Uno dei compiti più impegnativi del pastore di una comunità cristiana è quello di attivare dei processi pastorali, cioè dei percorsi volti a migliorare l’azione evangelizzatrice della propria comunità pensati e vissuti in una continua interazione con coloro che ne prendono parte.
Il ruolo di chi presiede questi processi è estremamente complesso, come del resto quello di qualsiasi supervisore, perché deve favorire la riflessione e l’attività delle persone che accompagna, ma, nello stesso tempo, deve orientarle, anche autorevolmente, perché non prendano strade sbagliate. È evidente quindi che la capacità di gestire questi processi richiede una certa maturità, sia psicologica che spirituale, e che, in caso contrario, si finisce inevitabilmente per fare dei pasticci. Ad esempio, un pastore che volesse comandare sempre e comunque, senza mai ascoltare nessuno e imponendo la propria visione delle cose in qualsiasi ambito, finirebbe ovviamente per paralizzare le capacità e la disponibilità dei membri della sua comunità, che probabilmente non sarebbero disposti ad essere meri esecutori dei suoi comandi.
Vi è però una malattia spirituale, spesso stigmatizzata da papa Francesco, che ha dei tratti molto più raffinati rispetto a questo stile manifestamente dittatoriale, ma che, al pari di esso, rende praticamente impossibile supervisionare i processi pastorali, in quanto spinge a concentrare nelle proprie mani qualunque decisione di rilievo. Si tratta del “carrierismo”, cioè di un attaccamento alla propria immagine – e quindi alla propria carriera – che deriva dal bisogno di essere ammirati dagli altri e di avere potere su di loro. Questo bisogno spinge poi ad assumere uno stile manipolativo nei confronti delle altre persone, cioè a servirsene per i propri interessi e, in particolare, ad essere elegantemente compiacente nei confronti dei superiori.
Questo atteggiamento perverso, in realtà, non è presente solamente nella Chiesa, ma in qualunque organizzazione di una certa consistenza. Nelle comunità cristiane, però, è forse più diffuso che altrove il “carrierismo inconsapevole”, quello cioè che non è frutto di una scelta deliberata di malvagità, ma solo di un’immaturità psicologica o addirittura di un disturbo della personalità. Questa mancanza di consapevolezza riduce o annulla la responsabilità morale dell’interessato, ma fa anche sì che questi faccia molta fatica a rendersi conto del suo problema e a superarlo.
In effetti, nelle comunità cristiane, anche tra i ministri ordinati, possono svilupparsi delle figure che, per usare un’immagine paradossale, sono come luci che abbagliano ma che non illuminano nessuno. In altre parole, si tratta di individui che sanno emergere, sfruttando al meglio le loro capacità e le opportunità delle situazioni in cui si trovano, così da attirare su di loro una commossa e devota ammirazione da parte di molte persone. Tuttavia, costoro non illuminano realmente nessuno, non perché non sappiano dire e fare cose edificanti, ma perché non sanno accendere altre luci, cioè far crescere autonomamente altre persone nella libertà in modo che imparino a brillare di luce propria e non riflettano semplicemente la loro. E così, quando per qualsiasi ragione scompaiono dalla scena, ci viene il buio…
È evidente che uno stile del genere inibisce qualsiasi processo pastorale. Interagire con le persone di una comunità, infatti, significa far nascere altre luci e consentire loro di imparare a brillare, facendosi anche da parte quando è il momento opportuno per non oscurarle con la propria competenza ed esperienza. In altre parole, la presidenza pastorale richiede una grande umiltà, una notevole libertà dall’ammirazione degli altri, dal prestigio e dal potere. E per un carrierista, anche inconsapevole, queste qualità sono difficilmente raggiungibili.
Come fare per rendersi conto se si è colpiti da questa malattia spirituale? I mezzi, ovviamente, sono anzitutto quelli della riflessione e della preghiera vissuta nell’ascolto della parola di Dio.
Tutto questo, però, non basta. Occorre anche valutare se e come stanno fiorendo altre luci intorno a sé, cioè se altre persone stanno crescendo nella fede in modo libero e autonomo, o se, al contrario, si stanno sviluppando solamente atteggiamenti di ammirazione e di dipendenza per la propria persona.
In secondo luogo, occorre sapersi servire della correzione fraterna che, magari con un’ironia indesiderata, mette in luce i tratti meno nobili del nostro stile. Riflettere sul serio su quello che ci viene comunicato dalle persone che ci vogliono bene potrebbe essere il primo passo di quell’umiltà che consente di mettere da parte il carrierismo e che rende luci molto tenui, che però sanno accenderne altre.