La sinodalità come stile diaconale

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Più di 200 i partecipanti da ogni parte della Penisola presenti al Convegno nazionale promosso dalla Comunità del diaconato in Italia ad Assisi dal 3 al 6 agosto scorso. Cittadella Ospitalità è per la Comunità il luogo storico dei nostri Convegni (l’ultimo, nel 2007). Ritornati dopo tanti anni, ha significato ripartire dalle nostre radici con un nuovo slancio.

Inoltre, ritrovarsi dopo tre anni e dopo un tempo carico di tante sofferenze e dolore a causa della pandemia è stata una grande gioia.

Un tempo in cui in Italia stiamo vivendo un momento molto particolare e complesso. Oggi, «in questo tornante così speciale della nostra storia civile, è utile ed è attesa anche una nostra parola […] Questo tempo nuovo e difficile ci chiama in causa» e richiede il coraggio profetico di una posizione controcorrente.

Purtroppo lo scenario politico in questa tortuosa fase appare sempre più incerto e confuso. I mutamenti storici e le contraddizioni spesso violente che segnano le società hanno contribuito al progressivo delinearsi di un profilo diaconale per certi versi nuovo, soprattutto in relazione alle potenzialità di servizio da prestare in un tessuto politico-sociale come quello odierno, spesso dominato dall’interesse e lacerato dal compromesso e dalla prevaricazione.

È proprio qui, in mezzo agli uomini che lavorano, soffrono, vivono la loro ricerca di senso, che il diacono è chiamato a testimoniare il suo ministero, attento ai «segni dei tempi».

Incarnati nella storia di questo tempo, i diaconi si portano dentro le tentazioni del mondo: l’individualismo, l’autocompiacimento, la povertà di un ascolto frammentario, l’autoreferenzialità, la stanchezza che distrugge la fantasia della creatività dello Spirito.

La grande scommessa consiste nell’uscir fuori dagli schemi precostituiti per riconoscersi nel gesto del lavare i piedi.

La sinodalità come stile diaconale

Il tema scelto per la riflessione è stato: La sinodalità come stile diaconale. Diaconi sulla strada a servizio della missione della Chiesa. Più volte papa Francesco cita un’espressione di san Giovanni Crisostomo il quale commenta così il salmo 149: «La Chiesa ha come nome sinodo», ed è intorno a questa espressione che il papa traccia il suo magistero ecclesiologico che si è concretizzato nella chiamata a vivere questo tempo di cammino sinodale. Una proposta che costituisce non solo uno stile nuovo di vivere la Chiesa, ma uno stile nuovo di diaconato nella sua missione e nelle modalità da mettere in atto.

Uno stile con il quale accoglierci e ascoltarci, accogliere e ascoltare la società e coloro che condividono la nostra storia.

Lo stile della sinodalità è la via per i diaconi per rinnovare il volto del ministero diaconale. Bisogna camminare insieme non solo sulla stessa strada ma anche nella stessa direzione, dietro all’unico Maestro, pur nella molteplicità di esperienze, di luoghi di riconoscimento, di una fraternità che deve emergere dalla chiamata al ministero diaconale.

Non si fa sinodalità per confermare il passato, per alimentare le lamentele. Si fa sinodalità per avviare processi di rinnovamento e innestare trasformazioni, per un futuro diverso. Un cammino che non facciamo da soli, come battitori liberi, ma insieme. Questo richiede riflessione, ricerca, analisi, discussioni, proposte, ma richiede soprattutto conversione al Signore, condizione indispensabile per il buon esito del cammino sinodale.

E noi come Comunità del diaconato in Italia ci siamo messi in discussione, ci siamo messi in stato di conversione attraverso una progettualità per ricercare insieme la strada da percorrere, per mettere in atto al meglio le finalità e le attività della Comunità.

La scelta del sotto titolo – diaconi sulla strada – mette in luce uno stile, una caratteristica che essi sempre di più devono fare propria nel loro ministero: essere in uscita, sulla strada.

Il nostro convenire ad Assisi ci ha spinti anche a domandarci: Quale futuro per la Comunità? Sin dalle sue origini, la Comunità si è confrontata con le diverse realtà ecclesiali. Ciò corrisponde a un dinamismo di apertura, che si rende visibile anche nei Convegni.

L’esperienza diaconale riguarda innanzitutto coloro che in essa sono impegnati: i diaconi, le loro mogli, la loro famiglia, quanti sono a loro vicini, coinvolti in modo sempre più diretto e profondo. Ma questa esperienza, proprio in quanto ha la sua origine nel Vangelo, va ben oltre coloro che la vivono ed è significativa innanzitutto per la Chiesa tutta e per la società.

È necessario, pertanto, trovare dei “ripetitori” capaci di dilatare la “parola” dei diaconi su sé stessi per metterla in risonanza con ciò che gli altri dicono del diaconato. Ora – può sembrare strano –, mi sembra ci sia un rischio legato all’aumento significativo del numero dei diaconi: che la parola sul diaconato diventi innanzitutto sempre più una parola dei diaconi su sé stessi. Si tratta di un rischio reale, se si ripensa ai periodi in cui ciò che riguardava i presbiteri o i vescovi era considerato come affare loro, o una sorta di riserva di loro proprietà.

Una delle cause della poca attenzione della teologia dei ministeri è stata che solo i presbiteri o i vescovi detenevano una parola autorevole sulla propria identità. Sarà bene che questa tentazione non venga a minacciare il ministero diaconale in un momento in cui esso sta crescendo e acquistando sempre maggiore visibilità.

Da qui uno dei ruoli della Comunità: assicurarsi che la parola sul diaconato resti una parola della Chiesa, tenendo viva l’attenzione a quanto viene detto in merito. Sul diaconato, cosa dicono le spose dei diaconi? Cosa dicono i vescovi? Cosa dicono i delegati? Cosa dicono i laici? I seminaristi? Le comunità religiose? La gente coglie la passione nel nostro ministero diaconale?

Come, nel Vangelo, vediamo Gesù interrogare gli apostoli riguardo a sé stesso, così noi dobbiamo rimanere costantemente in allerta: «E voi, nelle vostre comunità cristiane, gli uni e gli altri, cosa dite del diaconato? Per voi, che cos’è?».

Allora potremmo trovare un migliore angolo visuale per comprendere meglio il nostro ministero! Se accetta di decentrarsi da sé, il diaconato svolgerà davvero un ruolo chiave per il cammino sinodale, molto utile in questo periodo di rapide mutazioni delle nostre prassi ministeriali.

Inoltre, bisogna porsi anche degli interrogativi più radicali: il diaconato non riguarda soltanto la Chiesa, ma anche la società! Che dice il nostro mondo, la società di oggi di questa esperienza del diaconato? In quanto ministero, il diaconato non può pienamente essere compreso se non in questa interfaccia fra Chiesa e mondo/società: c’è sempre un lavoro fondamentale da fare per ricollocare le nostre questioni interne nel quadro più significativo delle questioni poste dalla nostra società. Qui si gioca il nostro ministero.

Il diaconato e il matrimonio

Certamente la Comunità non porta da sola il carico di un tale lavoro, ma la sua presenza nella Chiesa italiana, e non solo, è uno dei mezzi perché questo lavoro resti sempre all’orizzonte. È in questo senso che abbiamo costituito dei Laboratori di lavoro per il rilancio della Comunità. Ci siamo resi conto, dopo la pandemia, che c’erano almeno due cambiamenti da integrare fra loro.

  • In vent’anni, l’aumento del numero dei diaconi uxorati ha ribaltato la situazione. Nei primi tempi del diaconato, la domanda era: «Come possono dei diaconi essere coniugati?». Il sottinteso era implicito: «Come conciliare quel che di norma non va insieme, visto che lo statuto tradizionale di un ministro ordinato in Occidente è il celibato? Come gestire l’eccezione diaconale?». Ora, la domanda sembra ribaltarsi. Non più: «Può un diacono essere anche sposato?», ma: «Come l’esperienza del matrimonio cristiano può illuminarsi quando la si guarda a partire da chi la vive da diacono?». Non dovremmo più parlare di “diaconato e matrimonio”, ma piuttosto di “matrimonio e diaconato”!
  • Da qui la scelta di ricollocare la nostra attenzione sul diaconato nella traiettoria più globale del matrimonio: in un tempo in cui tante trasformazioni ci colgono alla sprovvista, come rendere significativo ciò che vivono le coppie nelle quali il marito è diacono? Il modo di vivere di queste coppie cosa dice del matrimonio in quanto tale e cosa del matrimonio cristiano?

Ci siamo quindi soffermati a guardare questi cambiamenti per comprenderli alla luce del Vangelo, ma anche dell’antropologia. Sarebbe importante che la coppia diaconale fosse in grado di accogliere famiglie nascenti, nubendi, famiglie in crisi, separati o divorziati risposati. In questo modo la coppia diaconale diventa lievito che favorisce i rapporti anche fuori dal contesto ecclesiale. La moglie, in particolare, diventa motivo di credibilità per un ministero diaconale ad extra. Condividere le proprie diverse esperienze unisce la coppia ancora di più.

La sfida della coppia diaconale nel contesto odierno può costituire un segno dei tempi in rapporto all’individualismo che ha la presunzione di fare a meno di tutto e di tutti, e che produce soltanto isolamento.

Si è rilevato anche l’importanza che la coppia, insieme ai figli quando è possibile, preghi con la Liturgia delle ore e partecipi all’eucaristia domenicale, non solo in senso formale, ma come vero progresso spirituale.

Abbiamo potuto constatare che tutto questo non era marginale rispetto al diaconato: le proposte e le osservazioni incrociate ci hanno permesso di recepire una parte della sua attuale ricchezza.

Anche l’occasione per una collaborazione tra teologi rappresenta oggi per noi un luogo di dibattito e scambio di riflessioni. Una tale collaborazione ha allargato lo sguardo sul diaconato.

L’unità dei ministri è certamente un punto nodale per i prossimi decenni. È una ricchezza straordinaria per la Chiesa poter contare su ministri formati e informati per gli impegni umani che vivono: l’attività socio-professionale dei diaconi e la loro esperienza specifica del celibato o del matrimonio costituiscono una ricchezza feconda. Ma bisogna anche valutare come questa ricchezza possa essere ricevuta dai presbiteri, o dai futuri presbiteri che, al contrario, vedono la loro consistenza umana guardata con sospetto dalla cultura moderna.

Bisognerebbe non lasciarsi intrappolare da sovrapposizioni pericolose, quasi che implicitamente il diaconato richiamasse il matrimonio così come il presbiterato richiama il celibato.

O, ancora, quasi che la competenza naturale del diacono fosse la sua esperienza umana, ricca di impegni, e la competenza propria del presbitero fosse la dottrina, il suo sapere ecclesiale acquisito o la sua situazione istituzionale.

Può darsi che si ravvisino qua e là embrioni di una tale ripartizione che richiamano conflitti insormontabili. La riflessione teologica deve in tal senso restare al servizio di una unità sempre da costruire e mai acquisita a priori.

Diaconato e Chiesa locale

La questione dell’unità del diaconato attraversa anche il corpo dei diaconi: la riflessione in Italia sul diaconato sta avendo, sempre più, una maggiore considerazione a partire dalla sua collocazione diocesana.

In origine, l’impulso per il diaconato è stato legato al delinearsi della Comunità, e la Comunità ha svolto un ruolo-motore per lanciare e sviluppare il ministero diaconale. Col passare dei decenni, questo impulso deve indubbiamente ripartire sempre più dal suo luogo naturale che è la Chiesa locale, la Chiesa diocesana. Come il presbiterato, anche il diaconato affonda le radici nella Chiesa locale: esso è, insieme, frutto e fattore attivo della fecondità diocesana.

Come riflettere teologicamente questo legame reciproco tra diaconato e Chiesa locale? Come individuare i fattori che favoriscono o al contrario nuocciono al radicamento del diaconato in una diocesi? Come riarticolare sempre più le diverse istituzioni (nazionali, regionali) al servizio di questo radicamento?

Credo che il diaconato sia sul punto di varcare una soglia: non è più l’esperienza pilota di alcuni pionieri che operano eccezionalmente, ma è una delle espressioni dell’identità propria di una Chiesa locale, uno dei luoghi dove si concentrano, allo stesso tempo, le sue ricchezze e le sue difficoltà. La Comunità del diaconato si sente fortemente chiamata, per i mesi a venire, a chiarire le implicazioni di questa soglia.

In un momento in cui il diaconato deve sempre più trovare le sue radici nelle Chiese diocesane, c’è indubbiamente un punto da riprendere per non restare stereotipati su un solo modello teorico e pratico.

Il punto di discernimento essenziale è quello che ruota attorno alla funzione pastorale: come chiarire teologicamente il legame tra ministero ordinato e responsabilità sinodale? Il diacono, in quanto ministro ordinato, è come tale direttamente destinato a un servizio pastorale? Si può dire che la nostra prassi, con scelte non sempre coraggiose e feconde, permette di chiarire una parte della questione.

Come continuare a progredire su questo punto, in un momento in cui la diminuzione del numero dei presbiteri – con il parallelo arrivo di generazioni di diaconi più disponibili – rischia di suscitare risposte immediate, ma non abbastanza meditate?

Sognare insieme

Il primo impegno che nasce da questo Convegno è «fare germogliare i sogni, suscitare profezie e visioni, far fiorire speranze, stimolare fiducia, fasciare ferite, intrecciare relazioni, risuscitare un’alba di speranza, imparare l’uno dall’altro, e creare un immaginario positivo che illumini le menti, riscaldi i cuori, ridoni forza alle mani». Non sono le mie parole ma quelle di papa Francesco.

Mi piace vedere in questa citazione il senso fondamentale della sinodalità diaconale. Due verbi: sognare e sperare, con i relativi sostantivi.

Una raccomandazione preliminare: «non lasciarsi soffocare dai “profeti di sventura” né dai nostri limiti, errori e peccati».

Un obiettivo: «Allargare gli orizzonti, dilatare il cuore e trasformare quelle strutture che oggi ci paralizzano, ci separano e ci allontanano dalla realtà». Non solo camminare insieme ma avere la «capacità di sognare insieme», senza cercare il proprio interesse.

Come possiamo comprendere più a fondo il valore del nostro ministero nel rinnovamento del volto sinodale delle nostre comunità diocesane e parrocchiali? Quale futuro può avere una pastorale tutta ripiegata sull’immediato? E quale futuro hanno le nostre parrocchie, nei nostri territori?

Sognare concretamente: può sembrare uno slogan, e invece è la sintesi e il rilancio dello «stile sinodale diaconale», con queste tre parole-chiave: umiltà, disinteresse, beatitudine.

“Sinodalità”, quindi, come «stile consapevolmente scelto per discernere la volontà di Dio e interpretare al meglio le esigenze del momento presente», come facevano le prime comunità cristiane.

Avviare poi «una revisione di tante prassi ecclesiali» attraverso «il sogno missionario di arrivare a tutti» – espressione anch’essa del papa. I Sinodi sono un tempo per sognare e passare del tempo col futuro dice il Vademecum per il Sinodo, e con queste parole ci invita ad avviare un processo che ci ispiri a creare una visione del futuro piena di gioia del Vangelo.

Oltre ad accostare il nostro ministero diaconale al sogno di Chiesa, al tempo stesso occorre essere concreti. Non per rinnegare le aspirazioni ideali ed essere faciloni, ma per dare visibilità in cose semplici ed evidenti, a ciò che ha valore. Sicuramente, non bisogna pretendere cambiamenti rapidi e immediati. Occorre piuttosto, dentro una prospettiva nuova, individuare alcuni punti semplici e di applicazione possibile, capaci di suscitare altre energie e altre forme di coinvolgimento e di servizio.

Diciamoci la verità: camminare insieme non è facile, non è facile neppure per i diaconi. Richiede allenamento e attenzione al passo dell’altro. Si impara il “camminare insieme” camminando insieme, esercitandoci a vivere uno stile di Chiesa comunionale e partecipativo; si fa esperienza concreta di uno stile sinodale che non è una novità, ma è costitutivo della Chiesa così come ci è stato restituito chiaramente dal concilio Vaticano II nell’immagine del «popolo di Dio in cammino».

Un laboratorio di relazioni

Si tratta di rileggere insieme il nostro ministero e offrire concreti suggerimenti per far crescere un diaconato dal volto sinodale. Tre le piste di lavoro e tre i laboratori da esplorare:

  • Mettersi insieme e fare un momento di revisione.
  • Mettersi insieme e domandarsi: che cosa è avvenuto nella nostra diocesi in questi anni, riguardo al diaconato? Che cosa si è fatto? Che cosa è mancato? Cosa è cambiato?
  • Mettersi insieme e proporre: quale percorso possiamo intraprendere per rinnovarci?

Questo significa rileggere insieme il vasto mondo delle parrocchie e dei territori nella prospettiva del laboratorio di relazioni per muovere i diaconi non singolarmente ma collegialmente verso una tensione positiva, un nuovo slancio missionario teso all’individuazione di alcuni più specifici ambiti di lavoro pastorale scelti come sperimentazioni-laboratori, all’interno della comunità, a servizio della cura delle relazioni e delle collaborazioni.

Questa impostazione pastorale si realizza non nei locali delle parrocchie (non solo, almeno), ma nei quartieri, nei caseggiati, nelle famiglie, nelle zone territoriali più lontane o, meglio ancora, nelle periferie non solo geografiche ma esistenziali delle parrocchie, per portare alla graduale trasformazione delle nostre comunità.

L’esistenza di rapporti personali immediati costituisce il terreno più favorevole per un’attenzione alle esigenze delle persone e dei gruppi umani, e per dare spazio alla corresponsabilità e al coinvolgimento di tutti.

Una rete tra diaconi

Questa conversione pastorale acquista maggiore rilevanza se i diaconi sono impegnati in un servizio prettamente diaconale per:

  • Promuovere celebrazioni domestiche della Parola. La coppia diaconale deve stimolare la comunità a cercare la porzione maggioritaria di popolo di Dio (= battezzati) che non frequenta la chiesa. Una via potrebbe essere data da incontri sulla Parola di Dio nelle case.
  • Avviare un servizio in cui il diacono sia impegnato in certe realtà settoriali come il mondo del lavoro, i gruppi giovanili per educare i giovani al Vangelo della carità, l’assistenza ai presbiteri anziani, la nascita e la guida di gruppi inter-familiari.

Per realizzare tutto questo è necessario avviare una rete tra diaconi, favorendo un interscambio di “modalità” innovative ed efficaci, nonché una comunicazione di esperienze di servizio. Mettere in rete, infatti, significa anche mettere in comunione i percorsi di vita ministeriale, essere capaci di “fare rete”.

Questa disponibilità a “fare rete” ha in sé anche il germe della prossimità familiare. La circolarità relazionale propria della famiglia costituisce il passaggio importante per una rete delle famiglie diaconali.

Ascolto e servizio

Inoltre, i diaconi devono creare soprattutto un vero laboratorio di ascolto, intanto tra noi per conoscerci, cogliere i talenti e i carismi di ciascuno e adeguare i nostri impegni di servizio; un ascolto reciproco, libero da pregiudizi, ma anche attento e rispettoso di ognuno, perché il “fare” sia un “fare sapiente”.

La fraternità diaconale è la presa di parola da parte di tutti, nessuno escluso. Ascolto della società, ascolto nella Chiesa, ascolto del mondo inteso quale umanità. Si tratta di saper leggere e ascoltare la realtà con le sue inattese criticità.

Ma è necessario un altro passo, che sembra più scontato, creare un laboratorio di servizio, un servizio fuori dagli spazi quieti delle nostre sacrestie per incontrare la società civile nei suoi vari aspetti: la cultura, la politica, il volontariato, le professioni… e soprattutto per incontrare le periferie più remote, quelle che mai hanno goduto del diritto di parola, per comprenderne le istanze, per aprirsi al confronto costruttivo, trovando strade da percorrere insieme nell’interesse di ogni persona.

Che cosa comporta per la vita di diaconi vivere in una parrocchia in atteggiamento di servizio?

Bisogna imparare un nuovo modo di stare assieme in fraternità, partecipare insieme con la comunità dei credenti, condividere e comunicare scambievolmente, senza nascondere o rimuovere i conflitti, che vanno affrontati.

Il coraggio di sperimentare

Dobbiamo, in una parola, promuovere il coraggio di sperimentare, di sperimentare insieme. Ho sempre pensato la possibilità che in ogni comunità cristiana si possa costituire un piccolo drappello di diaconi del territorio, che non si perdano in ampollose analisi sociologiche o culturali, ma si impegnino ad incontrare le persone. L’approccio non è quello di chi va a risolvere problemi perché ha soluzioni pronte e risposte a tutto, ma di chi si china a medicare le ferite con la stessa fragilità e povertà.

Questa provocazione credo che possa essere recepita e proposta nelle nostre diocesi a tutti i diaconi. Non possiamo limitarci ad assumere l’atteggiamento delle sentinelle che, rimanendo dentro la fortezza, osservano dall’alto ciò che accade attorno, bensì coltivare l’attitudine degli esploratori, che si espongono, si mettono in gioco in prima persona, correndo il rischio di sporcarsi le mani.

Ricordiamoci però che, senza crescita ecclesiale, il servizio dei diaconi rischia di essere frainteso e diventare una sorta di impegno “su commissione” destinato a risolvere, seguendo scelte ispirate o dettate dall’urgenza, i bisogni contingenti e i problemi occasionali e logistici. Come, purtroppo, spesse volte è accaduto. La testimonianza del servizio diaconale deve diventare il segno storico: profezia e, insieme, impegno concreto.

Figure diaconali specifiche e il ruolo dei delegati

Infine, in questo tempo, dobbiamo offrire alla Chiesa italiana e alle chiese locali modelli di figure diaconali specifiche che possano servire, da un lato, come coagulo per progettare l’impiego sinodale dei diaconi già presenti nelle nostre comunità e nella nostra diocesi; dall’altro, offrire strumenti di discernimento e di valutazione di altre e future figure diaconali. Si tratta cioè di identificare alcune figure che potrebbero corrispondere ai “bisogni” della missione della Chiesa diocesana o delle comunità parrocchiali.

Allora sarà interessante creare un piccolo gruppo – li potremmo chiamare facilitatori – composto da presbiteri, diaconi, laici e religiosi che riescono a dialogare, pensare e accompagnare un progetto concreto sul diaconato in diocesi, in parrocchia o nelle zone pastorali. Gruppo con compiti di consiglio e di discernimento da proporre al vescovo, al delegato e, se esiste, alla Commissione per il diaconato. Un piccolo gruppo che possa indicare, anche in modo prioritario e concreto, quali impegni affidare ai diaconi.

Infine, e non per ultimo, sono state segnalate difficoltà riguardo all’avvicendamento piuttosto frequente della nomina dei delegati, i quali, oltre a questo compito, hanno in diocesi tanti altri impegni.

Quello del delegato è un compito determinante e fondamentale per la promozione e l’accompagnamento del mini­stero diaconale. Il problema è che, spesso, il delegato si sente troppo solo e tra due fuochi (dia­coni e presbiteri).

Il delegato, oltre alle capacità ri­chieste dai documenti, deve avere an­che una chiara conoscenza dei percor­si vocazionali perché possa essere non solo un valido accompagnatore nel discernimento vocazionale e nel cam­mino formativo, ma anche capace di animare una pastorale vocazionale.

Manca una formazione adeguata. Il più delle volte, a questa carenza ha supplito la buona volontà e un “fai da te” che non sempre ha dato i risultati sperati.

L’esperienza insegna che il dele­gato deve poter contare su una certa stabilità. Come è noto, nella maggior parte dei casi, non ci sono delegati a tempo pieno, ma presbiteri che devono ritagliarsi del tempo da dedicare ai diaconi dopo aver assolto a tanti altri impegni pastorali altrettanto gravosi. È auspicabile che il delegato sia a tempo pieno, anche se questo auspicio appare irrealizzabile.

Dobbiamo scommettere un po’ di più offrendo alla CEI la collaborazione per promuovere un Seminario di studio per i delegati. Si tratta di investimenti per il futuro che possono aprire nuove prospettive.

Per un diaconato “sano”

Sono trascorsi oltre cinquant’anni dagli inizi. Per la Comunità del diaconato in Italia non si propone un bilancio per così dire “interno” – che parta da sé e a sé ritorni –, perché essa non esiste per sé stessa ma soltanto in funzione della promozione del ministero diaconale. Essendo prevedibile che il formarsi di una prassi del ministero diaconale in seno alla Chiesa non può ritenersi acquisita ed è suscettibile di mutamenti e di approfondimenti nel tempo (soprattutto se si pensa alla centralità per alcuni aspetti “esclusiva” fino ad ora assunta dalla figura del presbitero), la Comunità ha senza dubbio ancora una sua funzione di formazione/informazione, di sostegno e di supporto per i percorsi formativi.

Vogliamo promuovere, in collaborazione con alcune Facoltà teologiche, “Corsi di alta formazione sulla teologia del diaconato”.

Ha avuto un buon riscontro un Sussidio sui percorsi di sinodalità che sarà pubblicato ogni anno nel mese di agosto, per permetterne l’utilizzo nell’anno pastorale successivo, e sarà messo a disposizione dei delegati e\o responsabili episcopali per la formazione dei diaconi e delle loro spose. Ogni anno, quindi, il tema sarà diverso, fungendo da spina dorsale dell’itinerario intero, in sintonia con il cammino della Chiesa universale e nazionale.

Per realizzare tutto questo è necessario creare una rete di referenti territoriali con i quali interagire sul territorio italiano per mettere in atto proposte concrete come i convegni regionali o interregionali.

Di fatto, in molte diocesi manca una proposta specifica di spiritualità per la coppia diaconale o per i singoli diaconi. Sarebbe auspicabile che si tracciasse un itinerario di spiritualità per i diaconi e per la coppia diaconale: ritiri per i tempi forti dell’anno liturgico, esercizi spirituali annuali e incontri di lectio divina tra diaconi e spose. Creare una rete nazionale delle spose per potersi confrontare. Porre la giusta attenzione alle coppie diaconali giovani, specie se con figli piccoli.

La Comunità rimane, dunque, punto importante di riferimento per l’informazione italiana e mondiale circa lo sviluppo del diaconato, “luogo di incontro” per lo scambio di esperienze e per conoscere le novità dell’approfondimento teologico e degli orientamenti del magistero.

A servizio delle Chiese locali, in comunione con la CEI, esprime piena collaborazione, ribadendo in tal modo anche la fedeltà alla sua originaria spiritualità di servizio e di povertà.

Al Convegno abbiamo avuto il videomessaggio del presidente CEI, il card. Matteo Zuppi, la presenza del vicepresidente, mons. Erio Castellucci, nonché coordinatore per il sinodo della Chiesa italiana e il nuovo presidente della Commissione clero, mons. Stefano Manetti (al sito www.comunitadiaconato.com si trovano tutti i video/interventi dei relatori).

Siamo convinti che il diaconato è dono di Dio alla Chiesa, ma tuttavia è nelle nostre mani. Il futuro del diaconato dipende in larga misura dai diaconi.

Oggi i diaconi devono fare risuonare con competenza la voce della diaconia. Siamo gente adulta, sposata, con figli, impegnata professionalmente, che si deve lasciare dietro le spalle i piccoli problemi di sacristia come gli umanissimi mugugni con il prete per inutili gelosie o per spirito di competizione e spazi da occupare.

Dobbiamo rendere presente nella Chiesa un diaconato “sano”, “in uscita”. Bisogna farlo amare e desiderare, non per noi stessi, ma per dare ossigeno alla diaconia nella Chiesa nella ferma convinzione che la grazia del diaconato costituisca un prezioso dono dello Spirito per una Chiesa povera per i poveri, perciò diaconale.

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