La tentazione dell’attivismo

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Nella Chiesa occidentale, si intravede la seducente tentazione dell’operosità e dell’attivismo. Questa inclinazione verso un presbiterato iperattivo ha conseguenze nefaste, che si riflettono in un impoverimento delle relazioni più profonde all’interno del presbiterio e della comunità dei fedeli.

Ad esempio, il rapporto con i laici rischia di limitarsi esclusivamente a una dimensione di assistenza pastorale, causata dalla mancanza di personale ecclesiastico, il quale necessita di nuove risorse per coprire l’ampio spettro delle esigenze ecclesiali. In questa prospettiva, prevale unicamente l’approccio a servizi interni alla Chiesa.

Passaggio dei tempi

Per entrare in una dimensione più concreta, sembra che troppo spesso si pretenda dai presbiteri, che magari oggi sono responsabili di numerose parrocchie, di incarnare il ruolo tradizionale del parroco degli anni ’50. Ci si aspetta che siano il fulcro della parrocchia, ovvero “sacerdoti, re e profeti” che rispondono a ogni richiesta, visitino ogni casa, assistano ogni malato e presiedano ogni funzione e liturgia, moltiplicando il culto e le devozioni a tutte le ore.

A questo si aggiunge una dose di giovanilismo e attivismo degli anni ’80, con la richiesta che il prete si dedichi ai giovani (ma quali giovani?), guidi il gruppo delle famiglie, il gruppo della terza età, il gruppo sportivo, il gruppo teatrale, il gruppo di cucito e così via. In seguito, si richiedono competenze che comprendono la meditazione e l’interpretazione della Parola di Dio, la riflessione politico-sociale, l’educazione alla legalità e competenze tecniche, economiche e giuridiche per il restauro e la ristrutturazione.

Infine, si richiede una spruzzata del nuovo secolo in termini di abilità tecnologiche e comunicative, coinvolgimento dei laici, inclusione di membri di altre fedi, formazione umana, psicologica e sociologica, tenendo sempre presente l’alto e personale modello evangelico, entro il quale ogni sacerdote deve essere reinterpretato, considerando la sua inevitabile umanità.

Già all’epoca di Don Milani c’era una critica nei confronti dei sacerdoti che si impegnavano in attività ludiche e ricreative per attrarre i giovani, spesso in una sorta di competizione con i circoli comunisti. Egli disapprovava fortemente campi da calcio, cineforum, teatri, conferenze, locali con giochi e biliardi, spazi con ping pong e calcio balilla, e così via.

In breve, vedeva tutto l’agitato attivismo attorno alle parrocchie come un riflesso del mondo esterno, che poteva essere organizzato in modo più efficiente, moderno e coinvolgente. Non c’era davvero competizione, poiché il “mondo” si specializzava nelle attività ludiche, passatempi, sport e intrattenimenti di ogni tipo, investendo risorse considerevoli in tali iniziative.

Il secolo e il prete

In quegli anni, cominciarono a emergere le prime manifestazioni esibizionistiche dell’attivismo ecclesiastico, che oggi hanno assunto forme ancor più grottesche. Si manifestarono preti chitarristi, cantanti, tuffatori, e coloro che organizzavano sfilate di indossatrici per “cristianizzare” il mondo della moda. Queste furono le forme embrionali dei preti-manager e dei monsignori-strateghi multimediali che oggi dominano la scena ecclesiastica.

Ciò ha portato a un’eccessiva appropriazione di ruoli e funzioni da parte del clero, perdendo di vista l’unica missione che spetta al presbitero in quanto tale: l’edificazione della comunità, la cura animarum e la santificazione attraverso l’amministrazione dei sacramenti. Come sosteneva Don Milani, non è realistico pretendere che il prete supervisioni ogni aspetto della vita della comunità; tale idea va oltre la fede nel ministero ordinato ed è piuttosto una forma di superbia. La fede ci insegna che il presbitero è insostituibile solo nel ministero dei sacramenti.

L’operosità instancabile dei presbiteri, che può trasformarsi in eroismo quando scaturisce da una profonda unione con Cristo, si svela priva di frutto quando priva di tale intima comunione. Questa riflessione riguarda da vicino l’esperienza concreta di molti presbiteri, parroci e responsabili di varie iniziative all’interno della sfera ecclesiastica.

Spesso, esposti senza una rete di sicurezza nelle situazioni più svariate e disperate, i presbiteri non si dedicano all’attivismo per motivi personali o per interessi di categoria, ma si trovano piuttosto costretti, come il Cireneo, a sopportare il peso delle croci che le persone e le famiglie portano o a supplire alle evidenti carenze delle istituzioni civili.

Necessitano di rispondere ai richiami dei più emarginati, degli “uomini senza” (senza famiglia, lavoro, casa, cittadinanza, soggiorno, salute mentale), offrendo una risposta di fede e carità, sempre in prima fila e sempre in contatto con il dolore del mondo. Cristo stesso li ha investiti del ministero della riconciliazione e della misericordia, mettendoli in contatto con la miseria del peccato e tutta l’oscurità del mondo.

La consolazione che accompagna questa dimensione sofferta del presbitero risiede nel sentirsi “amici” in un senso speciale, in quanto Cristo utilizza la loro voce per annunciare il Vangelo, le loro mani per benedire e praticare la carità, la loro presenza per farsi presente nella comunità, in altre parole, per agire “in persona Christi”.

Disciplina spirituale

Inavvertitamente, dietro un’eccessiva dedizione o un’attività inarrestabile, si nasconde una profonda insicurezza riguardo ai legami che vengono instaurati. Si potrebbe dire che, per questa strada, il presbitero finisce per intraprendere un classico “circolo vizioso” con potenziali conseguenze pericolose: le relazioni con i collaboratori e i fedeli si indeboliscono e si fanno più superficiali, spingendo il sacerdote a rifugiarsi nell’attivismo gestionale. Tuttavia, paradossalmente, questa stessa forma di “iperattività” contribuisce ad aumentare la distanza tra il Pastore e il suo gregge.

In merito a questo, il venerabile Giovanni Paolo I consigliava ai presbiteri la necessità di una “grande disciplina” e di una riflessione interiore, con il distacco dalle molteplici incombenze e impegni quotidiani, riconoscendo che “deve prendersi un momento di silenzio per la sua anima e separarsi dal mondo per unirsi a Dio.”

I presbiteri, tentati dall’attivismo pastorale, rischiano di trascurare la preghiera e la profondità spirituale, elementi essenziali per l’evangelizzazione[1]. Come superare questa tentazione dell'”attivismo”? È necessario essere disposti a “rinunciare all’attivismo”, accogliendo la desolazione che deriva dal silenzio, dal digiuno dalle attività e dalle parole, e dal coraggio di autoesaminarsi con sincerità.

Secondo il pontefice, perseverare nella preghiera significa “non fuggire quando la preghiera ci conduce nel deserto. La via del deserto è la via che conduce all’intimità con Dio, a condizione però di non cercare scappatoie, di non cercare modi per eludere questo incontro. Infatti il dinamismo ministeriale senza una solida spiritualità sacerdotale si tradurrebbe in un attivismo vuoto e privo di qualsiasi profetismo”[2].

A causa di numerosi impegni, principalmente derivanti dall’attività pastorale, la vita dei presbiteri si trova oggi più che mai esposta a una serie di sollecitazioni che potrebbero trascinarla verso un crescente affanno, imprigionandola in un ritmo, a volte, incalzante e travolgente. Contro tale tentazione, non va dimenticato che il primordiale desiderio di Gesù fu quello di radunare attorno a sé gli Apostoli affinché “stessero con lui” (Mc 3,14).

In ragione di ciò, è imperativo scongiurare il rischio dell’iperattivismo, ovvero la convinzione che l’efficacia della propria azione pastorale dipenda esclusivamente dalla propria maestria personale. Occorre vigilare con premura affinché non ci si lasci trascinare dall’eresia dei nostri tempi, cioè l’iperattivismo frenetico, e concentrarsi invece sulle priorità inderogabili: la preghiera, il rapporto intimo con Gesù, e l’assidua contemplazione della Parola.

La minaccia di un attivismo esasperato non può essere sottovalutata, specialmente in considerazione della riduzione delle vocazioni presbiterali. Già Pio XII metteva in guardia dall’eresia dell’azione:

Per queste ragioni, mentre diamo la dovuta lode a quanti, nel faticoso assetto di questo dopoguerra, spinti dall’amore verso Dio e dalla carità verso il prossimo, sotto la guida e seguendo l’esempio dei loro Vescovi, hanno consacrato tutte le loro forze a sollievo di tante miserie, non possiamo astenerci dall’esprimere la Nostra preoccupazione, e la Nostra ansietà per coloro i quali, per le speciali circostanze del momento, si sono ingolfati nel vortice dell’attività esteriore, così da negligere il principale dovere del Sacerdote, che è la santificazione propria. Abbiamo già detto in pubblico documento che devono essere richiamati a più retto sentire quanti presumono che si possa salvare il mondo attraverso quella che è stata giustamente chiamata “l’eresia dell’azione “: di quell’azione, che non ha le sue fondamenta nell’aiuto della grazia, e non si serve costantemente dei mezzi necessari al conseguimento della santità, dataci da Cristo. Allo stesso modo abbiamo però stimolato alle opere di ministero coloro che, chiusi in sé stessi e quasi diffidenti dell’efficacia del divino aiuto, non si adoperano, secondo le proprie possibilità, a far penetrare lo spirito cristiano nella vita quotidiana, in tutte quelle forme che sono richieste dai nostri tempi[3].

Il tempo nemico

La vita presbiterale, intrappolata nell’impetuoso turbine dell’iperattivismo, con il conseguente sovraccarico di doveri pastorali, può oscurare e indebolire la luminosa testimonianza presbiterale. «L’urgenza dei nostri sacerdoti è di poter essere preti: il rischio sempre in agguato è quello dell’’attivismo, di rimanere preda di una serie di “funzioni” e cedere a una sorta di depressivo fatalismo o ad un attivismo dispersivo, un “attivismo convulso”» (Lievito di fraternità, n. 24)

Il tempo, che apparentemente sembra obbedire come un servo, in realtà si rivela uno dei principali tiranni. In questa prospettiva, il tempo riduce l’essenza del presbitero a ciò che può essere misurato, commercializzato, calcolato, orientato all’efficienza e all’efficacia. Ci spinge a un ritmo incessante che distrugge, non lasciando spazio per la riflessione, concentrandosi sul fare piuttosto che sull’agire e sull’accumulare esperienze fine a sé stesse. Questo tempo scorre inesorabilmente, sfumando i tratti umani, infiltrandosi anche nella sfera morale e spirituale.

È imperativo che il presbitero si muova seguendo la logica dell’agire che caratterizza la sua identità, piuttosto che quella del semplice accumulo di azioni. Questo implica affrontare ogni giorno con l’atteggiamento dell’accoglienza, anziché con la pretesa di dominare tutto e tutti.

Gesù ci dà un insegnamento prezioso.  Anche se gioisce nel vedere i suoi discepoli felici per i prodigi della predicazione, non si dilunga in complimenti e domande, ma si preoccupa della loro stanchezza fisica e interiore. Li vuole mettere in guardia da un pericolo, che è sempre in agguato anche per noi: lasciarsi prendere dalla frenesia del fare, cadere nella trappola dell’attivismo, dove la cosa più importante sono i risultati che otteniamo e il sentirci protagonisti assoluti. Quante volte accade anche nella Chiesa: siamo indaffarati, corriamo, pensiamo che tutto dipenda da noi e, alla fine, rischiamo di trascurare Gesù. Per questo Egli invita i suoi a riposare un po’ in disparte, con Lui”[4].

È imperativo eludere il pericolo dell’ansia legata all’organizzazione e della frammentazione nella propria esistenza. Si rende necessario delimitare confini, riservare momenti per la propria crescita individuale e il riposo.

Agire per agire

Evitiamo di cadere nell’inganno dell’attivismo, che si manifesta nel vivere l’azione per l’azione stessa, nella perpetua tensione, nel fare per il solo scopo di fare, senza concedersi il tempo per la riflessione: sarebbe come esistere senza una chiara direzione e scopo. Questa frenesia d’azione svuota il cuore e l’anima. L’incessante frenesia del fare costituisce una delle tentazioni più insidiose e persistenti nell’ambito dell’apostolato nella Chiesa dei nostri giorni. Essa implica una troppa fiducia nelle strutture e nelle pianificazioni astratte, ignorando la tangibilità della vita. Questo è un esempio di neo-pelagianesimo da cui papa Francesco ha messo in guardia.

Il papa si è nuovamente dedicato a quest’antica deviazione della fede cristiana, insieme allo gnosticismo, con una crescente preoccupazione evidente nel suo magistero. La prima denuncia di questi due errori, antichi ma in grado di risorgere, si trova nell’Evangelii gaudium (nn. 93-97). Papa Francesco ha successivamente affrontato queste due malattie spirituali nel suo discorso a Firenze del 10 novembre 2015, rivolto ai delegati del V Convegno della Chiesa italiana. Infine, ha trattato nuovamente il tema del neo-pelagianesimo nella costituzione apostolica Gaudete et exsultate (nn. 47-61) sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo.

Il pelagianesimo, quindi, è da associare all’iperattivismo nella Chiesa, alla fiducia nei piani e nei progetti umani, e alla convinzione che la Chiesa possa essere costruita unicamente mediante l’azione umana. Questo approccio finisce per svuotare l’azione della grazia divina, riducendo tutto alle capacità dell’uomo.

Dobbiamo, dunque, resistere alla tentazione del “martalismo”[5], ovvero all’eccessiva operosità e all’ipertrofia patologica dell’attivismo. È la presunzione di coloro che credono di poter fare affidamento esclusivamente sulle proprie risorse, sulle abbondanti strutture e risorse, sulle strategie organizzative, dimenticando il primato insostituibile della grazia divina.

Il “martalismo” si manifesta nel vivere il ministero in modo burocratico, formale e funzionale, riducendo gli operatori pastorali a meri impiegati. È la tentazione di coloro che si dedicano costantemente a stilare piani e programmi e si impegnano nell’analizzare entrate e uscite, trasformando l’apostolo in un mero contabile o commercialista. La preparazione è importante, ma deve essere considerata come un mezzo e non come un fine a sé stessa, evitando di cadere nella prospettiva mondana, dove efficienza ed efficacia, urgenza e importanza si confondono. La profilassi e la cura per questa piaga consistono nell’essere vigili contro la tentazione di voler dettare il corso dello Spirito Santo.


[1] Cf. Francesco ha ricevuto i Vescovi della Conferenza Episcopale del Portogallo in Visita ad Limina Apostolorum, ieri 7 settembre 2015.

[2] CONGREGAZIONE PER IL CLERO IL PRESBITERO, PASTORE E GUIDA DELLA COMUNITÀ PARROCCHIALE ISTRUZIONE (n. 11).

[3] PIO XII, MENTI NOSTRAE. ESORTAZIONE AL CLERO DEL MONDO CATTOLICO SULLA SANTITÀ DELLA VITA SACERDOTALE, 23 settembre 1950.

[4] Francesco, Angelus del 18 luglio 2021.

[5] Cf. Francesco, Udienza alla Curia Romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi, 22.12.2014.

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Un commento

  1. Giuseppe Gerlin 9 dicembre 2023

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