A oggi non siamo ancora riusciti a trovare un modo per superare il «clerocentrismo» nella vita delle nostre parrocchie, dove il prete è il referente di tutto. Una sorta di imbuto che rischia di strozzare non solo l’ariosità missionaria di una comunità parrocchiale, ma anche il vissuto del ministero che si ritrova molte volte a svolgere funzioni che non gli sono proprie e per cui non è debitamente preparato. Anche il coinvolgimento attivo dei laici in questi ambiti rimane sostanzialmente sussidiario – al massimo alleggerendo le cose da fare, senza però riuscire a ribaltare lo stato di necessaria onnipresenza del prete.
Per quest’ultimo il pendolo tra un insano senso di onnipotenza e una depressione da spaesamento sembra essere molte volte la conseguenza inevitabile. A detrimento di tutti. Riempirsi l’agenda di impegni è solo l’altro lato della medaglia di un rapporto patologico col tempo e con la vita quotidiana.
Ma anche se guardiamo agli ambiti più propri dell’esercizio del ministero, ci accorgiamo di un eccesso che attraversa da cima a fondo la vita del prete: liturgia, predicazione, catechesi, preghiera, carità, e così via… Dando l’impressione che il prete possa fare tutto, a discapito della qualità e della preparazione con cui fa, in virtù della sua ordinazione. Oggi, anche senza tempo di apprendimento dalle pratiche di vita di una comunità parrocchiale. Questo sia quando si viene catapultati, nel giro di brevi anni, dal seminario all’essere parroco; sia quando si moltiplicano le parrocchie di cui un prete è responsabile.
Passare tempo ad apprendere dalla comunità cristiana a cui si è destinati sarebbe invece proprio ciò che aiuterebbe il prete a comprendere il tratto proprio della sua generica vocazione (tutto, ovunque, sempre). Un esercizio di discernimento nella configurazione personale del ministero che il prete deve al vissuto credente della gente della sua comunità parrocchiale.
Un apprendimento dalla fede quotidiana che lo porta a comprendere di non potere tutto del ministero stesso; che alcuni aspetti non sono nelle sue corde; che in altri non è capace; fino a poter delimitare un territorio del ministero rispetto al quale non è solo sacramentalmente abilitato, ma anche pastoralmente e umanamente competente.
Un territorio prezioso non solo per la sua parrocchia, ma anche per tutta una Chiesa locale. Da custodire con cura e da destinare con la dovuta attenzione, quando un vescovo provvede a un cambio di parrocchia. L’urgenza del tappare i buchi di un clero diocesano in diminuzione costante è generalmente fatale rispetto a questa buona limitazione delle possibilità di competenza del ministero ordinato. Non tutti i preti vanno bene in tutte le parrocchie; e, forse, sarebbe meglio fare senza prete piuttosto che mettere mano a una destinazione parrocchiale che non considera la feconda limitazione del ministero appresa nella comunità che si lascia.
Un prete non può fare tutto ciò che concerne il ministero (meglio, forse, una certa idea di ministero) in una parrocchia e ovunque in una Chiesa locale. Quando invece si chiede surrettiziamente proprio questo, allora si dovrebbe opporre resistenza: sia il prete, sia la comunità parrocchiale – inducendo un serio discernimento condiviso all’interno della Chiesa locale a cui si appartiene.
!Il serio discernimento condiviso all’interno della Chiesa locale a cui si appartiene! è pura fantasia (per la mia esperienza). E mi riferisco al “condiviso”. La piramide è saldamente eretta con la base (noi laici) “schiacciata” dalla gerarchia ecclesiastica (prete/Vescovo)… guai a rovesciarla, come invece ha indicato Papa Francesco!
Papa e popolo di Dio da una parte…clero in senso contrario.
Il primo discernimento dovrebbe portarci in ascolto dello Spirito Santo, nient’altro.
Infatti parto dalla constatazione che non siamo ancora usciti dal clero-centrismo della parrocchia. Magari ci sono esperienze locali che vanno nel senso auspicato dall’articolo, ma appunto rimangono casi “biografici” (di preti e parrocchie) senza assumere una forma strutturale per il vissuto delle nostre comunità cristiane. Superare il modello che lei indica, a mio avviso, non è solo un atto di giustizia evangelica verso la fede dei credenti, ma anche qualcosa che farebbe bene al ministero ordinato stesso.
“Il prete non può tutto ovunque”. Queste parole rimangono sospese in aria, nella sfera delle analisi e delle aspirazioni, ma non riescono ad avere “gambe” per camminare finché non si metterà in campo una profonda riformulazione teologica del ministero cosiddetto ordinato (e quindi dell’intera ecclesiologia) e finché la riflessione teologica non si consiliderà in norme giuridiche. L per certi versi anche le intuizioni dei padri conciliari sono state neutralizzare in questi anni e non hanno incisi più di tanto nella prassi delle nostre parrocchie. Lo strumento del codice canonico ha attutito lo “spirito” del concilio e ne ha smorzato il dinamismo. Il responsabile di tale stato di cose è il clericalismo, ossia il sistema di potere che pervade ogni aspetto del nostro vivere ecclesiale e che condiziona pesantemente la nostra forma mentis. Anche questo recente documento della congregazione per il clero (da notare “per il clero”) non si sottrae al destino di essere permeato dal clericalismo, specie nella seconda parte, quella normativa, dove si tratta di dare gambe, di rendere operative le indicazioni teologiche. A cosa si riduce la “partecipazione dei laici” se tutto continua a far capo al parroco? Se ogni tentativo di “concedere” un qualche munera deve essere sottoposto al placet del parroco, del vescovo e della curia vaticana? Quello che si offre in sede teologica (molto poco in verità) lo si riprende in sede pratico-normativa. Il risultato è un ulteriore passo indietro, un ulteriore avvizzimento dello slancio conciliare. Le analisi sono argomentate ed approfondire qualche riflessione teologica è stata condotta, ma il clericalismo continua a spadroneggoare. Un documento come questo conferma questa triste constatazione.
Condivido con lei l’indicazione del vero nodo problematico nella codificazione giuridica del ministero, che non consente di mettere in pratica in forma strutturata una riconfigurazione della parrocchia nel contesto odierno. Più che una carenza della teologia in merito al prete, direi che abbiamo una teologia del ministero che non è capace di indurre un processo di riforma del Codice di diritto canonico. O si lavora per portare l’istituzione Chiesa oltre il paradigma del codice, oppure rimaniamo ingabbiati in una schizofrenia ecclesiale.
“alcuni aspetti non sono nelle sue corde; che in altri non è capace; fino a poter delimitare un territorio del ministero rispetto al quale non è solo sacramentalmente abilitato, ma anche pastoralmente e umanamente competente”.
Mi ritrovo perfettamente in queste parole. E’ ciò che ogni prete e sperimenta sulla propria pelle, spesso ingabbiato nell’organizzazione diocesana che prevede il riempimento dei buchi e non un discernimento adeguato sul profilo di prete che si ha davanti. Si è fortunati quando il Vescovo ti conosce e capisce, ma sarebbe meglio non giocare sulla propria vita a colpi di fortuna: sarebbe meglio che questo discernimento avvenisse in modo comunitario. Che fosse la Comunità a far emergere e suggellare i doni, i talenti, i carismi e i limiti dei suoi preti.
Grazie per questo prezioso contributo