Continua la riflessione di don Francesco Cosentino sulla figura e il ruolo del prete oggi, dopo i tre interventi di don Armando Matteo (cf. Settimananews 4, 10 e 13 giugno 2017) su “Che cosa resta del prete?”. Il suo primo intervento (cf. Settimananews 2 luglio) verteva sull’identità del presbitero e i condizionamenti storici che l’hanno contrassegnata. In questo articolo il docente insiste sulla necessità che il prete sappia far convivere nella sua persona la grandezza della sua vocazione con la fragilità della sua umanità.
L’attuale crisi del prete tocca l’identità e, di conseguenza, chiede di rivedere il modello ministeriale e pastorale, ritornando all’essenza della chiamata e all’essenziale del ministero. Siamo partiti da qui, solo per una breve fotografia e per iniziare a toccare qualche nervo scoperto.
Ritornerò sulla problematica, su alcuni dei suoi aspetti principali e sulla tipologia di prete che, almeno oggi, sembra entrare in crisi, invocando piste nuove e creative su come ripensare questa figura; tuttavia, proprio partendo dalla convinzione che prima di ogni “ricetta” pragmatica occorrono la riflessione e il pensiero – cosa che, peraltro, non convince molto neanche i preti! – è bene soffermarci sulla questione già accennata dell’identità presbiterale. Non si riuscirà ad affrontare la figura del prete se le possibili soluzioni, anzitutto, non partono dalla domanda sull’identità: chi è davvero il prete?
Quello “scarto” incolmabile
La domanda non vuole essere retorica né limitarsi ad offrire una qualche meditazione di taglio spirituale. Essa nasce da una semplice convinzione: sulla crisi in atto, vi sono motivi contingenti e contestuali, come i cambiamenti socio-culturali degli ultimi decenni, la crescente disaffezione nei confronti della fede cristiana, le nuove sfide rivolte all’annuncio della fede o il calo delle vocazioni che sovraccarica alcuni e aumenta l’età media del clero; tuttavia, essa coinvolge per così dire la “totalità dell’essere prete”, cioè quella sua identità profonda e radicale, che trascende ogni aspetto storico particolare.
Nessuno si spaventi se affermo che… la domanda sulla crisi del prete è strettamente “teologica”, cioè non potrà essere davvero affrontata se ci soffermeremo epidermicamente sull’analisi sociologica o su facili soluzioni di tipo pastorale.
C’è una parola che, più di tutte, ci rappresenta: scarto.
La avvertiamo dentro, quasi come un brivido, per la sua capacità di fotografare ciò che sperimentiamo ogni attimo sulla nostra pelle e ci rimanda, appunto, al contenuto teologico dell’identità presbiterale. Non si tratta di un semplice sentirsi “inadeguati” – anche un medico in parte lo è rispetto alla gravità di certe situazioni da prendere in cura, o un giudice rispetto a una decisione difficile – e né, tantomeno, dobbiamo scivolare in un certo moralismo depressivo che si fissa sulle fragilità e sul peccato. Saremo sempre dei preti peccatori.
Qui c’è molto di più: lo scarto è iscritto in modo costituzionale in ogni vocazione cristiana e, in generale, nell’esperienza di fede: Dio e l’uomo, Colui che chiama e il chiamato, il Maestro e il discepolo, il Vangelo e il cuore dell’uomo, non saranno mai sullo stesso piano. La rivelazione di Dio in Gesù Cristo abbatte i muri di separazione e colma tale distanza ma, tuttavia, ciò non significherà mai un annullamento della “differenza”. Tra Dio e noi essa continuerà ad esistere.
È Dio che invia e sostiene Mosé, che purifica le labbra di Isaia, che rassicura il giovane Geremia, che affida a un pescatore impulsivo la guida della Chiesa; tuttavia, ciò non avviene a prezzo di un “salto” della loro umanità, che di colpo cancellerebbe l’essere impuro, o giovane o impulsivo ma – come confesserà splendidamente san Paolo – proprio dentro le debolezze e le spine della carne.
Perciò, la questione dell’identità del prete ci rimanda alle origini della vocazione e a quella “differenza” che segnerà sempre uno scarto rispetto a Colui che ci ha chiamati e al compito affidatoci; si tratterà di restare sempre in cammino – mai arrivati e appagati – aperti a come il Signore, pur conservandoci in questo scarto talvolta difficile da portare nella carne, ci consolerà, ci rafforzerà e ci farà vedere, seppur in lontananza, “il paese dove scorrono latte e miele”.
Non siamo chiamati a fare “tutto”
Ogni volta che il ministero stesso ci colloca altrove, ci chiama e ci ridefinisce, ci invita a ricominciare sempre da capo, facendoci cambiare destinazioni pastorali e modelli precedentemente acquisiti, la nostra identità di preti cambia, si evolve, matura e si apre a paesaggi inediti. A patto che non ci chiudiamo rigidamente in uno schema precostituito e ci lasciamo – con grande fatica – interrogare dallo Spirito e dalla vita.
Dello scarto nella vita del prete ha scritto con grande efficacia Antonio Torresin, affermando che il ministero sacerdotale “è segnato da uno scarto, da un insuperabile contrasto che segna l’esperienza di essere discepoli, la missione e il mandato ricevuti. Meglio, che segna ogni chiamata, fino all’umano stesso. Non siamo all’altezza del compito assegnato, esso ci trascende in modo insuperabile, ci travolge e ci supera: è troppo per noi. Eppure è proprio ciò che meglio ci corrisponde, è ciò senza il quale la nostra umanità si perde. Questo eccesso che è il ministero è la nostra unica salvezza; non solo la via alla santità, ma la grazia per non perderci. (A. Torresin, «Il paradosso del ministero. Quando la missione ridefinisce il prete», Il Regno/Attualità 2/2010, 22).
Questo scarto è vissuto in modo diverso non solo da ciascun prete – cosa che rimane ovvia – ma anche a seconda delle fasi della vita sacerdotale, degli anni di messa, delle esperienze pastorali vissute nel tempo e, non da ultimo, dei contesti ecclesiali in cui siamo posti.
Senza voler negare alcune problematiche esistenti e inedite, che invocano un’ampia riflessione ecclesiale, credo che riconciliarci con questo scarto, accoglierlo e farselo amico nella vita sacerdotale di ogni giorno e, forse ancor prima, formarsi e prepararsi ad esso e a come conviverci, potrebbe essere un primo antidoto alla crisi e un punto di forza per la “tenuta” del prete.
Non è forse vero che, piccoli o grandi momenti di crisi nella nostra vita, dipendono talvolta dal non aver compreso che al prete non è richiesto “tutto”, che non è chiamato “salvare il mondo” (già fatto, ci ha pensato Nostro Signore), che non è e non dovrebbe essere il centro, la fonte e il culmine della comunità e dell’azione pastorale? Non sarà che molte frustrazioni, sofferenze e depressioni, dipendono anche dall’aver sopravvalutato noi stessi e fatto delle richieste eccessive (o almeno troppo numerose) al nostro ministero?
Don Francesco Cosentino, 38 anni, prete dal 2005, della diocesi di Catanzaro-Squillace, docente e guida di ritiri spirituali e incontri, è attualmente officiale presso la Congregazione per il clero e docente incaricato presso la Pontificia Università Gregoriana. Appassionato del discorso su Dio, vanta numerose pubblicazioni su questo tema.