La relazione tra sacro e mammona è sempre stato un rapporto sensibile, interessante. E problematico. Come missionario, camminando e accompagnando comunità di emigranti, anch’io ho dovuto emigrare in varie diocesi di continenti diversi, in Europa e in Africa.
Interessante è stato scoprire come nei diversi luoghi – secondo il genius loci – si è riformulato o aggiustato questo rapporto tra sacro e denaro. Fino ad arrivare, come in Svizzera e altrove, al dilemma: o la borsa o la vita. Sì, la vita pastorale.
Nella diocesi di Friburgo, infatti, come in quella di Ginevra, dove ero missionario, (ma, in fondo, anche nel più piccolo villaggio della Svizzera) esiste la Kirchengemeinde, il Consiglio per gli affari economici.
Dopo aver esaudito le necessità di servizio del parroco, come la casa, il personale, forse l’auto nuova da acquistare, il chilometraggio mensile nei suoi spostamenti pastorali…, arriva un’ingiunzione. Non si deve preoccupare assolutamente per le finanze, né per l’economia! Resta di esclusiva competenza del Consiglio per gli affari economici, che, d’altronde, gode di competenze nel suo seno: chi è architetto, chi bancario…
D’altra parte, il prete ha studiato unicamente teologia, non economia, – cortesemente gli faranno presente – e il suo servizio pastorale, in realtà, è solo di passaggio. I suoi otto/nove anni di permanenza, infatti, passeranno ben rapidi, ma la comunità cristiana resta.
Al prete competerà essere esclusivamente “pastore”. Prendersi cura dei giovani, delle coppie per il loro matrimonio e della sua solidità, degli anziani e delle loro fragilità, dei bambini e della loro formazione per un domani, delle celebrazioni, degli eventi sacri e non. Insomma, prendersi cura del suo gregge. Un “cammino insieme” di prossimità e di santità.
Ricordo, quando un giorno, Matteo, un giovane bergamasco, ottimo animatore di adolescenti, studente all’Università di Ginevra in Relations Internationales, fu di ritorno da una settimana nella sua regione. Era come scandalizzato. Era stato a una festa di 50° di un sacerdote bergamasco. Dall’inizio alla fine della celebrazione e durante il pranzo successivo quel sacerdote non faceva che ripetere che era stato per ben cinquant’anni a servizio del popolo!
«Maccome! – si domandava Matteo –, come può dire questo?! Un parroco, in Italia, ha tutte le leve del potere : spirituale, amministrativo, giuridico, morale, economico, pastorale, simbolico… non può, allora, dire di essere a servizio!».
Evidentemente, l’esempio svizzero lo aveva contagiato, tanto da fargli percepire quest’ultimo quasi come un signore feudale. Dove tutto dipende da lui.
Ma, in fondo, sarebbe anche una liberazione. Sì, da tutti gli atti amministrativi e gli orpelli giuridici di ogni tipo.
Ricordo come, in Francia, i sacerdoti si rallegravano, fregandosi le mani: con una legge del 1905 lo Stato aveva purtroppo preso possesso degli edifici sacri costruiti fino ad allora. Si rivelava, invece, un’opportunità. Appena c’era una vetrata rotta della cattedrale o una perdita d’acqua…, una semplice telefonata al Comune, che doveva incaricarsene, risolveva il caso. Con le piccole comunità di fedeli esistenti, infatti, mai avrebbero potuto sopperire a problemi anche gravi di manutenzione… Infatti, «i soldi vengono al passo e vanno al galoppo» sentenzia un antico proverbio.
Ciononostante, una volta coglievo una conversazione tra preti francesi, in cui un direttore Caritas si interrogava: «Sapete che siamo troppo potenti? Se qualcuno di una parrocchia volesse fare un incontro con la Caritas, una serata di formazione…, se il parroco non vuole, non c’è modo di entrare in quella parrocchia!».
Potenti, forse… veniva da sorridere, pensando al ben magro riconoscimento che il prete gode nella società laica francese: quello che vale è essere citoyen (cittadino)! Da noi, visto il riconoscimento ad ogni livello, allora, si potrebbe dire, forse, onnipotenti.
Nella diocesi di Londra, trovavo curioso, invece – dato lo spirito pragmatico inglese –, che il foglietto parrocchiale settimanale mettesse ogni volta, all’ultima riga, il risultato delle questue del fine-settimana precedente. Termometro settimanale della generosità, grande o meno, della comunità. Oltre che di trasparenza.
E veniva da ricordare il mio vecchio parroco e la sua estrema discrezione: lui stesso faceva in chiesa il giro delle offerte («così la gente dà di più» diceva qualcuno), rientrava in sacrestia, metteva religiosamente tutto in un cassone, chiudeva a chiave, e questa in tasca. Forse perché «il soldo non è Dio, ma fa miracoli» ricorda una massima.
Fa invece tenerezza quando, dopo la messa a Casablanca, degli africani vi cercano per darvi una piccola busta ben chiusa. «È la nostra decima, padre!». La decima parte del loro misero stipendio è per la Chiesa, madre di tutti, soccorso dei poveri.
Questa corresponsabilità nel poco li rende grandi di fronte a Dio. Ammirevoli davanti a tutta la Chiesa: sanno di contribuire alla sua stessa vita. La borsa e la vita, in fondo, si ritrovano unite. Pastoralmente. Sì, per “camminare insieme” come insegna il nostro Sinodo.
“Non vi ho forse scelti io? Eppure uno di voi è un diavolo.” Basta questa affermazione di N. S. Gesù Cristo per farci comprendere quanto sia difficili anche per la Chiesa, fin dalle origini, operare nel mondo. Giuda, il traditore, amministrava la cassa per le necessità del consistente seguito di Gesù e Giovanni ci dice (e dobbiamo crederci) che era un ladro. Dunque oggi come ieri non è cambiato niente. Non è il denaro, che è solo un mezzo inventato per facilitate lo scambio beni-servizi, il problema, ma i pensieri e le azioni malvage che escono dal cuore delle persone, specialmente se queste persone fanno parte della Chiesa. Come Giuda a suo tempo, appunto.
L’indipendenza economica del prete è fondamentale.
Da sempre i vescovi e la curia vaticana hanno usato la leva finanziaria per “ammorbidire” i riottosi.
Ieri i modernisti, oggi i tradizionalisti.
Perciò non dobbiamo togliere ai parroci il controllo del denaro.
Devono essere liberi di fronte alla propria coscienza e a Dio.
Trovo interessante questa ricognizione/testimonianza sul rapporto tra soldi e preti. Il modello svizzero per cui è la comunità a farsi carico del sacerdote mi sembra un modello che dovrebbe essere applicato ad ogni Stato e, quindi, ad ogni Chiesa. Non è detto chi in Francia sostiene economicamente il sacerdote e non si fa cenno sul sostentamento al clero in Italia.
A questo proposito mi pare di ricordare che già gli apostoli, all’inizio del libro degli Atti, avevano regolato la questione, riservando per se la cura della predicazione ed affidando i “danari” (= le mense) ai diaconi. Forse da questo passo la Chiesa potrebbe trarre qualche spunto positivo circa il separare ministero sacerdotale e “gestionale”. Magari senza scimmiottare un congregazionalismo che non ci appartiene.
Al prete competerà essere esclusivamente “pastore”. Prendersi cura dei giovani, delle coppie per il loro matrimonio e della sua solidità, degli anziani e delle loro fragilità, dei bambini e della loro formazione per un domani, delle celebrazioni, degli eventi sacri e non. Insomma, prendersi cura del suo gregge.
porgo una domanda: è tutto questo con quali soldi si fa? e se il Consiglio chiude la bisaccia?
Poniamo il prete voglia prendersi cura di extracomunitari e il Consiglio è dominato da gente che non vuole mettere soldi in queste iniziative?
Si rivelava, invece, un’opportunità. Appena c’era una vetrata rotta della cattedrale o una perdita d’acqua…, una semplice telefonata al Comune, che doveva incaricarsene, risolveva il caso.
Notre Dame è stato un ottimo esempio del sucesso di tutto ciò. e mi immagino il successo ancor maggiore che si avrà nell’applicare questo modello in Italia. /s
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