In questo tempo sinodale, non solo di preparazione, ma già di celebrazione effettiva d’un Sinodo sulla sinodalità, si moltiplicano le iniziative di incontri, condivisioni, confronti, anche non senza una certa probabile dialettica, sui temi più diversi: è bene che sia così, in una Chiesa in cui ognuno deve dare il proprio apporto, senza alcuna esclusione.
Uno di questi è stato la serie d’incontri di circa 50 sacerdoti diocesani e religiosi con orientamento omosessuale o bisessuale, che hanno così «accettato di mettersi in gioco per raccontare il loro vissuto, le loro difficoltà e le loro speranze», come si legge nell’occhiello dell’articolo con cui G. Piva dà conto dell’iniziativa.[1]
Tale riflessione ha offerto all’Autore l’occasione di evidenziare una certa linea tendenziale assunta dalla Chiesa negli ultimi decenni, in riferimento alla questione dell’omosessualità e – ancor più in particolare – al tema di chi, con orientamento omosessuale, chiede di accedere al sacerdozio. In breve, si sarebbe passati o si starebbe passando da una posizione di rigidità a una di apertura.
In questo processo evolutivo – secondo l’Autore – io apparterrei alla prima categoria, quella di chi sostanzialmente chiude ogni possibilità di accesso al ministero per chi ha questo tipo di orientamento. A sostegno di tale sua valutazione cita alcune mie considerazioni contenute in un articolo del 2009, a commento di un’Istruzione vaticana del 2005.[2] Ma non cita testi miei successivi che, in modo progressivo, hanno espresso un approccio diverso all’argomento. Soprattutto il testo del 2021, pubblicato come Sussidio del Servizio nazionale per la tutela minori e persone vulnerabili (SNTM), della CEI, dal titolo La formazione iniziale in tempo di abusi (in collaborazione con lo psichiatra S. Lassi).
Senso d’un percorso
Al riguardo, è necessario dire e premettere che, all’interno della Chiesa, ma pure della comunità scientifica, l’interpretazione data alla questione omosessuale si è caratterizzata per una grande quantità di cambiamenti e di riposizionamenti che si sono prodotti in un tempo molto breve.
L’adesione diffusa ad alcune interpretazioni ha mostrato quanto alcuni approcci del passato (anche recente) fossero almeno riduttivi e sollecitato la messa a punto di nuovi modelli che tengano conto dell’estrema complessità della questione omosessuale. Nessuna teoria, del resto, oggi come allora, dovrebbe ingenuamente ergersi a punto di arrivo indiscutibile.
Considero che – sul piano della comprensione del fenomeno a livello psicologico – vi sia stato un progresso che sicuramente costringe a rivedere alcune conclusioni di allora. Ciò che si è acquisito, tuttavia, non ci autorizza a fermarci, come se quelle acquisizioni corrispondessero alla meta finale, quasi non ci fosse più niente da capire.
Per questo, anche sollecitato dall’esperienza del contatto educativo di questi anni con persone d’orientamento omosessuale, sento personalmente l’esigenza di continuare a portare avanti una riflessione personale sempre più aperta – da un lato – all’approfondimento scientifico e disponibile a rivedere certe posizioni, in uno spirito – sul piano ecclesiale – davvero sinodale e dunque, in concreto, con stile dialogico e tendente a comporre sensibilità diverse.
È necessario, in questo momento, cercare di condurre insieme tale analisi, condividendo il più possibile anche dubbi e punti ancora aperti con atteggiamento costruttivo.[3]
A partire da due premesse più specifiche. Dall’ammissione, anzitutto, che su questo argomento abbiamo ancora molto da capire, visto che a tutt’oggi non esiste una teoria condivisa sull’omosessualità in ambito scientifico.[4] Mentre – ed è il secondo presupposto – siamo sempre più convinti che la riflessione sull’omosessualità sia di fatto e anzitutto riflessione sulla sessualità tout court, o occasione preziosa per entrare sempre più nel suo mistero.
La formazione oggi
Di tutto questo lavoro (come un work in progress) vorrei ora presentare sinteticamente solo alcuni aspetti, mostrando pure come – in maniera diretta o indiretta – abbiano ispirato il testo già citato, curato nel SNTM, almeno in certe parti che più si riferiscono al nostro tema, come dei punti di contatto con quella cultura o come questioni tuttora aperte e su cui sembra opportuna un’ulteriore analisi.
1. Diverso approccio alla questione omosessuale: dal naturalismo al personalismo
Sino a qualche decennio fa l’approccio, nel mondo ecclesiale, era di tipo morale, legato a un’antropologia sessuale sostanzialmente naturalista, e che poneva in stretta correlazione l’atto sessuale (e la sua moralità) con la fecondità. Tale approccio, anche sull’onda della vivace riflessione postconciliare, ha progressivamente assunto accenti di tipo personalista, legati a un’antropologia sessuale molto attenta anche ad altri aspetti, oltre la fecondità, come l’unione delle vite e degli affetti tra uomo e donna, del loro dono totale reciproco, nella duplice dimensione di unità e generatività.[5]
Ciò ha portato e sta progressivamente portando a cogliere anche nella relazione omosessuale la possibilità di un’esperienza autenticamente affettiva, con le sue componenti di stabilità e trasparenza, profondità e fedeltà, o comunque a vederne la moralità anche e in particolare da questo punto di vista, più integrale.
In fondo, se la sessualità è naturalmente connessa con la vita affettiva dell’individuo, come una delle sue forme espressive più alte, è giusto che sia questo – la possibilità di amare e lasciarsi amare – il criterio valutativo anche di un’eventuale relazione tra persone dello stesso sesso, o l’interrogativo forse centrale e alla fine dirimente l’intera questione.
2. Tendenza omosessuale e grammatica della sessualità
L’antropologia naturalista tendeva a definire la tendenza omosessuale come qualcosa di «necessariamente incompiuto e immaturo», o «d’intrinsecamente deviante».
Nel nostro testo del SNTM non appare in nessun modo tale tipo di valutazione. Ma si parla della cosiddetta «grammatica della sessualità», definendo la stessa come energia, ed energia specifica: relazionale «che apre all’alterità e diversità, contro ogni tendenza all’omologazione dell’altro, e (che) proprio per questo rende complementari i rapporti»[6] e fecondo lo scambio.
In tal senso, è stata sempre letta la diversità dei corpi come condizione per un corretto rapporto sessuale, quasi simbolo d’esso, in una complementarità reciproca garantita – appunto – dalla differente conformazione somatica. E all’interno di un’antropologia che appare molto realista e aderente al dato inconfutabile della stessa diversità corporale.[7] Che mancherebbe nello scambio omosessuale.
Ma non esiste solo questo tipo di diversità, quella fisica. Si può osservare, infatti, come vi siano altre differenze che questo rapporto rispetta e promuove (diversità di sensibilità, di doti, di valori, di vita interiore, di genialità unica e originale, di visione dell’esistenza…) rispettando altresì, dunque, la grammatica della sessualità.
Sono due letture non del tutto convergenti. Se l’alterità, in una prospettiva personalista, è condizione dell’autentica relazione, come qualcosa d’irriducibile, da un lato, non può esser data per scontata solo a partire dal semplice dato fisiologico (come avviene nell’eterosessualità), dall’altro, non può nemmeno restare vaga e indefinita o solo soggettivamente percepita, esponendosi al rischio di letture autoomologanti e manipolative.
Occorre senz’altro, dunque, procedere nella riflessione, per definire meglio il senso dell’alterità relazionale, le sue condizioni e componenti, radici ed espressioni, il suo rapporto col (senso del) mistero dell’altro, ciò che in essa educa al rispetto della diversità e pure quanto essa formi al senso dell’io e del tu e dei rispettivi confini, al rapporto tra identità e appartenenza. E non solo in riferimento alla vita sessuale, ma pure a quella spirituale (Dio non è forse il Radicaliter Aliter?).
3. Omosessualità e abusi
Altro punto cui il testo che stiamo commentando ha dato attenzione in questo tempo d’abusi è stato l’alto numero di vittime maschili specie nel caso degli scandali della Chiesa nordamericana nella seconda metà del secolo scorso. Più di qualcuno credette di stabilire allora collegamenti improbabili tra omosessualità e pedofilia. Il nostro testo, al riguardo, è molto chiaro: «Una correlazione o connessione diretta tra pedofilia e orientamento sessuale non esiste di per sé, a livello teorico-scientifico».[8] Vi sono analisi scientifiche accurate (alcune sono riportate nel testo stesso) che spiegano la differenza, che non ammette alcuna confusione, tra i due concetti.
Quanto al numero così alto di vittime maschili da parte del clero, alcuni la spiegano con la maggior possibilità d’accesso, un tempo, per i soggetti maschi all’altare e a un certo tipo di rapporto e familiarità con il prete.[9]
Non tutti – a onor del vero – trovano questa spiegazione sufficiente, segnalando così la necessità di ulteriore indagine al riguardo. Ma resta in ogni caso la distinzione precisa a livello di identità tra le due realtà.
4-. Tendenza omosessuale e modo di viverla
Un punto, invece, in cui sembra esservi un sostanziale accordo è che il problema, più che la tendenza in sé, è rappresentato dal modo di viverla (come per altro anche nel caso della tendenza eterosessuale). La tendenza, infatti, è avvertita dal soggetto dentro di sé senz’averla scelta, come qualcosa che sente da sempre e che tende a persistere; mentre c’è un certo margine di possibilità d’interpretazione e azione sul modo di pensarla e di realizzarla in concreto.
E qui tocchiamo un punto nevralgico dell’intero discorso, ovvero ruolo e incidenza della formazione.
5. Tendenza omosessuale e cammino formativo
Vediamo allora almeno alcuni aspetti di questo “modo di viverla”.
5.1 Riconoscere come parte di sé
Anzitutto, si tratta di riconoscerla in sé stessi, come parte di sé che va coscientizzata e accolta, o quale componente del mistero del proprio io che non può esser negata o rimossa, né caricata di sensi di colpa o d’indegnità. Ma va pure ripresa nel confronto formativo con l’educatore, in un dialogo franco e aperto, che toccherà anche all’educatore favorire, in spirito costruttivo e rispettoso. Il “non detto” nell’area sessuale, qualsiasi sia l’orientamento della persona, specie se per paura o per calcolo, non fa che sospendere o rimandare quelli che poi potrebbero diventare problemi, e può divenire nel tempo gravemente dannoso.[10]
5.2 Coglierne l’evoluzione
Riconoscere il proprio orientamento sessuale nel cammino iniziale formativo significa anzitutto identificare la sua origine e il suo sviluppo: è diverso, infatti, sentirsi da sempre omosessuali, oppure a partire da un’esperienza, (pre)adolescenziale (ma a volte anche successiva a queste fasi d’età), comunque non direttamente cercata (bensì realizzata per gioco, per curiosità, per imitazione, per… spirito di gruppo), ma poi ripetuta: all’inizio subendola (a volte anche in forma grave e violenta) e poi divenuta sempre più frequente e abituale.
Certo, in alcuni casi l’esperienza successiva ha solo mostrato e fatto emergere qualcosa che era già (inconsciamente) presente, ma non sempre è così, o solo così, e comunque sembra possibile una tendenza omosessuale in qualche modo indotta da eventi esperienziali non determinati dalla persona.
E questo impone una differenza di approccio e di valutazione: tra qualcosa di percepito in sé da sempre e qualcosa che è intervenuto solo a un certo punto del cammino evolutivo, e che potrebbe anche non corrispondere a quel che l’individuo voleva profondamente. Non è una considerazione indifferente, e può richiedere un certo approfondimento e confronto in ambito formativo. Il rispetto per il giovane e la sua dignità, per il suo mistero e la sua verità esigono quest’attenzione e distinzione.
È banale e potenzialmente fuorviante interpretare immediatamente come segno inequivocabile di omosessualità una semplice attrazione in tal senso, specie se si è manifestata in una fase evolutiva, dunque ancora instabile, della personalità.
5.3 Dall’origine al significato
Sempre quando si parla di sessualità, indipendentemente dal suo orientamento, occorre andare… oltre la sessualità medesima. Perché essa, come già insegnava la prima psicoanalisi, ha due caratteristiche: la plasticità e l’ubiquità. In concreto: un atteggiamento, tendenza, problema… di tipo sessuale o che appare in tale area, può nascere o esser nato in aree non sessuali della personalità; mentre – al contrario – una qualsiasi problematica più o meno conflittuale di origine sessuale può manifestarsi poi in altre aree. Nel primo caso la sessualità è cassa di risonanza (di problemi nati altrove), nel secondo si nasconde dietro mentite spoglie.
È un po’ l’aspetto enigmatico (non solo misterioso) della sessualità, che impone sempre grande discrezione nella sua analisi, e un’attenzione che sappia andare il più possibile oltre il dato immediato, al di là della sensazione soggettiva. Nell’interesse della persona stessa e della sua verità più profonda.
Le informazioni che ci vengono, infatti, sull’individuo e la sua storia attraverso un’indagine corretta, fin dall’inizio, circa la sua sessualità sono sempre rilevanti e vanno ben oltre l’eventuale definizione del suo orientamento, al tempo stesso offrendo elementi utili per comprenderlo.[11]
6. In riferimento al discernimento
Altro punto rilevante d’analisi e di confronto sul tema dell’omosessualità è quello relativo all’ammissione agli ordini o ai voti. Accenno qui solo ad alcuni criteri di discernimento sui quali è più ravvisabile un certo cambio d’atteggiamento ed è necessario continuare a riflettere.
6.1 Criterio fondamentale: scelta libera e responsabile
L’obiettivo cui mira la formazione del celibe per il regno dei cieli nell’ambito affettivo-sessuale, qualsiasi sia il suo orientamento sessuale, è – positivamente – la capacità di scegliere liberamente e responsabilmente il celibato, cosa tutt’altro che semplice e automatica, una volta verificata la genuinità dell’opzione sacerdotale.
Ora, la scelta è libera quando – di nuovo – non è motivata da paura o calcolo, ma dall’attrazione per un valore/ideale che il chiamato ha scoperto e sente importante e prezioso, qualcosa di vero-bello-buono in sé e che rende vera-bella-buona la sua vita, e non solo per sé, ma anche per gli altri, nella Chiesa.[12]
La scelta è responsabile quando il soggetto è in condizione di vivere quella opzione con la rinuncia e le conseguenze che essa implica. Ovvero, nel caso del celibe, quando l’attrazione dà la forza di rinunciare a qualcos’altro, che pure il soggetto sente desiderabile e non cattivo in sé, ma non al punto di considerarlo indispensabile –irrinunciabile per esser sé stesso e realizzarsi nella sua verità, come può esser l’esercizio dell’istinto genitale, in senso sia etero che omosessuale. Infatti, lo stesso tipo di rinuncia, pur se con riferimento diverso, è richiesto sia all’etero che all’omosessuale. Che ovviamente non vuol dire per nulla rinuncia all’amicizia, alla relazione d’una certa intensità, al coinvolgimento emotivo, al gusto di voler bene e di lasciarsi voler bene.
6.2 Tensione di rinuncia, non di frustrazione
C’è un criterio che svela questa felice combinazione di scelta e di rinuncia (con l’attrazione che fa da motore), ed è quello d’una sostanziale pace interiore, che rende serena la persona, pur con la necessaria vigilanza e una tensione inevitabile. Tensione che sarà vissuta come sopportabile, tale da poter esser affrontata dall’individuo, proprio in forza del tesoro che l’attrae, o del motivo positivo che lo spinge; come un “no” a qualcosa che in realtà nasconde o è conseguenza d’un “sì” a qualcos’altro. Sarà la classica tensione di rinuncia, legata a quella rinuncia che è parte normale e insopprimibile di ogni scelta, e che è criterio positivo di discernimento. Tale tipo di tensione, infatti, indica sostanzialmente la libertà del soggetto nei confronti delle sue stesse attrazioni istintive, come capacità di gestirle.
Diversa sarà la tensione negativa, quella di frustrazione,[13] determinata dalla sensazione di non poter realizzare un aspetto che l’individuo sente (troppo) importante di sé. Tale sensazione rende la rinuncia eccessivamente pesante, meno libera e ancor meno gestibile dal soggetto, creando in lui una tensione con cui sarà complesso convivere, e che potrebbe portare, alla lunga, alla ricerca di compensazioni, se non di una doppia vita. Con probabile infelicità futura.
Non si tratta – come si vede – d’una questione morale o di pura capacità di controllo comportamentale (con gli esiti moralistici o volontaristici che sappiamo), ma di verificare se uno è libero e sarà felice nella scelta che sta facendo. Indipendentemente dall’orientamento sessuale. È ovvio, infatti, che questa stessa tensione di rinuncia, con la pace interiore che comporta e la libertà che esprime, è criterio di discernimento per chiunque faccia una scelta di celibato per il regno. Uno deve vivere con gioia la propria scelta, non con senso di frustrazione!
6.3 Integrazione della tendenza nel progetto vocazionale
Tale terzo criterio esprime un atteggiamento diverso rispetto al passato; è infatti un criterio positivo poiché provoca esplicitamente il chiamato a vedere come vivere quel che prova in sé, a livello della propria affettività e non solo, al servizio della sua chiamata al sacerdozio, non dunque come ostacolo, ma come potenzialità.
Che vuol dire – da un lato – l’oggettività d’un punto di riferimento finale, d’un obiettivo che regoli lo stile di vita, specie lo stile relazionale, e le scelte della persona; e – dall’altro – il coraggio di vivere la propria realtà personale nella sua totalità, anche in ciò che riguarda il proprio orientamento, in funzione del ministero che ha scelto, con creatività e originalità. Come dicevamo all’inizio di questa riflessione, se anche l’orientamento omosessuale indica ed esprime energia affettiva, e dunque capacità d’amicizia, di vincoli intensi, di empatia e partecipazione emotiva alla vita dell’altro, d’amore dato e ricevuto…, ebbene tutto questo va vissuto, purificato certamente da ogni rigurgito autoreferenziale o da ogni selettività relazionale che finirebbe per escludere e far preferenze, ma non può esser messo tra parentesi o negato, al contrario va integrato col proprio progetto sacerdotale, poiché esso stesso è tutto costruito sull’amore, verso tutti/e, senza esclusioni.
Il discorso è qui molto delicato e senz’altro necessita ancora di precisazioni e approfondimento. Ma è significativo, credo, questo cambio di prospettiva. Per questo il Sussidio dice, a tal riguardo, di «discernere con molto rigore» tale possibilità d’integrazione, aggiungendo: «senza darla per scontata»,[14] perché non è per niente scontato (ovvero né pacifico né spontaneo) vivere autenticamente la sessualità in un progetto celibatario. Ed è fin troppo chiaro che con lo stesso rigore va condotto il discernimento con l’eterosessuale.
6.4 Non isolare l’orientamento in sé, ma leggerlo nel quadro globale della personalità
Un’indicazione rilevante, infine, per chi deve operare il discernimento, viene ancora dal testo che sto presentando, quella di «non isolare la tendenza in sé, sganciandola dall’insieme della personalità, né discernere l’autenticità vocazionale a partire unicamente dalla tendenza stessa (come fosse l’elemento decisivo), ma – al contrario – coglierne il significato nel quadro globale della personalità del giovane».[15]
Perché, come abbiamo detto, più importante e decisivo della tendenza in sé, è il modo di viverla, e dunque l’equilibrio generale della persona nel prenderne coscienza, nell’accettarla come parte di sé, nel gestirla con sufficiente libertà e serenità, e in particolare, come appena sottolineato, nell’integrarla con la natura e gli obiettivi della vocazione presbiterale.[16]
Per questo è necessario e intelligente vedere altre voci correlate direttamente o indirettamente con la tendenza stessa, e che consentirebbero di viverla in modo autentico, come vari ambiti di maturità e sensibilità: da quella relazionale a quella spirituale, dalla libertà di autodecentrazione orizzontale (= metter l’altro al centro della mia vita) a quella verticale (= metter Dio al centro della relazione con l’altro), dal senso del mistero e della sacralità del tu al rispetto della debolezza e minorità altrui…
Solo allora il discernimento è possibile e può sperare d’esser veritiero. Ovvio che sarà tanto più obiettivo quanto più tutto il cammino formativo è stato soggettivo, sulla persona, e ha lavorato su questi punti, che – come abbiamo più volte segnalato – in buona parte riguardano il cammino normale del chiamato verso la libertà e maturità affettivo-sessuale.
[1] G. Piva, Cammino sinodale – LGBT+: con tutto il cuore. Da dove nasce il documento dei 50 sacerdoti omo-bisessuali, in “Il Regno – Attualità”, 4(2023), 78-80.
[2] Si tratta del testo della Congregazione per l’educazione cattolica del 2005, Istruzione circa i criteri di discernimento vocazionale riguardo alle persone con tendenze omosessuali in vista della loro ammissione agli ordini sacri; poi confermate e reiterate nelle varie Ratio sulla formazione nei seminari fino al 2016.
[3] Nell’articolo in questione l’Autore – considerando solo la mia posizione del 2009 – mi contrappone a S. Guarinelli e C. D’Urbano, che mi sono carissimi amici oltreché colleghi di lavoro, e coi quali spesso condividiamo questo cammino di riflessione.
[4] Ipotesi teoriche sì, ne esistono, ma ancora discretamente lontane da una teoria condivisa.
[5] Lo ha messo molto bene in evidenza M. Faggioni al recente convegno su Giovani, affettività, identità, organizzato dall’Università Salesiana l’11 marzo 2023, nella sua relazione: Identità di genere e orientamento sessuale: questioni etiche discusse.
[6] Ibidem, 36.
[7] Vedi in tale direzione le illuminanti catechesi sulla teologia del corpo e dell’amore umano di s. Giovanni Paolo II dal novembre 1979 al novembre 1984.
[8] Servizio Nazionale per la tutela dei minori (CEI), La formazione iniziale in tempo di abusi, Roma 2021, p. 46 (d’ora in poi FITA).
[9] La netta distinzione tra abusi sessuali su minore e pedofilia permette inoltre di comprendere come quest’ultima renda conto solo di una parte degli abusi stessi, mentre una parte rilevante è riferibile ad altre problematiche, tra le quali l’immaturità psicoaffettiva. Quest’ultima si alimenta di fattori contestuali, come quelli sopra descritti e può dunque aver come esito comportamenti abusanti.
[10] Cf. Ibidem, 47.
[11] Per questo il documento che stiamo considerando raccomanda un’attenzione circa “l’origine” della tendenza omosessuale e “il suo significato nel quadro globale della personalità del chiamato” (cf. FITA, 47), così come sarebbe bene fare, in generale, per la storia o l’evoluzione psicogenetica della sessualità di chiunque.
[12] È la logica evangelica del tesoro trovato nel campo, cf Mt 13,44–46.
[13] Così, infatti, si chiama: tensione di frustrazione, per contrapporla alla tensione di rinuncia.
[14] FITA, 47.
[15] Ibidem, 116, nota 134.
[16] È sempre parte della concezione personalista pensare una realtà così significativa come la sessualità, al di là di generalizzazioni definitive e del suo stesso orientamento, come qualcosa che ogni persona vive dentro il suo sviluppo generale e dentro la sua propria identità, con aspetti unici e irripetibili.
Le affermazioni di Padre Amedeo Cencini non cancellano le cose che ha fatto in questi anni. Solo Silere non possumus è riuscito a dar voce alle centinaia di preti che hanno dovuto subire gli sproloqui di Cencini in seminario o alle assemblee dei preti. Le assurdità delle cose che ha sempre detto sono inenarrabili. Gli abusi psicologici che ha perpetrato, evitiamo di parlarne proprio.
Non ci si lava la coscienza con un articolo.
Mi rendo conto che la mia questione non corrisponda completamente al tema dell’articolo, anche se vi è strettamente connessa. Vorrei sapere da p. Cencini se, alla luce del progresso nella riflessione degli ultimi decenni cui fa riferimento, in una eventuale revisione del Catechismo della Chiesa Cattolica ritiene che la seconda parte dell’articolo 2357 vada modificata o sia invece da mantenere invariata.
«Appoggiandosi sulla Sacra Scrittura, che presenta le relazioni omosessuali come gravi depravazioni, la Tradizione ha sempre dichiarato che ” gli atti di omosessualità sono intrinsecamente disordinati “. Sono contrari alla legge naturale. Precludono all’atto sessuale il dono della vita. Non sono il frutto di una vera complementarità affettiva e sessuale. In nessun caso possono essere approvati.»
Ad essa consegue logicamente l’inizio dell’articolo 2359 «Le persone omosessuali sono chiamate alla castità» da leggersi ovviamente in continuità con quanto vi segue.
Alla fine l’abiura di Amedeo Cencini è arrivata! Costretto o per sua spontanea volontà? Se Cencini con questo articolo è arrivato a negare apertamente la sua posizione precedente sull’omosessualità significa che le ragioni per cui è stato segnalato allOrdine degli psicologi del Veneto ed essere soggetto a una inchiesta interna erano più che giustificate e corrispondevano al vero. Di fatto, questo testo è l’ammissione della colpa. Al momento, tuttavia, non ci sono pubblicazioni a sua firma nelle quali dimostra di aver cambiato posizione scientifica.
Non posso che rallegrarmi che p. Amedeo Cencini stia riformulando la sua posizione. Personalmente sono convinto che tanto il sacerdote eterosessuale quanto quello omosessuale siano chiamati a castità. L’orientamento sessuale non dovrebbe – il condizionale è d’obbligo – essere un impedimento come alcuni suoi colleghi presbiteri e psicologi ritengono. Dio chiama chiunque e non ci sono vocati di serie a e vocati di serie b: sarebbe discriminazione!
Una citazione biblica? Evangelica? Patristica? Niente.
Da dove vengono queste idee? Da dove? Da chi?
Amedeo Cencini sta portando avanti una excusatio non petita volta, semplicemente, a pulirsi la faccia per ciò che ha detto e scritto per tutti questi anni. Parla di un documento che riguarda la pedofilia e cita l’omosessualità. Perché? Ciò che ha detto nei video, pubblicati da Silere non possum, sono parole sue non della Chiesa. Quindi? Ci sta dicendo che ha cambiato idea? Chieda scusa a tutti coloro che hanno dovuto subire i suoi abusi psicologici in seminario dove veniva a dire che i gay non sono capaci di relazionarsi. Solo in questo modo il confronto sarà schietto e concreto. Perché non ha fatto un confronto con coloro che lo hanno “accusato” di essere omofobo? Una bella intervista con gli autori di Silere non possum? Cencini non ama il confronto e mostra così anche una incapacità di affermare le proprie tesi. Da parte loro c’è stata una chiara spiegazione del problema nelle teorie di Cencini, da parte di Cencini no. Con tutte le cose che si possono vedere nella formazione del prete, lui guarda sempre all’omosessualità. Perché? Un chiodo fisso.
ECCO, FINALMENTE, L’ARTICOLO CHE VOLEVAMO LEGGERE DA CENCINI!!!! Davvero sono molto contento e soddisfatto, caro Amedeo!
Mi dici che, a parte i tuoi articoli del 2009, non cito testi tuoi sull’argomento che mostrino l’evoluzione del tuo pensiero… Sinceramente li ho cercati, ma non li ho trovati. D’altra parte non volevo proprio citare il Sussidio del Servizio nazionale per la tutela minori e persone vulnerabili (SNTM), della CEI: possibile che si debba trattare dell’omosessualità solo in riferimento alla pedofilia? D’altra parte è solo quello il “tuo nuovo” testo che tu citi. Ma non importa! L’importante è che tu riconosci in questo nuovo articolo il tuo cambiamento di posizione: da una antropologia naturalista che tendeva a definire la tendenza omosessuale come qualcosa di «necessariamente incompiuto e immaturo», o «d’intrinsecamente deviante» (la tua posizione del 2009), ad una antropologia personalista della relazione. Questo tuo passaggio è molto importante! Quanti sacerdoti e seminaristi devastati ho accompagnato, che hanno subito dai loro formatori il tuo ideale per un’atteggiamento “egoalieno” nei confronti del loro orientamento. Grazie davvero, caro Amedeo! I miei, e tuoi, amici e collaboratori, Chiara D’Urbano e Stefano Guarinelli ti ringraziano sicuramente per questo tuo articolo che, sinceramente, firmerei anch’io! Solo una nota: nell’articolo ti riferisci ancora – in modo più sfumato – a quella che un tempo chiamavi “omosessualità non strutturale”. Condivido anche quella tua prospettiva, nella misura in cui, però, si possa e si debba parlare anche di “eterosessualità non strutturale”: una “tendenza eterosessuale” (qui il termine è appropriato), di carattere difensivo, in qualche modo indotta da eventi esperienziali non determinati dalla persona, come ad esempio un forte stigma sociale nei confronti dell’orientamento omosessuale. Sarebbe interessante parlarne…
A questo punto, davvero, non vedo l’ora di invitarti ai nostri corsi di formazione per operatori di pastorale con persone Lgbt+, a cui Chiara e don Stefano hanno collaborato, magari per parlare proprio della prossima Ratio Nationalis per i seminari che la CEI sta per varare!
Quando lessi i Sussidi del Servizio nazionale per la tutela minori e persone vulnerabili (SNTM) avevo apprezzato questa discontinuità di approccio (con riferimenti anche agli studi della dott.ssa D’Urbano) e sinceramente avevo pensato fossero più della coautrice che non di p. Cencini. È quindi molto apprezzabile che p. Cencini ora abbia finalmente chiarito di aver cambiato posizione, e si dica disponibile – scientificamente e sinodalmente – a rivedere le vecchie conclusioni di allora (senza però qui ripudiare esplicitamente a distinzione tra omosessualità strutturata/non strutturata) che, perlomeno nella versione volgarizzata, hanno creato ingiuste sofferenze e imbarazzi (nel migliore dei casi ironiche battute: “Non ti è ancora passata?”) tra formatori, rettori di seminari, vescovi, preti e seminaristi. È vero che una semplice attrazione non fa un orientamento, come qui ribadisce (Stefano Guarinelli in “Omosessualità e sacerdozio” parla anche di “non orientati” e “disorientati”), ma a molti nella prassi comune è stato chiesto, almeno implicitamente, di reprimere l’orientamento stesso in sé per classificarlo come “non strutturato/transitorio” e così procedere nel percorso, pena l’esclusione (adducendo magari altri motivi). Con la conseguenza opposta di ordinare persone distoniche, nevrotiche (e quindi rigide e inflessibili, campanello d’allarme per il SNTM) anziché, come qui giustamente chiede padre Cencini, che accolgano la propria identità affettiva in modo cosciente, libero e responsabile: integrata nella vocazione stessa, quale dono/carisma della persona che impara a donarsi totalmente, in tutta verità.
Per quanto la sensazione è di essere “scarnificati” da questi articoli estremamente dettagliati e precisi, direi che finalmente emergono le coordinate fondamentali affiché la chiesa cattolica possa riappacificarsi con questo aspetto imprescindibile dell’umanità. Banalmente il fatto che ci sono persone anche credenti che normalmente sono attratte da persone dello stesso sesso. Il ritardo con cui si sta prendendo atto di questo è tremendo ma piano piano ci stiamo arrivando e spero che in futuro non si caricheranno più sulle spalle delle persone carichi insopportabili semplicemente perchè amano persone dello sesso.
Ringrazio l’autore.
E’ pur sempre un amore monco della fisicità dell’amore tra uomo e donna. Per cui trattasi di amore platonico, amore di amicizia.
Adoro questi deliziosi tentativi di non ammettere che fra due uomini ci possa essere amore fisico molto forte e passionale negando al realtà dei fatti.
Per cui gentile Marco mi limito a proporti di farti due risate con la scena finale di “a qualcuno piace caldo”:
https://www.youtube.com/watch?v=7AYudGrxraE
Nobody is perfect…