrisse la necessità per i ministri cattolici di ricevere una solida formazione umana, spirituale, intellettuale e pastorale.

Il canone 18 della XXIII sessione del concilio di Trento fornisce in vari modi indicazioni sul profilo ideale e la formazione dei futuri ministri ordinati: devono essere dei giovani formati a “fuggire i piaceri del mondo” e a condurre una vita all’insegna di “pietà e religione”.

Per questo vengono istituiti i seminari, con il duplice scopo di separare fin dalla tenera età un numero congruo di adolescenti (nei seminari “minori”) tra cui individuare i candidati idonei alla vera e propria formazione al ministero (nei seminari “maggiori”).

Il criterio fondamentale di selezione dei futuri presbiteri è la loro scelta tra coloro che, oltre a saper leggere e scrivere, mostrino per “indole e volontà” di essere sempre “al servizio di Dio e della Chiesa”. I pilastri della loro formazione sono la liturgia, la Scrittura e le omelie e le vite dei santi.

Desacralizzazione

Nel primo millennio il modello agostiniano di presbitero faceva riferimento anzitutto al servizio pastorale, mentre i secoli successivi videro una crescita di importanza della funzione cultuale.

Oggi il modello liturgico non è affatto tramontato. Anzi… si trovano preti, anche giovani, che assolutizzano alcuni linguaggi antichi decontestualizzati della liturgia, dimenticandosi di appartenere al popolo di Dio, riducendo l’azione liturgica a una sacralità esteriorizzata, esclusivamente relativa alle proprie idee, se non alla cura estetica della propria immagine: invece di spendersi in modo profetico, sembrano coltivare narcisisticamente il proprio hobby sacerdotale.

Va superata una lettura gerarchico-sacrale del ministero ordinato, concependolo ed esercitandolo non come «promozione all’altare»,[1] ma come servizio gratuito e generoso da offrire[2].

Accanto a una decisa desacralizzazione del potere ecclesiastico,[3] vanno abbandonate pratiche pastorali, liturgie, simboli, titoli, cerimonie, linguaggi, modi di dire, stili di comportamento, aspettative che sovra-esaltano il clero a detrimento del non clero e che, non di rado, sono associate a logiche patriarcali e androcentriche[4]. Il ministero ordinato va rifondato «sulla comune radice battesimale, non solo a livello di principio, ma in modo fattivo e visibile»[5].

Non penso che ci sia una crisi di vocazioni, ma l’erosione di un paradigma di reclutamento del clero e della sua formazione. È necessario ripensare il modello tridentino di una formazione “separata”, che non è stato modificato, desiderando un maggiore impegno con la vita delle comunità e con situazioni normali di vita.

Contrariamente alle convinzioni di molti, a parer mio i concili successivi – in primis il più recente Vaticano II – non solo non hanno mai mutato la visione fondamentale del ministero presbiterale maturata a Trento, ma l’hanno per certi versi resa ancor più definita, netta e onnicomprensiva (e dunque, in un modo o nell’altro, “clericale”). Hanno insistito su un ruolo oltremodo impegnativo per i presbiteri cattolici, che sarebbero i soli a cui competono in pienezza i tre munera, ovverosia la funzione di insegnare, santificare e governare nella Chiesa.

La vera novità dei documenti ecclesiali conciliari e postconciliari è tuttavia l’introduzione sempre più forte dell’idea di “vocazione”, intesa non tanto e non più come chiamata di singole persone riconosciute come fidate da parte del corpo ecclesiale perché assumano un incarico pastorale e di servizio al culto, ma piuttosto come il riconoscimento da parte della gerarchia ecclesiale di una chiamata individuale percepita dai singoli candidati nella loro coscienza.

I cambiamenti sono stati minimi e hanno riguardato solamente l’aggiunta di alcuni elementi “umani” alla formazione tradizionale, assieme a una strutturazione molto più sostanziosa e ambiziosa degli studi teologici necessari per essere ammessi all’ordinazione presbiterale.

Separazione e formazione

In una certa misura separati dal resto del corpo ecclesiale, in un rapporto particolare con il sacro, a cui vengano conferite in maniera unica (“piena”, a differenza di quanto avviene per il sacerdozio di tutti i fedeli) le tre funzioni di insegnamento, santificazione e governo della Chiesa, che abbiano l’obbligo del celibato e che siano fondamentalmente i difensori di una verità acquisita una volta per sempre (malgrado li si inviti a non essere ostili al mondo). Per adempiere una simile missione estremamente ambiziosa, si ritiene che un lungo tempo di “segregazione” dal mondo negli edifici dei seminari sia la soluzione tuttora ottimale.

Il seminario attrae questi ragazzi perché è un luogo protetto, nel quale loro non devono preoccuparsi di nulla. L’istituzione fornisce tutto quello di cui hanno bisogno e organizza la loro esistenza in ogni dettaglio, la riempie in ogni interstizio. In questa logica, i seminaristi sono soggetti da “resettare” e da “riprogrammare”, persone dentro cui “buttare ogni genere di roba, ogni sorta di iniziativa”.

Si comprende come il primo e il radicale ripensamento della formazione dei presbiteri deve riguardare il luogo dove vengono formati i futuri presbiteri, ovverosia il seminario. Non mancano ormai gli studi che confermano come il rifugio rappresentato dall’attuale forma segregata e protetta dei seminari, lungi dall’attrarre le personalità più solide e adeguate all’esercizio del ministero presbiterale, costituisca in realtà una calamita ottimale per persone immature alla ricerca di sicurezze e di compensazioni rese possibili molto più da uno status e dalle protezioni proprie di un “ceto “che non da un reale cammino di crescita umana.

La Chiesa deve liberarsi dal clericalismo, dalla concezione che esiste un’élite, un’aristocrazia che, per studi, origine sociale, ha legittimità per il primato sul resto. È nocivo continuare a formare giovani che credono fermamente nell’idea che, una volta che saranno ordinati, saranno esseri sacri e radicalmente diversi.

È necessario coltivare un pensiero critico riguardo un tipo di insegnamento risalente al XVI secolo francese che “mitizza” l’assunto che i preti che sarebbero ontologicamente cambiati con l’ordinazione.  Tale “mitizzazione” viene usata per rafforzare un certo atteggiamento: “Siamo migliori di voi (laici) e possiamo fare quello che vogliamo”. Questo ha portato molti nella Chiesa a vedere il clero come “al di sopra di ogni responsabilità”.

È necessario, pertanto, archiviare definitivamente l’orribile concezione che la Chiesa sia fatta dal clero e che i fedeli ne siano solamente i beneficiari o la clientela o, peggio, i sudditi, e acquisire la consapevolezza che, nella Chiesa, «vige una vera eguaglianza riguardo alla dignità e all’azione comune a tutti i fedeli nell’edificare il corpo di Cristo» (LG 32).

L’ora del cambiamento e delle rapide trasformazioni nella società e nella Chiesa richiede chiaramente nuovi modi di organizzare la vita ecclesiale e nuovi stili diversificati di esercizio del ministero sacerdotale. Le strade da percorrere e le decisioni da prendere vanno ricercate, in comunità, nell’ascolto attento della Parola che ci salva e del suo mormorio nelle parole umane plurali.

Riconfigurare il ministero

Non si può continuare la formazione in un modello ministeriale “esaurito”, perché “è stato creato nel XVI secolo”. Si rischia di formare presbiteri per una società che non c’è più, definita da una realtà sociale, culturale e socioeconomica completamente nuova.

Siamo coinvolti in un processo non solo di immaginazione, ma anche di trasformazione che ci richiede, in un certo senso, di saper cogliere l’opportunità che ci viene data. Urge una riconfigurazione del ministero del presbitero, decentrandolo dalla sua esclusività di ministro, ponendo fine alla «cultura della separazione» tra futuri presbiteri, comunità cristiane e società.

I seminari sono ancora delle “bolle”, nonostante gli sforzi per introdurre altre dimensioni nella formazione dei futuri presbiteri e per rafforzare la presenza delle donne o delle coppie in questo cammino.

I seminari sono a un bivio! La necessità di cambiamento è chiara, ma non ci sono soluzioni facili. I seminari rispecchiano la Chiesa nella sua ricerca di comprendere sé stessa, con notevole stanchezza istituzionale e mancanza di chiarezza, per questo richiedono una particolare attenzione.

Si impone una riflessione onesta, libera da luoghi comuni e approfondita per essere in grado di allinearsi alle grandi sfide che il mondo affronta oggi nel servizio delle comunità e nel dialogo con i mondi diversi.

Il seminario non può essere la formazione delle élites. Il seminario deve essere aperto ad altri ministeri e ad altre forme di gestione della stessa Chiesa. Deve essere aperto a un dialogo con tutti i tipi di conoscenza e con le sfide comuni a tutti gli esseri umani. Bisogna evitare che si formi una bolla intorno ai seminari.

Purtroppo ad oggi non esistono soluzioni facili o progetti esemplari. Nessuno può sperare di semplificare la situazione. Da più parti è stato avviato un lavoro di ricerca sulle “buone pratiche” che si vanno sviluppando negli altri seminari in Europa, ma pare che non si trovino progetti educativi degni di essere considerati “esemplari”. Il problema sta in come effettuare il passaggio al nuovo modello che nessuno osa ancora dire come dovrebbe essere.

Prima di tutto, ritengo che bisogna porre fine alla separazione dei presbiteri dal popolo altrimenti il ministero ordinato diventa potere e forza e perde la sua ragion d’essere.

È importante evitare che il discorso sulla vocazione presbiterale si limiti all’“esperienza soggettiva” di chi si sente chiamato alla vita presbiterale. Ci sono altre strade da esplorare. Ad esempio, una comunità può – come fa oggi, in relazione ai diaconi permanenti –, nella propria dinamica, suggerire che un suo membro si prepari a prestare un servizio a quella stessa comunità.

I luoghi formativi dovranno essere spazi capaci di generare lettura e crescita spirituale, capaci di generare molteplici incontri, e per questo non possono essere luoghi chiusi, ma devono essere luoghi dove si coltiva la sperimentazione.

Distanti dal quotidiano

Come si forma oggi un prete, come è organizzata la giornata di un candidato al ministero presbiterale? Lodi, colazione, poi il pulmino che riporta in seminario alla fine delle lezioni; pranzo, riposino e poi tempo per lo studio, Vespri e Messa, cena…

Ma non si occupano di cucinare, di fare la spesa, di lavare e stirare i panni. A parte lavare i piatti e sparecchiare, il tempo è consacrato tutto alla preghiera e allo studio. Problemi pratici, gestionali e domestici pari a zero. Spesso neppure la fatica di prendere i mezzi pubblici e mescolarsi fra la gente.

Vi è uno scollamento tra teoria e pratica, tra una formazione filosoficamente e teologicamente ineccepibile e il suo travaso nella vita quotidiana di seminaristi troppo “protetti” dalla realtà quotidiana, dalla fatica, dalla concretezza di indossare un grembiule e pelare le patate o stirarsi una camicia.

Impregnare di Vangelo i gesti di tutti i giorni, non solo le liturgie solenni, forse è la chiave di volta per una formazione davvero integrale. Il presbitero cristiano, chiamato come ogni credente a essere un altro Cristo, non può essere “separato” dagli altri, privilegiato, protetto. Fin dal seminario. È una formazione di base più adatta ai monaci che non ai futuri preti, chiamati a confrontarsi con una realtà complessa e in costante cambiamento della nostra moderna “società liquida”.

Il problema di fondo sta proprio nella struttura formativa del seminario. Il contesto culturale postcristiano e postmoderno in continua evoluzione sta mettendo a nudo tutti i limiti di quelle strutture educative religiose sorte nell’epoca moderna, impostate sul primato della dottrina sulla coscienza, della fermezza sulla sensibilità umana.

Nella fase antropologica che stiamo attraversando, ad esempio, siamo in grado e quindi siamo appellati a riconoscere forme di difesa egoica molto sottili e spesso occulte, siamo chiamati a comprendere che anche molte attitudini, ritenute magari “sante”, possono nascondere inconsci desideri di fuga da sé stessi. Siamo chiamati a smascherare le nostre distorsioni “spirituali”, il nostro inconscio desiderio di essere speciali proprio perché ci sentiamo carenti e umanamente inconsistenti.

È infatti proprio dallo scarso o malfatto lavoro a quei livelli che vengono poi fuori le personalità autoritarie, rigide e fredde, le personalità fragili e nevrotiche, incapaci di relazioni autentiche, le personalità assetate di potere e di dominio sulle persone, le personalità insomma che compensano le loro ferite non curate con la violenza sui piccoli e sulle donne.

Ministero e funzioni

Un ulteriore elemento che favorisce tale deriva riguarda i processi istituzionali di nomina e assunzione di ruolo. In molti casi per il presbitero non si prevede una gradualità nell’inserimento in nuovi ambienti e incarichi, ma egli ha sempre un entry level troppo alto: arriva in parrocchia e, ancor prima di conoscere qualcuno, ha già un ruolo più elevato della maggioranza dei fedeli. Il principio evangelico, per cui chi sta sopra deve servire, viene di fatto smentito nella prassi organizzativa e poi ci si lamenta della malattia del carrierismo!

Bisogna recuperare una più autentica centralità contemplativa, dobbiamo dirci con chiarezza che non può sussistere alcuna esperienza spirituale di qualità che non sgorghi da pratiche quotidiane e serie che ci aiutino innanzitutto a silenziare il nostro chiacchiericcio mentale e poi a disporci in silenzio ad ascoltare, a ricevere la grazia della Parola di Dio.

E anche il livello culturale va ripensato in un senso specifico. Dobbiamo elaborare invece una nuova cultura, una sintesi culturale inedita che ci sappia donare chiavi interpretative fondate di ciò che sta accadendo sulla terra, che sappia cioè interpretare questa straordinaria svolta antropologica in chiave messianica, e cioè evolutiva e sostanzialmente salvifica.

Questa integrazione però richiede, come dicevamo, lavoro e sperimentazione. Dobbiamo perciò aprire al più presto una grande stagione di ricerca in questa direzione,

L’iter formativo proposto corrisponde adeguatamente all’esercizio dei compiti cui si è fatto riferimento? L’estrema fluidità della situazione attuale – la liquidità cui allude Bauman si verifica anche su questo piano – rende impossibile prefigurare quale sarà la fisionomia del prete negli anni che verranno.

Le vere domande da porsi sono dunque: Quali ministeri sono necessari oggi nella Chiesa? Quale ruolo realistico e non onnicomprensivo può essere attribuito ai presbiteri (e a ogni altra forma di ministero)?

«Oggi l’intero stato dei chierici potrà recuperare una certa credibilità» solo a patto che riesca a riposizionarsi sulle orme di Gesù «che non era né monaco né sacerdote; piuttosto era profeta, poeta, vagabondo, visionario, medico e persona degna di fiducia, predicatore ambulante e trovatore, arlecchino e incantatore dell’eterna e inesauribile misericordia di Dio» (Eugen Drewermann).

Un’eccessiva sovra-estimazione della vocazione sacerdotale a discapito di quella battesimale rischia di imbalsamare il presbitero nel sarcofago del ruolo. Papa Francesco afferma che la vocazione presbiterale dischiude nel prete “quel potenziale di Amore che abbiamo ricevuto nel giorno del battesimo”[6].

Quando manca una personalità autentica formata alla scuola del Vangelo – non alle diverse scuole psicologiche (non si tratta di riempire di psicologi i seminari![7]) –, è del tutto naturale che il ruolo diventi la maschera della propria fragilità non accolta e della propria incapacità a far fronte alle sfide più ordinarie e normali della vita.

Discernimento

Lo stile evangelico lo si apprende nella vita quotidiana, mantenendo il contatto con la realtà. Si diventa uomini e donne sensibili all’umano vivendo situazioni umane, e la scuola di questo stile umano non può che essere la vita. È in essa, infatti, che scopriamo le sorprese, le situazioni che escono dall’ordinario, che esigono prontezza, capacità di risposte nuove.

Chi proviene da anni di indottrinamento, di educazione all’obbedienza alla dottrina, in un ambiente artificiale, esclusivamente maschile, lontano dai problemi quotidiani della vita, ogni volta che si troverà dinanzi alla novità che la realtà manifesta, rimarrà spiazzato, imbarazzato, in una parola: impreparato.

Sorge allora la questione di come discernere la chiamata di Dio in questione. È solo un impulso interiore e personale, o anche una chiamata che viene dalla comunità? La comunità è centrale nei processi di evangelizzazione e, quando possibile, può individuare i bisogni, valutare, tra i suoi membri, chi si sente “capace di soddisfarli” e assumere la chiamata comunitaria come “chiamata di Dio”.

Insistere troppo sull’immensa dignità del sacerdozio, sulla grandezza del ministero della celebrazione eucaristica, sull’esclusività creata dall’obbligo del celibato, sul carattere eminentemente personale ed esclusivamente divino della “vocazione”, per solennizzare il sacramento dell’Ordine, non si rischia di plasmare un’immagine del presbitero, al limite insostenibile a lungo termine?

Papa Francesco ha messo in evidenza tre priorità riguardo all’identikit del presbitero.

La prima è la capacità di immedesimarsi nelle situazioni esistenziali della gente, condividendone le gioie e le fatiche quotidiane – papa Francesco sottolinea l’importanza di “sentire l’odore delle pecore” – e divenendo, in tal modo, partecipi del mistero dell’incarnazione.

La seconda priorità è costituita dalla scelta della povertà come sobrietà di vita e come rinuncia ad ogni tentazione di potere, così da conquistare quella libertà interiore, che consente di diventare pienamente solidali con il mondo dei poveri e di impegnarsi per la loro liberazione.

Vita spirituale

La terza priorità è, infine, il ricupero di una spiritualità autentica, non formale o devozionale, ma connotata da una forte tensione mistica, capace di interpretare il bisogno di trascendenza che alberga anche oggi nel cuore di molti e di diventare in tal modo testimoni credibili del mistero di Dio.

Abbiamo urgentissimo bisogno di guide e di maestri che sappiano iniziarci ad una più autentica e diretta esperienza delle dimensioni spirituali e divine del nostro essere. Ma i nostri preti fino a che punto sono educati a questo scopo?

Fino a che punto sono essi stessi persone più libere e più felici, più integre, iniziati cioè capaci di iniziare? Fino a che punto poi la formazione dei preti è finalizzata alla fioritura libera delle loro potenzialità, e quanto invece viene posta al servizio di una funzione più o meno burocratica da svolgere? Ci si può rendere conto di quanto sia difficile la sfida e di quanta creatività e sperimentazione essa richieda.

Al di là delle frasi altisonanti che si leggono sui documenti ecclesiali sulla formazione dei futuri presbiteri, la preparazione a essere guida di comunità è quasi esclusivamente intellettualistica, in un ambiente artificiale separato dalla vita, che non permettere di cogliere, in una comunità che s’ispira al Vangelo, che l’essenziale non consiste nel controllare l’ortodossia di una dottrina, ma nel condividere le gioie e le sofferenze con coloro che desiderano camminare sul percorso tracciato dal Signore.


[1] Francesco, Dialogo con i gesuiti del Madagascar (5 settembre 2019).

[2] Francesco, Discorso alla prima Congregazione generale del XV Assemblea ordinaria del Sinodo dei Vescovi (5 ottobre 2018).

[3] Cf. S. Segoloni Ruta, Fratelli tutti? Chiesa e fraternità in questione, in: E. Green – S. Zorzi, S. Segoloni Ruta, Sorelle tutte, Edizioni La Meridiana, Molfetta 2021, pp. 121-122.

[4] Cf. S. Noceti, Vie di una riforma in prospettiva sinodale, in: R. Luciani – S. Noceti, Sinodalmente. Forma e riforma di una Chiesa sinodale, Edizioni Nerbini, Firenze 2022, p. 199.

[5] M.D. Semeraro, Preti senza battesimo. Una provocazione, non un giudizio, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2018, pag. 62.

[6] Francesco, Secondo lo stile di Dio. Riflessioni sulla spiritualità del presbitero, Libreria editrice Vaticana, Città del vaticano 2022, p. 20.

[7] “Nell’ultimo mezzo secolo la psicologizzazione e la medicalizzazione delle nostre esistenze è a dir poco esplosa… fino all’eccesso di zelo che induce a sovra-interpretare come patologia ogni forma di dissenso o di rifiuto manifestati verso l’istituzione semi-totale” (A. Muni).

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12 Commenti

  1. P. Bruno Esposito, O. P. 3 gennaio 2023
  2. Francesco 29 dicembre 2022
    • Fabio Cittadini 3 gennaio 2023
      • anima errante 3 gennaio 2023
  3. Mauro 28 dicembre 2022
  4. Claudio Santi 28 dicembre 2022
  5. Gian Carlo Politi 28 dicembre 2022
  6. Marco Ansalone 28 dicembre 2022
  7. Fabio Cittadini 28 dicembre 2022
  8. ANDREA VENUTA 27 dicembre 2022
    • Giuliana Babini 30 dicembre 2022
  9. Pier Giuseppe Levoni 27 dicembre 2022

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