Brendan Hoban, sacerdote irlandese di 68 anni, è co-fondatore della Association of Catholic Priests (ACP). Ha scritto recentemente una lettera aperta sulla condizione del clero anziano in Irlanda che è stata pubblicata dal sito del quotidiano Irish Times (qui il testo inglese) lo scorso 21 novembre. Presentiamo di seguito la lettera in una nostra traduzione dall’inglese.
Una «tribù perduta»
Quando sono stato ordinato, 43 anni fa, avevo 25 anni e il mio parroco ne aveva 70. Immaginavo allora che alla sua età avrei avuto una situazione simile alla sua. Ma è chiaro che il mondo clericale sicuro, protettivo e fiducioso nel quale vivevamo è completamente imploso.
Allora un parroco poteva attendersi di avere un cappellano che avrebbe fatto gran parte del lavoro, se non poteva o non voleva farlo da solo. Oggi, i cappellani sono una specie in via di estinzione.
Allora un parroco poteva attendersi conforto e compagnia negli anni del suo declino. Oggi, per la maggior parte, i sacerdoti vivono da soli.
Allora un parroco dava per scontato che sarebbe stato rispettato e sostenuto dai suoi parrocchiani. Oggi, siamo spesso compatiti, oltraggiati, insultati, trattati con disprezzo, ignorati e mal sopportati.
Allora c’erano un sacco di vocazioni; quasi tutti andavano a messa (e quelli che non andavano venivamo comunque raccolti dai Redentoristi attraverso la missione parrocchiale). Quasi tutti partecipavano alla colletta, anche perché se non lo avessero fatto sarebbero stati, come si usava dire, «richiamati dall’altare».
Non sto elogiando il passato come un tempo senza ambiguità. Lungi da me. Ma oggi i tempi sono diversi: poche vocazioni, congregazioni che si sciolgono sotto i nostri occhi, offerte annuali in calo, morale a un livello sempre più basso.
Esagero? Sì, un po’, per enfasi. Ma solo un po’. La marea è fuoriuscita e soltanto chi non è in sincronia con la realtà può immaginare che stia di nuovo ritornando. È necessario smetterla di fare questo gioco.
Il problema non è che la Chiesa in Irlanda non sopravvivrà o non saprà adattarsi alle mutate e mutevoli circostanze – non ho alcun dubbio che lo farà. La mia domanda riguarda un’urgenza particolare: come possono gli ultimi sacerdoti in Irlanda vivere gli anni conclusivi della loro vita trovando un poco di conforto, di stima e di affetto?
Occorre analizzare gli elementi che concorrono a gravare, ingiustamente e pericolosamente, la vita dei sacerdoti anziani e i molteplici fattori che aumentano in loro un crescente senso di disagio, e talvolta di disperazione.
Lavoro
Siamo attesi, invecchiando, dal dover lavorare più a lungo e più duramente. L’età pensionabile per i sacerdoti è 75 anni; ma molti sono ancora in servizio nei loro 80, spesso malvolentieri, sotto la pressione del senso del dovere o, talvolta, del senso di colpa. L’effetto del nostro accresciuto – e continuamente crescente – carico di lavoro è che diventiamo di fatto delle «macchine-dispensa-sacramenti», con il lavoro pastorale che si fa sempre meno appagante, con poco o senza nessun vero coinvolgimento con i nostri parrocchiani. Le diocesi di Dublino e di Killala, ovvero una delle più grandi in Irlanda e una delle più piccole del paese, hanno una cosa in comune: entrambe hanno soltanto un prete diocesano sotto i 40 anni.
Complessità
Il maggior lavoro è una cosa. La complessità è un’altra. Siamo confrontati a livello pastorale con questioni che eccedono la nostra formazione, esperienza e competenza. Si prenda, ad esempio, dover fare ministero con coppie omosessuali della nostra parrocchia.
Isolamento
Noi preti anziani viviamo vite sempre più isolate; una condizione esacerbata dall’età. Viviamo soli. Un crescente timore e una crescente ansietà, che nascono dall’isolamento, possono segnare gli anni conclusivi della nostra vita e creare una vulnerabilità e un nervosismo che non avevamo mai sperimentato finora.
Solitudine
La nostra condizione di celibato comporta un certo isolamento e una certa solitudine. La solitudine nel sacerdozio dipende da una serie di fattori: personalità, strategie di vita, hobby, autostima, mobilità, identità e – ovviamente – salute; e la solitudine aumenta costantemente se ciascuno di questi fattori viene sottoposto a uno stress crescente.
Salute
Preti che vivono da soli e sono sempre più isolati, sono inclini alla depressione. L’aumento del numero dei suicidi tra i preti e il crescente campionario di prove aneddotiche di depressione e disperazione sono una realtà che ignoriamo a nostro pericolo.
Insuccesso e responsabilità
Un tempo noi preti immaginavamo di avere tutte le risposte e di essere sovrani di tutto quanto sorvegliavamo. Oggi questo carico di aspettative irrealistiche su noi stessi, quasi fossimo messia, ha lasciato il posto a un senso di fallimento personale, dal momento che la Chiesa è collassata sotto il nostro controllo.
Stima
Mentre la vecchiaia porta con sé la sua miriade di inconvenienti e disabilità, e mentre iniziamo a contemplare, con calma e freddezza, quanto resta della nostra vita, diverse verità cominciano a farsi più chiare. Una di queste è che, mentre invecchiamo, cresce un senso quasi di disperazione nel realizzare quanta poca cura, stima o affetto c’è nella nostra vita.
Destinatari di una valanga di critica e biasimo da parte dei media, bersagli costanti di risentimento, spesso insultati e disprezzati, gli ultimi preti in Irlanda sono una «tribù perduta», in difficoltà davanti all’isolamento, alla malattia e alle tante limitazioni dell’età avanzata. Dati per scontato, costretti a lavorare nell’età della loro pensione, con pochi preti a prendere il loro posto, spesso diffidenti verso i loro vescovi, molti di loro disperano ormai di ricevere quella riconoscenza, considerazione, sostegno e, soprattutto, quel rispetto che credono gli sia dovuto.