Il paternalismo del clero

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prete

Un atteggiamento, che appare prevalente soprattutto nell’ambito ecclesiastico, è il paternalismo. È caratterizzato da una concessione di autorità basata sulla benevolenza, piuttosto che sull’attribuzione di diritti legittimi. Questa dinamica si manifesta attraverso una sorta di asimmetria, rifiutando un dialogo paritario.

La prospettiva è quella di evitare sforzi con la preghiera e l’insistenza, anziché impegnarsi in una discussione seria e nella definizione delle ragioni reciproche. Questo modo di dare e di ricevere mantiene un’asimmetria e un rapporto di dominio, sottolineando il concetto che “chiedere è sufficiente” senza affrontare una negoziazione o una comprensione più profonda. Tale approccio non promuove una crescita responsabile, ma piuttosto una dipendenza continua e un’esercitazione del potere. A monte di questa scelta, si delinea nuovamente la questione del potere.

Controllo e sfiducia

Il paternalismo si manifesta quando una figura di autorità si impegna per il benessere dei propri subordinati, partendo dal presupposto che questi ultimi non siano in grado di garantirselo autonomamente. Questo comportamento può essere riscontrato in varie situazioni, ma trova comunemente applicazione nello stile di leadership o nelle politiche governative che implicano un’elevata protezione e controllo. Tale approccio limita le decisioni e l’autodeterminazione individuali.

Il termine ha acquisito una diffusa notorietà nella pubblicistica storico-politica alla fine del XIX secolo, quando venne utilizzato per descrivere l’approccio assunto dai sovrani degli stati europei, soprattutto a partire dal XVIII secolo. Questi sovrani si attribuirono la responsabilità completa delle attività amministrative e politiche nei confronti dei residenti nei loro territori. In particolare, il paternalismo si riferisce all’atteggiamento dei governanti, i quali, pur perseguendo con premura paterna il progresso e il benessere dei governati, ritengono che questi ultimi non siano in grado di perseguire tali obiettivi in modo autonomo.

In un contesto più ampio, l’espressione denota un modo di agire o un comportamento contraddistinto da una benevola tutela e indulgenza da parte di un’autorità nei confronti dei propri sottoposti o, più in generale, da chi occupa una posizione gerarchica superiore o è più anziano rispetto a chi è in una posizione inferiore nella gerarchia o è più giovane.

Il concetto di paternalismo si manifesta non solo in ambito politico, ma si sviluppa come un principio educativo. In Italia, un trattato incentrato sulla formazione dei coniugi, intitolato Tre libri dell’educazione christiana dei figliuoli e redatto da Silvio Antoniano[1], successivamente cardinale, viene pubblicato per la prima volta nel 1584 e successivamente nel 1852, coprendo così gran parte dell’età moderna. Nel trattato, Antoniano suggerisce che non solo il padre biologico, ma anche il sacerdote, l’insegnante, l’anziano e l’amico di famiglia debbano essere considerati figure paterne.

Come non educare

Il paternalismo viene concepito come un modo improprio, inadeguato e dannoso di educare e formare. È improprio poiché si presenta superficialmente come un atteggiamento paterno di comprensione, ma si trasforma rapidamente in un atteggiamento censorio e giudicante non appena il discente si mostra diverso o ritenuto insufficiente. È inadeguato perché non si adatta alle caratteristiche personali del discente, ma anzi costringe le sue reali attitudini e inclinazioni in modelli formativi astratti e rigidi. È dannoso perché genera frustrazione e disagio e, in particolari circostanze, può portare ad ostilità, opposizione, conflitti e ribellione.

L’essenza del paternalismo si rispecchia nell’assegnazione prioritaria del ruolo e dell’autorità al maestro o al genitore, così come nella credenza che il processo educativo debba coincidere con un percorso di conformità e assenso a un modello di riferimento principalmente ideologico.

Un altro elemento del paternalismo è la scarsa considerazione dell’importanza e della centralità delle dinamiche psichiche nelle relazioni interpersonali specifiche, come quelle finalizzate alla formazione, che possono deteriorarsi, estinguersi o produrre effetti negativi e talvolta perversi.

Se il genitore, l’insegnante, il dirigente o il sacerdote esibiscono tratti morali e psicologici contraddistinti da orgoglio, vanità, autocelebrazione, chiusura su sé stessi e ideologismo, elementi intrinseci e predominanti nella figura del tutore, è altamente verosimile che si stabilisca una guida tutelare con conseguenze differenziate sulla persona sottomessa, in base alle sue caratteristiche morali e psicologiche.

Nel caso in cui il subalterno abbia un profilo di personalità maturo ed evoluto, la leadership paternalistica porterà a un graduale distanziamento emotivo, affettivo e culturale dalla figura paternalista, che riceverà solo un consenso formale privo di autentica adesione ed amicizia. Al contrario, se il soggetto ha un profilo di personalità immaturo o presenta problematiche con un assetto morale debole o poco strutturato, potrebbero emergere conseguenze nettamente negative.

Enumerando alcune delle più comuni conseguenze del paternalismo su individui problematici, si evidenzia che se questi manifestano caratteristiche morali e psichiche quali pigrizia, tendenza all’evitamento e dipendenza, la leadership paternalistica contribuirà ad accentuare tali tratti e modalità difensive, come il nascondimento, l’inibizione, l’indolenza, l’ipocondria e l’ambivalenza.

Se questo atteggiamento manifesta tratti istrionici, narcisistici o mostra una scarsa osservanza delle regole, o si rivela sospettoso e diffidente, il metodo paternalista susciterà principalmente risposte negative, creando uno stato relazionale caratterizzato da reazioni difensive come ipocrisia, astuzia, ambiguità, aggressività e dissenso, intricatamente intrecciate e celate.

Uso del potere

Non va sottovalutato il pericolo di imbattersi in un paternalismo che, pur partendo da un’intenzione onesta di assistere gli altri, rischia di degenerare in un abuso di potere ottenuto attraverso vie clericali. È fondamentale prestare attenzione a “evitare qualsiasi forma di paternalismo, astenendosi dall’imporre le proprie idee agli altri, anche a fini benevoli (…). Con i collaboratori, niente paternalismo, bensì un incoraggiamento alla crescita”[2]..

“Il mostro dell’individualismo si replica anche nel paternalismo: agire da soli per gli altri anziché collaborare con gli altri per il bene comune. Ciò può condurre persino a esercitare un controllo eccessivo sulla fede altrui anziché contribuire alla gioia degli altri come collaboratori (cf. 2Cor 1,24)”[3].

Anche il clericalismo promuove legami funzionali, paternalistici, possessivi e talvolta manipolatori, alimentando atteggiamenti arroganti o prepotenti. La retorica clericale spesso si veste di paternalismo, apparentemente affettuoso, ma lontano dal vero spirito evangelico, come ammoniva don Milani. Don Lorenzo desiderava che i suoi ragazzi esplorassero il mondo senza subalternità, senza paternalismo: egli era un padre, non un distante dispensatore di consigli.

Nel contesto della Chiesa, una delle idee fondamentali per comprendere il ministero apostolico è quella della paternità spirituale. Il ministro, con la sua paternità, è il principio vitale e la guida del popolo di Dio. Tuttavia, si osserva una crisi della paternità nella società e nella Chiesa. Nonostante il divieto di Gesù di chiamare qualcuno “padre” (Mt 23,9), poiché siamo tutti fratelli (cf. Mt 23,8), sembra che il titolo di “padre” si adatti concretamente al ruolo del sacerdote. Il termine “padre” richiama la paternità, evocando un individuo maturo e adulto che dona la vita, cura e si dedica al benessere degli altri. In un’omelia a Santa Marta, papa Francesco ha sottolineato che “per diventare maturi, dobbiamo tutti sperimentare la gioia della paternità”[4].

La paternità spirituale, secondo san Paolo, si manifesta soprattutto come un’iniziativa di mediazione dinamica tra Cristo e i fedeli, un servizio amoroso e una donazione di sé senza limiti. Oltre alle funzioni magisteriali, di governo e di presidenza delle azioni sacramentali, tutte necessarie e imprescindibili, queste devono collocarsi in un contesto di dinamismo positivo e soprannaturale.

La vera paternità svanisce quando si affievolisce l’iniziativa apostolica, l’amore o il senso di donazione. Da qui derivano le principali deviazioni del paternalismo autoritario e sacrale, che erroneamente interpreta la formula “in persona Christi” non come una semplice diversità di servizio offerto al sacerdozio del popolo di Dio, bensì come una pretesa di posizione e diritto di supremazia.

Il prete e la comunità

L’incontro con i fedeli si configura come un’espressione rivelatrice del modo in cui si concepisce e si vive il proprio ministero presbiterale. Esso può incarnare un’autentica paternità spirituale, ma altresì può evidenziare una volontà infantile di possesso, che si configura come la distorsione specifica della paternità nota come paternalismo.

Il concetto di “paternalismo” si tinge di una vasta gamma di sfumature sottili e complesse, rappresentando forse la forma più subdola di deviazione nell’esercizio della paternità, poiché spesso rimane inconscio e ambiguo. Ciò che emerge innanzitutto nell’atteggiamento paternalistico è la propensione a considerare i figli come permanentemente in uno stato di minorità e, di conseguenza, sempre soggetti a tutela.

Il rapporto padre-figli non è un’entità statica, stabilita una volta per tutte, bensì implica un dinamismo continuo e un adattamento educativo che accompagna l’intera durata della vita. L’autentica paternità tiene conto della crescita dei figli, regolando saggiamente le proprie azioni in conformità alle diverse fasi di sviluppo delle loro personalità. Non si ritira prematuramente, evitando di abbandonarli nella loro immaturità, ma neppure prolunga la propria azione oltre il necessario, per non ostacolare il flusso dell’esistenza adulta.

L’autentica autorità si manifesta nel costante sforzo di rendersi superflua. In questo modo, la paternità si rivela per ciò che realmente è: un servizio, esente da dominio e possessività. Tale servizio è rivolto alla persona dei figli, impegnandosi a risvegliare e far maturare gradualmente la loro intelligenza e coscienza, affinché diventino capaci di libertà. In altre parole, devono essere in grado di assumere pienamente nelle proprie mani, consapevolmente e responsabilmente, la propria esistenza.

L’avvertimento rivolto ai vescovi, estendibile a tutti i ministri ordinati nell’ambito delle relazioni con i laici coinvolti nelle diverse responsabilità pastorali, assume particolare rilievo. Si sottolinea la necessità, nella paternità del vescovo, di riconoscere e favorire la specifica funzione dei sacerdoti, evitando sia l’atteggiamento paternalistico che tende a considerare i sacerdoti come perpetui “bambini”, sia l’autoritarismo che li relega a meri “domestici”[5].

Il paternalismo, qui evidenziato, rivela il sotteso tentativo di monopolizzare il benessere spirituale di coloro sui quali si esercita la figura paterna. L’esperienza ha dimostrato la sottigliezza e le sottili strategie psicologiche adottate quasi istintivamente dal paternalista per raggiungere i propri obiettivi[6].

Avvolge, tuttavia, gli individui in una trama raffinata e spesso opprimente di attenzioni, interessi, encomi, suppliche, raccomandazioni, protezioni, lusinghe e doni. Sa abilmente maneggiare le facili armi della messa in risalto dei propri continui sacrifici per coloro a cui tiene, esibendo le proprie sofferenze per le delusioni e gli abbandoni. Talvolta, persino si concede l’esibizione delle lacrime. Ogni gesto è finalizzato a mantenere indissolubilmente legati gli altri a sé. In alcuni casi, la paura di offendere e perdere le persone lo spinge persino a tacere la verità su di loro, cedendo a forme di debolezza e compiacenza che si trasformano in una sorta di connivenza con i loro difetti ed errori.

Questi atteggiamenti generano esclusivismi e gelosie, ricatti emotivi e persuasioni sottilmente coercitive, oltre a una narcisistica avidità e a insidiose annessioni e occulte usurpazioni della personalità altrui.

Le due componenti fondamentali della psicologia paternalistica sono il mantenimento dei subalterni in uno stato di inferiorità e il rapporto possessivo nei loro confronti. Da queste basi si sviluppa un intero ventaglio di atteggiamenti conseguenti, che vengono richiamati di seguito.

  • Ciò che è giustamente dovuto alle persone viene offerto come un dono della propria gentilezza; ciò che rappresenta un semplice adempimento di un dovere viene presentato come un atto di generosità personale e di dignità.
  • Tutto deve derivare dall’alto, riconoscendo i diritti altrui ma respingendo la partecipazione degli altri nella scoperta e nell’esercizio di tali diritti.
  • Gli altri sono destinati solo a ricevere, privati della considerazione di pensare, consigliare o contribuire in modo significativo, senza possibilità di diventare corresponsabili con il passare del tempo e delle esperienze.
  • L’autorità è concepita come unilaterale offerta di valori, verità predefinite e schemi di vita già stabiliti. Non è prevista alcuna spiegazione, discussione o dialogo; viene richiesta solo fiducia, con l’obbligo di ubbidire senza interrogare. Ogni forma di domanda, perplessità, disaccordo o critica è considerata come un’offesa personale e un’intrusione indebita, camuffata da mancanza di amore. I sudditi sono privi di possibilità di appello efficace contro le decisioni dell’autorità.
  • La tendenza al controllo totale, alla verifica continua e all’intervento dettagliato nell’attività altrui, si traduce in un’onnipresenza nella vita degli altri. Poiché si ritiene che gli altri siano incapaci di affrontare le sfide della realtà, il linguaggio e lo stile dei rapporti diventano sempre più carenti di chiarezza, lealtà e franchezza, inclinandosi verso un formalismo eccessivo, l’impersonalità, la ricchezza di circonlocuzioni e sottintesi, risultando talvolta untuosi e diplomatici.
Distorsioni

Il paternalismo rappresenta effettivamente una distorsione disastrosa della figura paterna. Inevitabilmente, genera ribelli, coloro che rifiutano onerose protezioni, o individui succubi e privi di forma per tutta la vita, privi di vigore intellettuale e di maturità caratteriale, costantemente pusillanimi e impacciati nei loro movimenti.

Questi fenomeni spiegano, in particolare sul piano pastorale, alcuni eventi che talvolta si osservano, come la formazione di “feudi chiusi”, la paura dell’intelligenza e della virilità all’interno delle comunità cristiane, e l’aggregazione intorno a pastori con personalità prive di spessore, sempre propensi a dire “sì”.

Va notato che tutto ciò non è solo imputabile ai “padri”; molte volte, vi è una precisa responsabilità anche da parte dei “figli”. I fedeli non sempre hanno compreso appieno l’insegnamento ricevuto. Sicuri e protetti dal loro clero, hanno trasferito volentieri su di esso la parte che spettava loro nell’opera comune. Rinchiudendosi in una comoda passività, hanno permesso alle loro energie di atrofizzarsi e alle loro risorse di assottigliarsi[7].

È imperativo “liberarsi delle vesti del nostro insopportabile paternalismo”[8]. È necessario combattere contro le manifestazioni della Chiesa che, vivendo accanto alla cultura bellicosa, hanno assunto le forme di questa cultura: autoritarismo, paternalismo, spossessamento della comunità e monopolio clericale della parola, in tutto[9].

Non possiamo altresì trascurare il fatto che, sebbene negli ultimi anni si siano manifestate perplessità e riserve da parte di alcuni riguardo alla connessione tra il ministero pastorale e l’idea di paternità spirituale, queste riserve sembrano derivare più dalla considerazione di comportamenti degenerati spesso assunti dai ministri ordinati, piuttosto che da una critica degli aspetti dottrinali sottostanti. È interessante notare che P.H. de Lubac, nella sua ultima opera Les Eglises particulières dans l’Eglise universelle (Parigi, 1971), colloca i ministeri pastorali-gerarchici nella prospettiva fondamentale della “paternità”.

L’opera di generazione e di formazione spirituale propria del ministro ordinato deve avvenire sempre in un contesto di libertà e al servizio della libertà. Il ministro è consapevole che la sua autorità apostolica proviene da Dio, ma, al contempo, rispetta le persone a lui affidate, impegnandosi in un costante dialogo con loro. Accoglie le loro domande e, nelle risposte, non si limita a imporre decisioni con decreti autoritari, ma cerca incessantemente di essere compreso, motivando le sue decisioni e posizionandole in un contesto di fede che le renda comprensibili e accettabili.

Anche in questa stagione sinodale inaugurata nella Chiesa, il rischio è che, nonostante ci sia un ampio dibattito e molte opportunità di confronto, manchino strumenti giuridici adeguati a dare forma e sostanza ad un’autentica collaborazione sinodale. Si sottolinea la possibilità di un approccio paternalistico e clericale che potrebbe ostacolare la possibilità di considerare cambiamenti nei ruoli, nelle funzioni e nelle pratiche, partendo dalla base della comunità parrocchiale. Tali cambiamenti avrebbero inevitabilmente l’effetto di ridefinire, almeno in parte, la struttura della Chiesa, la distribuzione delle responsabilità e, di conseguenza, l’esercizio del potere all’interno dell’istituzione ecclesiastica. C’è il pericolo di introdurre qualcosa di nuovo in contesti consolidati, come mettere vino nuovo in otri vecchi.

Lo stile del ministero

Di fronte alle sfide pratiche presentate dalle comunità, il ministro ordinato deve far emergere la ricchezza delle sue visioni teologiche di fondo. Egli deve concepire il suo ruolo soprattutto come stimolo alla crescita, alla maturazione e alla dinamizzazione delle coscienze.

Il ministro deve adottare uno stile di completo disinteresse per la sua posizione, dignità personale e potere sugli altri. La vera paternità trova la sua sorgente e giustificazione nell’amore. L’atteggiamento richiesto dal ministero ordinato è adulto, ossia orientato al dono e alla creatività. La parola “padre” evoca una persona matura che dona vita e cura, impegnandosi affinché gli altri possano vivere appieno[10].

Nel suo ruolo il presbitero è incaricato di praticare la paternità spirituale con una raffinata maturità umana e spirituale che lo guida a essere autenticamente paterno senza tuttavia scivolare nel paternalismo. L’eventuale pericolo di un paternalismo oppressivo, che confina con il clericalismo e l’abuso di autorità, può essere accentuato dalla percezione e dall’interpretazione delle figure paterne in specifici contesti culturali.

È essenziale ricordare che l’uso della metafora della paternità spirituale è analogico, e non deve essere forzato, seguendo il principio della “similitudo in major dissimilitudo”[11]. La “paternità spirituale” è solo analoga alla paternità nella carne, richiamando alla mente la questione del celibato. Quest’ultimo rappresenta un paradosso, trovandosi tra due estremi errati: la rinuncia e l’eccessiva spiritualizzazione dell’amore sessuale umano. Il celibato, umanamente parlando, implica delle mancanze, ma la luce e la grazia della rivelazione cristiana forniscono la prospettiva necessaria per comprenderne il significato.

Mi piace concludere con le parole di un prete operaio, don Luisito Bianchi, celebre scrittore e letterato: “Il problema è se possiamo ancora accontentarci di essere vicini al popolo e non uno del popolo. Essere vicini non fa che accentuare la separazione: è una forma di paternalismo illuminato, più pericoloso di ogni distanza chiara e non camuffata”[12].


[1] S. Antoniano, Tre libri dell’educazione christiana dei figliuoli, a cura di Alessio Figliucci, Verona, Sebastiano Dalle Donne, 1584.

[2] Francesco, Discorso ai membri della Fondazione “Marcello Candia”, venerdì 8 aprile 2022, in https://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2022/april/documents/20220408-fondazione-marcello-candia.html

[3] F. Lambiasi, Omelia, Rimini, 27 marzo 2013 in https://www.diocesi.rimini.it/wd-document/anche-noi-preti-dobbiamo-convertirci/

[4] Francesco, Omelia del 26 giugno 2013.

[5] Cf. F. Fabene, Relazione Istituto “Sacrum Ministerium” – Congregazione per il Clero. Il rapporto del Vescovo col sacerdote e l’ubbidienza del ministro ordinato e la disciplina ecclesiastica. 24 gennaio 2005, in http://www.clerus.org/clerus/dati/2005-02/28-13/VescSa.html

[6] Cf. R. Castielli, Paternità e paternalismo nella relazione pastorale, in “La Rivista del Clero Italiano”, 5 (1972), pp. 336-344.

[7] Cf. A. Brunetti, Maturità del laicato e paternalismo ecclesiastico, in “Testimonianze” nn. 59-60 (1963), p. 691.

[8] A. Bello, I piedi di Giovanni, in Id, Omelie e scritti quaresimali, vol. 2, Mezzina, Molfetta 1994, p. 352.

[9] Cf. C. Mondatore, Intervista a Ernesto Balducci, in “Giovani. Notizie e sentieri di pastorale giovanile, mensile diocesano di Brindisi-Ostuni” 1/1989, pp. 29-31.

[10] Cf. Numero monografico della Rivista “Presbyteri” 4/2016.

[11] DS 806; CCC 43.

[12] L. Bianchi, I miei amici. Diari 1968-1970, Sironi Editore, Milano 2008, p. 204.

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2 Commenti

  1. Emanuele Castelli 4 gennaio 2024
  2. Fabio Cittadini 2 gennaio 2024

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