Il prete tra moralismo e legalismo

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Se spesso l’atteggiamento dei credenti appare malinconico e severo, ciò è attribuibile a un’impostazione dottrinale spesso impregnata di moralismo. In questa prospettiva, la fede si configura come un catalogo di divieti, in cui il moralismo sovrastima la morale, considerando il Vangelo come un codice rigido di condotta virtuosa.

Il moralismo si manifesta come un eccessivo conformismo alle norme, rivelando tratti di legalismo e giuridismo, e si espone in giudizi che possono condurre alla disumanizzazione morale. Talvolta, si verifica una fusione acritica tra il valore morale di una norma giuridica e un dettame religioso, con conseguente disumanizzazione o una condanna rigida, a volte ipocrita, degli altri.

La libertà del mistero di Dio

La concezione di Dio, tuttavia, sfugge a essere rinchiusa o limitata da dottrine e leggi. Non può essere assimilata a un’ideologia moralistica ricca di precetti e di dettagli talmente esagerati da apparire persino ridicoli. La sua grandezza non può essere compressa dalle volubili ideologie della nostra mente. Il dono divino non può essere soffocato da un moralismo clericale opprimente.

Papa Francesco è profondamente consapevole di questi significati, e ha reiteratamente condannato in molteplici discorsi il diffuso “modo di essere” che permea soprattutto il clero, definendo coloro che ne sono afflitti come “eticisti”[1]. Egli sottolinea che il cristianesimo non può essere ridotto a una “casistica” di precetti, poiché tale prospettiva ostacola la comprensione e l’esperienza della gioia e della magnanimità di Dio.

Le persone da lui etichettate come “ipocriti della casistica” o “intellettuali senza talento”[2] sono criticate per la mancanza di saggezza nel trovare e spiegare Dio con intelligenza. Questi individui, secondo il papa, impongono numerosi precetti che conducono il popolo di Dio verso un vicolo cieco.

Il papa non sembra considerare tutti i presbiteri come legalisti e moralisti, né lo riteniamo noi, ma sottolinea con onestà che molti di loro, credendosi fedeli interpreti della morale cattolica, si assumono il ruolo di saggi in grado di indicare la via giusta. Manifestano la presunzione di essere i soli depositari della verità, poiché ministri di Dio, trascurando di cercare la verità insieme agli altri e ignorando che i valori non cristiani hanno anch’essi un’importanza.

Questa grande presunzione è accompagnata dall’illusione di possedere la conoscenza completa delle questioni etiche, comprese quelle più intime della vita. In questo modo, dimenticano la legge della reciprocità delle coscienze, come sottolineato dal Concilio Vaticano II, che invita i cristiani a unirsi agli altri per cercare la verità e risolvere i problemi morali condivisi nella vita privata e sociale. “Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità numerosi problemi morali, che sorgono tanto nella vita privata quanto in quella sociale” (GS 16).

Per il Concilio, l’aspetto cruciale nel dialogo con i non cristiani è rappresentato dalla questione della coscienza individuale. Ciò che crea un legame tra cristiani e non cristiani non è il possesso assoluto della verità, bensì l’impegno condiviso nella ricerca della verità. L’utilizzo del termine “ricerca” sottolinea che la coscienza non è una realtà immune dall’errore.

Dal moralismo all’accompagnamento

I presbiteri, secondo questa prospettiva, non sono chiamati a essere moralisti, ma a essere compagni di viaggio nella vita degli uomini. La Chiesa dovrebbe essere un luogo accogliente per tutti, richiedendo che i presbiteri siano profondamente in sintonia con le domande delle persone, sentendole come proprie. L’offerta di insegnamento morale deve derivare da un contesto di autentica amicizia; altrimenti, rischia di degenerare in moralismo. La tentazione teologica di cadere nel moralismo rappresenta una delle sfide alle quali i presbiteri faticano ad opporsi.

La struttura di base del moralismo si manifesta nel convincimento che il Vangelo possa essere ridotto a un insieme di precetti e di leggi. L’impeto del moralista riduce il messaggio di Gesù Cristo a un manuale di codici comportamentali, sostituendo il cuore del Vangelo con un’istruzione morale rigida.

Il moralista trascura il fatto che oltre duemila anni fa, in un mondo immerso nella confusione e nell’affaticamento, emerse una speranza nuova e avvincente. In Palestina sorse un uomo, di origine ebraica, portatore di parole divine. Era permeato dalla potenza e dalla bellezza di una tradizione religiosa senza eguali, sia in Oriente che in Occidente. Sfuggiva alla meschinità dei bigotti e non si sottometteva agli interessi di una sola nazione o di una razza specifica. Il suo sangue pulsava con la stessa passione di Abramo e Davide, la stessa linfa che avrebbe continuato a fluire nelle vene del popolo ebraico attraverso i secoli a venire.

Gli occhi di quest’uomo si posavano con compassione su chiunque soffrisse, mentre le sue mani guaritrici si estendevano verso la donna debole e peccatrice, il lebbroso emarginato dalla società, il cieco diventato insopportabile perfino agli amici e ai parenti con i suoi lamenti. Chi era depresso, ascoltandolo, sentiva un improvviso sussulto di energia dentro di sé. I colpevoli, al suo cospetto, ricominciavano a rispettarsi come esseri umani.

Contagiato da questo fascino, Paolo, nella sua Lettera ai Romani, affermò che l’uomo era stato “reso libero dalla legge” e avrebbe ora potuto vivere attraverso il potente soffio dello spirito dell’amore. Con ciò, non intendeva abolire la legge religiosa, ma piuttosto sottolineava che l’uomo, nelle sue angosce personali, non doveva più fare affidamento unicamente su regole fredde da applicare in ogni situazione. L’uomo poteva essere un individuo poiché era ora in grado di conoscere un Dio personale che si rifiutava di essere confinato in un singolo rito religioso o giudicato inappellabilmente da un sommo sacerdote.

L’uomo non poteva più accettare di relegare l’idea di Dio al livello di inerti idoli, destinati solo a preservare l’orgoglio e la meschinità umana. Non poteva più confinare Dio nei comodi archivi costruiti a somiglianza dei suoi simili. In questo nuovo contesto, nessuna statua avrebbe potuto contenerne la maestà, e nessuna legge o codice avrebbe potuto dettare con precisione i dettagli delle condizioni della misericordia e dell’amore divino.

Dio, libero da limiti, non può essere ristretto dalla cecità o dall’egoismo di uomini intimoriti. Nonostante gli sforzi di Cristo nel porre fine alle angustie religiose e nonostante gli avvertimenti e le riforme nel corso della storia, non mancano coloro tra gli uomini di Chiesa che cercano di circoscrivere e contenere Dio. Si illudono di conoscere i confini del suo amore, i limiti della sua pazienza. Con leggi presuntuose e prive di fondamento, tentano sacrilegamente di porre limiti al divino.

L’ideale dell’amore cristiano, desiderato dai discepoli di Gesù, talvolta è stato distorto da una legge senza pietà in una vita diventata impossibile. Come abbiamo potuto abbracciare una religione legalistica e moralistica, quando Cristo aveva promesso di abbattere tali schemi?

Una fede che liberi dal legalismo

La teologia dovrebbe costituire una disciplina che istruisca l’uomo di qualsiasi epoca sul modo più proficuo di amare il suo Dio. Dovrebbe prendere i tesori del Vangelo e trasformarli in parole e concetti capaci di spiegare all’uomo contemporaneo come vivere e amare. Tuttavia, troppo spesso la nostra teologia si è trasformata in un esercizio accademico sterile. È diventata un codice di regole emerse da insensate guerre scatenate da rancori religiosi.

Rappresenta una raccolta di verità appassite che servono unicamente a privare l’uomo della sua responsabilità personale e a relegarlo in uno stato di indifferenza tipico degli schiavi terrorizzati. Va sottolineato che sono consapevole delle sofferenze di molti presbiteri che disapprovano la mentalità ristretta che ho descritto, ma spesso non trovano le parole o il coraggio per affrontarla apertamente.

Abbiamo bisogno di emanciparci da un sistema moralistico che assoggetta le nostre vite. Dobbiamo liberarci da un legalismo che trasforma la purezza di un amore personale e cristiano in un mondo di paura e colpa. Molti cristiani non hanno imparato come cercare Dio; sono stati soltanto istruiti a rispettare le leggi, evitare il peccato, temere l’inferno e portare una croce autoimposta.

È necessario sviluppare una fede che ci liberi dal legalismo, che ha sepolto la nostra coscienza sotto il peso della colpa e del terrore, privandoci del nostro Dio. Abbiamo bisogno di una fede rinnovata in noi stessi, nella somiglianza con Dio che portiamo nei nostri corpi e cuori. Desideriamo apprendere l’arte dell’amore, noi che abbiamo imparato soltanto a rispettare rituali e regole.

Richiama alla mente le sagge parole di Pasternak quando affermava con arguzia: “Se la bestia che giace nell’intimo dell’uomo potesse essere trattenuta da minacce – qualsiasi minaccia, sia essa prigione o retribuzione dopo la morte – allora il più elevato simbolo dell’umanità sarebbe il domatore di leoni nel circo, con la frusta, anziché il Profeta che si è sacrificato”. È evidente che il legalismo non costituirà la nostra salvezza.

È imperativo liberarsi da un ministero ordinato che si manifesta con arroganza e non riconosce altro cammino se non quello della legge. È un’esercitazione presuntuosa che tiene un vasto numero di figli in costante attesa della sua autorità. È una pratica fiera che chiude le orecchie e non presta ascolto a milioni di voci cariche di sofferenza. Si tratta di uno stile che soffoca gli ideali evangelici sotto una massa di leggi, un ministero dannoso che ha perso la fiducia nell’umanità, un modo di agire irascibile, propenso alla condanna. Tuttavia, non possiamo rimanere in silenzio quando vediamo l’amore essenziale relegato a un ruolo secondario rispetto alla legge.

La legge e la misericordia

La seduzione del moralismo costituisce la linfa vitale della sua potenza. Siamo facilmente indotti a credere che possiamo ottenere tutta l’approvazione di cui abbiamo bisogno mediante il nostro comportamento. Naturalmente, per cedere a questa seduzione, dobbiamo concordare su un codice morale che definisca un comportamento accettabile, con numerose scappatoie: la maggior parte dei moralisti non ambisce a essere esente da peccato, ma semplicemente a risultare al di sopra dello scandalo, ritenendo ciò sufficiente.

L’influenza del moralismo permea ogni aspetto della vita presbiterale, infondendosi nel mio comportamento nel confessionale, diffondendosi in ogni atto di insegnamento e animando l’intero lavoro pastorale.

Non è possibile accogliere le confessioni agendo come un rigido custode preoccupato esclusivamente dell’osservanza della legge. La vita presbiterale non può prescindere da un atteggiamento di misericordia e amore personale, né può ignorare la reale missione del presbitero. Non è più accettabile essere giudici o carcerieri, ritualisti o predicatori di parole logore, difensori di una tradizione chiamata a scegliere tra il riformarsi e il perire.

È innegabile la necessità di alcune leggi, come qualsiasi famiglia ne abbia bisogno, ma comprendiamo anche che l’ampiezza del nostro codice è inversamente proporzionale all’assenza di fiducia e amore. L’uomo che deve costantemente attenersi alle leggi per seguirci è un individuo che ha paura di noi perché, prima di tutto, ha paura di sé stesso. Non ha fiducia nei valori umani, non crede nella sua dignità e non riconosce l’impronta che Dio ha impresso in lui. Il confessore più spietato è colui che ha subìto maggiormente l’influenza distorta del peccato.

Il paradosso emerge nel tentativo di mascherare la corruzione nell’animo sacerdotale attraverso l’esibizione di un moralismo più rigido, specialmente severo verso gli altri. In questo modo, come afferma il papa, anziché persuadere le persone dell’amore e del perdono divino, le spaventiamo. Il chiaro segnale di questa erosione, quando prende il sopravvento, è facilmente identificabile. Le parole e le azioni evangeliche, cioè ciò che Gesù insegna ai suoi discepoli a dire e fare, finiscono per sembrarci eccentriche.

Il legalista più inflessibile è colui che mostra la maggiore inclinazione a violare la legge. Anche lui manca di fiducia nella propria umanità, il che implica una tacita ammissione che il mondo è destinato al fallimento. Questa è una fede di natura neurotica.

È il moralismo che consente a numerosi presbiteri di predicare senza preparazione, confessare con tono arrogante, compiacersi di lodi immeritate, ignorare le critiche, persistere nel loro infantilismo, nutrire le proprie ambizioni, sfuggire alle responsabilità, atrofizzarsi intellettualmente, congelarsi emotivamente, autoindulgere nella compassione per sé stessi e ignorare le ansie e i sentimenti dei loro fedeli.

La mentalità legalistica si caratterizza per la sua meschinità e strettezza, incapace di avanzare senza la guida di direttive giuridiche che approvino anche il più modesto progresso del suo pensiero. Non si accontenta di seguire le regole dell’amore cristiano o di scoprirle nell’avventura di una vita dedicata.

Il legalista accoglie con un sorriso la prospettiva di questa ricerca, considerando l’onesto percorso verso Dio come un atteggiamento egoistico e negligente. Egli conosce esclusivamente la strada della legge, convinto che sia l’unica via, anche quando milioni di persone gli urlano la loro sofferenza.

“Quanto è magnifica la libertà, la magnanimità e la speranza di un uomo o una donna di Chiesa! In contrasto, quanto è brutta e dannosa la rigidità di un membro del clero, la rigidità clericale, che è priva di speranza”[3].

Per i presbiteri, è sempre una realtà che il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato? O, in molte circostanze, prevale il legalismo con la sua dottrina e i suoi codici, tralasciando qualsiasi riferimento allo spirito, malgrado l’enfasi su quest’ultimo?

Il moralismo, nel presentare il cristianesimo attraverso il filtro della legalità, può sembrare vitale, ma in realtà è già destituito di vita. La trasformazione dell’adesione a Cristo in un mero dovere segna la fine del vero discepolato cristiano. Le conseguenze di ciò sono chiare: la proposta evangelica viene percepita come un onere. Di fronte a tale peso, la tentazione è quella di ridurlo o, quantomeno, interpretarlo in modo che sia meno gravoso.

Una serie ininterrotta di richiami e decreti emanati dall’autorità testimonia la pervasività di questo moralismo diventato insostenibile. Continuamente si sottolinea cosa sia giusto o sbagliato, cosa sia autentico e cosa troppo personale.

Un prolungato elenco di precetti viene imposto per ogni atto e gesto della vita cristiana, che riguardi la liturgia, la morale, la famiglia, l’arte, la musica, e così via, con un particolare rilievo: il moralismo stesso è suscettibile di interpretazioni, sia da parte di chi lo impone che da parte di chi lo subisce. Il moralismo costituisce la tomba di ogni fede, soprattutto in contesti poco entusiastici, dove è facile fare appello alle leggi e ai regolamenti. In questo modo si perde la dimensione della speranza e si abbassano le prospettive di entusiasmo.

Quando la struttura prende il sopravvento

Anche Cristo è stato oggetto del moralismo dei suoi concittadini; non solo, ha sperimentato la sconfitta della sua proposta con indifferenza, egoismo e astio.

Inoltre, se si scende troppo nei dettagli, c’è il rischio di cadere nelle eccessive prescrizioni che oggi sono in vigore e domani potrebbero non esserlo; oggi possono essere considerate gravi, mentre ieri non lo erano, o viceversa. Infine, il moralismo ostacola ogni autentico dialogo. Fissando i confini rigidi dell’ortodossia, impedisce la possibilità di ascoltare, riflettere e aggiustare la propria fede.

Si avverte che l’attenzione principale non è rivolta tanto alla vita quanto all’organizzazione. Si crea un organigramma che non lascia nulla al caso, apparentemente strutturato per la verità, ma in realtà finalizzato al controllo. Il dono dell’unità e della comunione è certamente prezioso, ma è necessario evitare di imporlo eccessivamente. Un eccesso di zelo può generare una sottomissione passiva, basata su un adattamento esteriore e formale.

In presenza di una pressione autoritaria eccessiva, si attivano tendenze anarchiche poiché ognuno, di fronte a tale coercizione, tende a definire autonomamente una propria sintesi. Tutto ciò è il risultato dell’ossessione per l’unanimità, come se essere fedeli a Cristo e membri di un presbiterio richiedesse una sola mente e un solo cuore.

L’assenza di una vera comunione è un effetto dannoso del moralismo che permea ogni cosa. Più si enfatizza l’unità, meno si avverte un senso di comunione. Manca il coraggio di un confronto autentico, forte e leale, basato su scelte condivise che derivano dall’ascolto e dalla riflessione. Si preferisce una pseudo-unità, optando per strade (di spiritualità, di pastorale, di governo) che sono il risultato di compromessi.

In questo modo, si manifesta non tanto autorità quanto autoritarismo. Tuttavia, nel contesto del cristianesimo, l’autoritarismo non è possibile, poiché di fronte a Dio, tutti siamo servi inutili, incapaci di interpretare il suo messaggio. Ciascuno ha il diritto, ma anche il dovere, di approfondire la propria dimensione derivante dalla grazia della relazione con Dio. Un eccesso di ordine emana un’aura di morte, una sorta di zavorra che impedisce allo Spirito di soffiare dove vuole. La debolezza della proposta cristiana in Occidente ha generato apparati burocratici, diventati onnipresenti, complessi e negativi[4]..

Eliminare moralismi, pregiudizi, indolenza, brama di potere e tutte le pesantezze estranee alla fede è essenziale per rendere il cattolicesimo più accogliente per gli uomini contemporanei. Nei tempi attuali, c’è un estremo bisogno di santità, poiché di fronte alla mercificazione dell’uomo, essa rappresenta l’unica condizione in grado di riportarlo alla straordinaria grandezza per cui è stato creato. La santità non è una resa inerme, bensì una forza di pienezza, un modo di essere che abbraccia la totalità dei pensieri e dei sentimenti dell’uomo, consentendogli di compiere ogni atto nella luce dell’amore.


[1] Cf. Francesco, Omelia Santa Marta del 19 giugno 2013.

[2] Cf. Francesco Omelia Santa Marta del 21 febbraio 2014.

[3] Francesco, Omelia a Santa Marta, 14 dicembre 2015.

[4] Cf. V. Albanesi, I tre mali della Chiesa in Italia, Àncora, Milano 2012, pp. 113-117.

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3 Commenti

  1. Giuseppe 19 marzo 2024
  2. Pietro 17 marzo 2024
  3. Fabio Cittadini 16 marzo 2024

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