Si inscrive ab antiquo nella tradizione cristiana il tema della ripulsa delle vanità. Nel corso dei secoli si sono precisati i modi e le ragioni dell’invito alla moderazione e si affiancarono a valenze morali e a indicazioni penitenziali ragioni nuove di ordine diverso.
Quanto più si diffuse il gusto per gli ornamenti e aumentarono le possibilità di disporre di vesti e oggetti preziosi, tanto più ricorrente, perspicua e sempre meno astratta si fece la discussione sul tema della lotta alle vanità da parte dei predicatori.
«La vanità è come un’osteoporosi dell’anima: le ossa di fuori sembrano buone, ma dentro sono tutte rovinate» (papa Francesco).
Futile ed effimero
La vanità può essere intesa in due modi diversi. Innanzitutto, indica il carattere effimero di tutto ciò che esiste: tutto passa, tutto finisce. È un tema classico nella letteratura spirituale e un passaggio obbligato per ogni passo in avanti sulla via della sapienza.
A questo proposito sono sempre attuali le riflessioni del libro di Qoèlet, vero gioiello della letteratura di tutti i tempi: «Vanità delle vanità, tutto è vanità. Quale utilità ricava l’uomo da tutto il suo affanno? Una generazione va, una generazione viene, ma la terra resta sempre la stessa… Ciò che è stato sarà, ciò che è stato fatto si rifarà. Non c’è niente di nuovo sotto il sole» (Qo 1,2-4 e 9).
Per vanità s’intende ancora il desiderio futile di distinguersi dagli altri e di farsi notare. Questo vizio contrasta con la virtù della modestia e dell’umiltà.
Si può sorriderne e giudicarlo poco importante. Ma i maestri spirituali si mostrano piuttosto severi nei confronti della vanità. San Vincenzo de Paoli diceva ai sacerdoti: «È questo quello che voi cercate? Salite in cattedra non già per predicare Dio, ma per parlare di voi stessi e per servirvi (cosa gravissima!) di una cosa così santa come la parola di Dio per alimentare e accrescere la vostra vanità!».
La vanità è essenzialmente esibizionismo ma poi anche narcisismo, mentre solo una trascurabile parte si manifesta come fatuità. L’esibizionismo sembra poi non tanto diverso da una forma vanitosa del caro “desiderio di riconoscimento”, del voler essere “creato” dallo sguardo degli altri, quegli stessi altri che il vecchio Sartre considerava l’inferno.
L’alterità
Gli altri: inferno e paradiso, immagine mobile del campo di battaglia che è la vita. Gli altri, i cui sguardi sono terribili ma, allo stesso tempo, sublime sale della vita, e il loro riconoscimento è motore inesauribile dei nostri sforzi. E questo rapporto così tremendamente dinamico con gli altri è ciò che ci spinge, «invece di affogare nei troppi vizi come forse sarebbe giusto…, ad intraprendere il nostro faticoso viaggio nella vanità» che si nutre, a sua volta, proprio della sublimazione delle nostre pulsioni.
Sebbene i confini tra i due siano labili, l’esibizionismo è principalmente rivolto all’esterno, mentre il narcisismo è più che altro autoriferito («invero il mondo è pieno di attori che recitano davanti allo specchio in camera loro»).
Insomma, niente di raccomandabile o proponibile. Ed è inquietante associare cose del genere alla Chiesa. Quanto sono terreni gli uomini, pure quelli di Chiesa! Non è sorprendente, avendo la Chiesa, con i suoi organigrammi e gerarchie, molto a che fare appunto con l’uomo oltre che con Dio.
Non dovrebbe essere sorprendente, eppure quando si avverte l’impeto della vanità impadronirsi di uomini che avrebbero come unico impegno quello di prendersi cura delle anime, per loro scelta, un certo fastidio si fa strada, che uno sia osservante, praticante, credente o qualsiasi altra cosa.
Si ostentano ancora vesti sontuose e ornamenti con sfarzo di ori, pietre preziose e argenti, oltre a ricami preziosissimi, stoffe di seta, rasi lucenti, merletti preziosi e damaschi.
La vanità della Chiesa
Il sacramento, ogni sacramento, non può evitare lo scarto, e scarto sempre notevole, tra il signum (il significante) e la res (il significato). Ma qui si avrebbe addirittura un signum che contraddice e stravolge la res: la Chiesa vanitosa come potrebbe raccordarsi e cosa potrebbe trasmettere di Gesù, il “figlio del falegname”?
Ma la Chiesa è vanitosa? Paul Winninger, alla fine degli anni ’60, raccolse un vasto materiale e lo sintetizzò in un volumetto: La vanità nella Chiesa (Cittadella 1969)[1]. Vanità nella Chiesa e non della Chiesa. Giustamente, perché non tutti nella Chiesa coltivano fiocchi, ornamenti e titoli onorifici.
Ma anche benevolmente perché i fiocchi, gli ornamenti e i titoli onorifici in questione riguardavano (e riguardano) coloro che, almeno nell’accezione corrente preconciliare, più che costituire una parte della Chiesa identificavano il tutto della Chiesa il papa, i vescovi, il clero.
Eppure il Codice di Diritto Canonico raccomanda che «i chierici conducano una vita semplice e si astengano da tutto quello che può avere sapore di vanità» (can. 282 – §1).
Comunque la vanità nella (o della) Chiesa è superata o è ancora in atto? La vanità ha ancora posto nella Chiesa e posto non per personali fragilità ma – e la differenza non è di poco conto – per istituzionali concessioni[2].
S. Giovanni Crisostomo, e proprio nel Trattato sul sacerdozio (III,9), sostiene che «la sete degli onori è una delle passioni che maggiormente corrompono l’anima umana».
Non a caso Gesù di Nazareth aveva messo in atto un vero concentrato di anticorpi, inventando addirittura la vanità rovesciata: chi vuole essere primo sia l’ultimo… E questo sistema immunitario sembra abbia funzionato – non contano umanissimi cedimenti episodici e individuali – nel cristianesimo emarginato, perseguitato, comunque fuori dal giro di chi conta.
Ma ha perso forza appena il cristianesimo è stato accolto e inserito nei ranghi del sistema di comando. Perché, associata al potere, la vanità non è più vanità ma è gradi, divise, seggi, titoli dovuti. Perché ogni onore accordato ai cristiani è apparso onore al cristianesimo, momento di un trionfo della fede. E anche perché arrivarono per ecclesiastici oneri di supplenza e diventava facile associare gli onori al ruolo (laico) e non alla persona (ecclesiastica).
Sta di fatto che molta della vanità si è introdotta nella Chiesa per derivazione da costumi politico-sociali sia, inizialmente, dell’impero sia, successivamente, di altri sistemi dominanti (vasto il retaggio feudale). Vanità mutuata. Che però è diventata vanità difesa e anche incrementata in proprio.
I titoli
C’è un dato curioso che riguarda proprio il titolo di eccellenza accordato ai vescovi. Venne concesso ai vescovi italiani con decreto della Congregazione del Cerimoniale[3] il 31 dic. 1930 e subito adottato dai vescovi di tutto il mondo, per rispondere a Mussolini che aveva concesso l’eccellenza ai prefetti italiani[4]. Non venne però cancellato per i vescovi quando è stato cancellato in Italia, per disposizione prima di Gronchi e poi di Segni, sia per i prefetti sia per lo stesso presidente della repubblica[5].
Del resto, i titoli si sprecano: ce n’è uno per ogni gradino gerarchico. Vanità conservata. Perché vanità teologizzata, in qualche modo sacralizzata. Non è un caso che la massima concentrazione e la fonte di tutti i titoli, insegne, paludamenti e distinzioni ecclesiastiche si collochi nella liturgia dove tutto ciò che esalta le persone passa come splendore del culto, come onore reso a Dio e anche – rovescio della medaglia – come epifania, segno e manifestazione della grandiosità e potenza divina.
E questo è sufficiente per togliere alla vanità il marchio del vizio e promuoverla, se non a virtù, a valore. Anche frange, fiocchi, strascichi, colori, ori e gemme smettono di essere frivolezze e diventano cose sacre. Dentro ma anche fuori del tempio.
A dire il vero, qualche segnale di cambiamento negli ultimi decenni c’è stato. Pio XII aveva tagliato alcuni metri degli strascichi dei cardinali e, dopo il Vaticano II, altri provvedimenti sono andati nella linea di maggiore sobrietà e – è il caso di dirlo – di miglior gusto.
Quando guardiamo le fotografie del nostro recente passato, la prima cosa che ci salta agli occhi e che ci dà la misura di “come eravamo” e dei cambiamenti che sono stati davvero “epocali” sono proprio gli elementi di costume che marcano la differenza: lunghezza degli abiti, acconciature dei capelli, modelli di scarpe.
Nelle catacombe di Domitilla
Non so se sia una banalità. Non lo credo, e chiamo a testimone quanto successe pochi giorni prima della chiusura del Concilio Vaticano II, il 16 novembre 1965. Il fatto è noto: una quarantina di padri conciliari si riunì nelle catacombe di Domitilla per proclamare e firmare il Patto delle catacombe, che verrà poi firmato anche da qualche centinaio di altri vescovi.
Lasciamo da parte il tanto che si può dire da molti punti di vista su quel momento di collegialità ecclesiale e sui suoi significati reali e simbolici, nonché sul fatto che, nel 2019, al termine del Sinodo sull’Amazzonia, 150 vescovi hanno voluto rinnovare, nello stesso luogo, quelle stesse promesse. Mi limito a osservare qualcosa che ha però, a mio avviso, una portata davvero “epocale”.
I primi due articoli di quel documento, che per alcuni padri conciliari traduceva immediatamente in pratica quanto vissuto e deciso al Concilio, suonano così: «Cercheremo di vivere come vive ordinariamente la nostra popolazione per quanto riguarda l’abitazione, l’alimentazione, i mezzi di locomozione e tutto il resto che da qui discende (cf. Mt 5,3; 6,33s; 8,20.2). Rinunciamo per sempre all’apparenza e alla realtà della ricchezza, specialmente negli abiti (stoffe ricche, colori sgargianti), nelle insegne di materia preziosa (questi segni devono essere effettivamente evangelici)».
Gli abiti, dunque, le stoffe, i colori: tutt’altro che folcloristico, ma sarebbe sciocco circoscriverlo a un impulso pauperistico. Anche quando scorrono sugli schermi delle nostre televisioni, le immagini dei “costumi di scena” clericali confermano la percezione di una distanza sempre più incolmabile, ben lontana dalla determinazione di vivere «come vive ordinariamente la nostra popolazione»[6].
Il sistema clericale e l’ipocrisia
In ambienti ad alto tasso di ipocrisia funzionale, quali quelli ecclesiastici, è urgente interrogarsi a fondo, sull’ecclesiologia di cui sono palese attestazione le “divise ecclesiastiche”. Ritengo che, se papa Francesco, magari con un motu proprio, decretasse del tutto finita l’era delle sottane e dei bottoncini rossi, delle mantelline e dei pileoli (zucchetti), darebbe un colpo di accelerazione a quella riforma sistemica della Chiesa di cui tanto c’è bisogno, di cui tanto si parla e che stenta invece a imboccare le strade del possibile.
Naturalmente, incombe il monito di Gesù che ironizzava sugli osservanti esteriori che «allargano i loro filatteri e allungano le frange», ossia i tefillin e il tallit, componenti del culto giudaico (Mt 23,5). Resta, infatti, il rischio che segnalerà lo scrittore inglese William Hazlitt nel suo saggio Del carattere clericale (1818): «Coloro che fanno del vestito una parte principale di se stessi finiscono in generale per non valere più del loro abito»[7].
Nel frattempo si registrano cambiamenti anche per scelte e comportamenti di alcuni ecclesiastici. Nel vestiario specialmente extraliturgico. Anche nei titoli: più di un vescovo chiede di essere chiamato padre magari non misurandosi adeguatamente, oltre che con Freud, con chiare avvertenze evangeliche (Mt 23,8-10).
Qualcosa sta cambiando: la Chiesa sta diventando meno vanitosa. E non è conversione di poco conto. Può diminuire i rischi sia di servilismi che di autoritarismi. Parola ancora di s. Giovanni Crisostomo (oc, VI,3): «Gli onori che ordinariamente vengono resi ai preti sono occasione di un’infinità di mali. Essi si espongono agli assalti di due passioni contrarie, l’adulazione servile o la sciocca arroganza Si abbassano fino a terra dinanzi ai grandi per ottenere dei favori, poi, gonfi per ciò che hanno ottenuto, si irrigidiscono contro i piccoli che opprimono col loro sdegno e cadono così negli abissi dell’orgoglio».
La vanità clericale non ha veramente mai fine. A parte chi tende a rendere la liturgia uno show per mostrare se stesso, a parte la moda dei selfie che oramai ha contagiato anche il clero per cui non passa momento in cui, come ragazzini adolescenti, alcuni spediscono immagini al cui centro ci sono sempre loro.
Si va diffondendo sempre più l’attitudine a preferire la vanitas alla veritas, la vanità alla verità[8]. Le due logiche si oppongono: la vanità dà il primato all’apparenza, a quella maschera rassicurante, che copre interessi egoistici e prospettive di corto metraggio dietro proclamazioni altisonanti, misurando ogni cosa sul gradimento dei più. La verità fonda invece le scelte sui valori permanenti, sulla dignità di ogni persona umana davanti al suo destino, temporale ed eterno.
Che uomo è il prete?
È tempo in cui all’orgia della frivolezza, che celebra i miti del consumismo esasperato e dell’edonismo rampante, vanno opposte scelte fondate sulla verità e sul primato dei valori, a cui a nessuno è lecito sottrarsi.
«O riprovevoli uomini carnali, – ammoniva san Pier Damiani – perché desiderate con tanto ardore ambizioso l’alta carica ecclesiastica? Perché con tanto desiderio tentate di irretire il popolo di Dio con i lacci della vostra perdizione?» O anche santa Caterina da Siena: «Gonfiàti di superbia, sono divoratori delle anime ricomprate dal sangue di Cristo».
Non dimentichiamo che, sul piano dei modelli culturali e delle risorse spirituali, la vanitas trionfa lì dove si privilegia l’effimero a ciò che non lo è. Ciò che appare urgente è preferire alla logica di corte vedute della vanitas la logica della sobrietà, della condivisione e del servizio, unico orizzonte di senso e di speranza per il futuro del cristianesimo, del ministero e della Chiesa, per non andare incontro a un inarrestabile destino di dissoluzione nel nostro Occidente.
[1] Cf. P. Winninger, La vanità nella chiesa, Cittadella, Assisi 1969.
[2] E il campionario rimane abbondante, spesso curioso, più di una volta decisamente ridicolo: si vedano, in particolare, le pp. 30-34 di Winninger: divertimento garantito!
[3] La Sacra Congregazione del Cerimoniale (Sacra congregatio cæremonialis) era una congregazione cardinalizia che si occupava in Curia del protocollo delle varie cerimonie che coinvolgevano il pontefice e i cardinali alla corte pontificia. Fu soppressa da papa Paolo VI nel 29 giugno 1967.
[4] Cf. Winninger, La vanità nella chiesa, Cittadella, Assisi 1969, p. 26-27.
[5] Il titolo di “eccellenza”, è stato abolito con il decreto legislativo 406 del 28 giugno 1945.
[6] Cf. M. Perroni. Dimmi come ti vesti…, in “Il Regno delle donne”, del 17.06.2021.
[7] W. Hazlitt, Del carattere clericale, Parigi 1818.
[8] Cf. B. Forte, L’Italia a un bivio tra verità e vanità, in “Il Sole 24 Ore”, 11 marzo 2012.