Proviamo a fare un esercizio di fantasia, a immaginare che il «ministero» nella Chiesa e per la comunità cristiana non sia solo una questione cattolica ma tocchi anche altre confessioni – cosa che accade raramente quando si discute della questione del prete tra di noi (cattolici, appunto). Almeno per uscire dallo specchio incantato che ci fa pensare che sia un problema solo nostro, che un mero aggiustamento strutturale possa risolvere tutte le difficoltà che si presentano.
Allora potremmo accorgerci non solo di non essere soli, ma anche che il nodo della questione non è tanto il ministero preso in se stesso, ma la sua destinazione a una precisa comunità cristiana. A mio avviso, sono proprio i processi di genesi, configurazione ed edificazione di quest’ultima che sono profondamente mutati negli ultimi cinquant’anni. Questo, senza averli presi e prenderli debitamente in considerazione quando all’interno di una Chiesa (qualsiasi sia la sua confessione) si affronta il tema del ministero.
La destinazione del ministero
E se il ministero è destinato a una concreta comunità cristiana (e credo che questo possa essere un tratto portante comune alla Chiesa cattolica e alle Chiese della Riforma), non si può scomporre ministero e comunità trattandoli come fossero quasi due corpi estranei, che si toccano fra loro solo per fato/caso o in ragione di questioni di organizzazione amministrativa.
Se cambia il modo di essere della comunità cristiana, le forme del vissuto credente al suo interno, il vivere umano complessivo a cui si rivolge l’annuncio del Vangelo, il ministero non ne rimane immune e impermeabile. Non lo può essere, perché non si tratta di due realtà distinte che sussistono l’una a prescindere dall’altra. Scomporre il legame fra comunità cristiana e ministero può essere fatale per entrambi, e direi che poco importa se quella comunità è cattolica o luterana oppure riformata. Lungo tutto l’asse confessionale cristiano, quando si ragiona così, sia la comunità sia il ministero entrano in fibrillazione e rischiano una lenta ma inesorabile erosione.
Il ministero, ovunque venga esercitato in modi e forme diverse nel cristianesimo europeo, non vive di se stesso, la sua ragione d’essere rimane un «altro» che lo precede sempre, che rimane irriducibile, e che raramente coincide con la nostra rappresentazione che ce ne siamo fatti. È per questo che il ministero non può guardare solo a se stesso quando si pensa e viene pensato. Questo «altro» indisponibile fa il ministero tanto quanto la scelta di un credente/una credente di entrare in questa forma di vissuto cristiano.
Le Chiese cristiane e l’esercizio del ministero
Se le confessioni cristiane si parlassero un po’ di più tra loro, lasciando da parte gli stereotipi che ognuna si è fatta dell’altra e accettando come ognuna è divenuta nel corso di una storia che comunque ci accomuna, allora potrebbero cadere tanti «miti» che ciascuna coltiva in se stessa; e ci si accorgerebbe che tutti oggi siamo posti davanti a una medesima sfida quando si tratta della circolazione del Vangelo e del Dio di Gesù nei nostri territori europei.
Magari ci accorgeremmo che tutti condividiamo una «mancanza» di ministero rispetto all’effettività delle comunità cristiane a cui esso dovrebbe essere destinato. Stanti le condizioni diverse nelle varie confessioni di accesso al ministero, cosa vuol dire allora questa comune condizione trans-confessionale del rapporto fra comunità cristiana e il ministero stesso?
Ma, probabilmente, ci accorgeremmo anche che il ministero sta comunque sotto una forma di obbedienza che ne plasma l’esercizio. Condivisa da tutte le Chiese è quella al Vangelo, ma poi anche all’interno di ogni confessione vi è un’obbedienza al modo proprio di essere di ciascuna Chiesa. Sarebbe solo pensiero magico immaginarsi che l’obbedienza sinodale delle Chiese della Riforma sia più semplice, libera da vincoli e gratificante di quella gerarchica della Chiesa cattolica. Semplicemente è diversa, ma non meno impegnativa per il singolo credente che esercita il ministero.
L’orizzonte pastorale
Se passiamo dagli assetti dogmatici e canonici a quelli del ministero in esercizio, potremmo accorgerci che il ministero, nel suo legame effettivo con una concreta comunità cristiana, sta vivendo una stagione di sorprendente prossimità ecumenica. Per questo farei attenzione a trattare la vita pastorale come un restringimento di orizzonti per chi decide di vivere la propria fede come servizio alla fede di altri all’interno e per una comunità cristiana, qualsiasi nome diamo poi a questa raffigurazione concreta di vita credente.