Uno dei comportamenti che più fanno male alla Chiesa e a tante persone di buona volontà è l’ipocrisia, che risulta essere più frequente di quanto immaginiamo. Così frequente che noi, da ipocriti, non ci rendiamo nemmeno conto delle insistenti dosi di ipocrisia che falsificano molte nostre decisioni e comportamenti.
Comportamenti di cui tante volte andiamo addirittura fieri, quando, in realtà, ciò che facciamo è trasformare la vita, la convivenza e soprattutto la religiosità in una menzogna, che, se analizzata in profondità, ci dovrebbe provocare rifiuto e vergogna di ciò che facciamo, diciamo e desideriamo.
Le parole, la vita
Negli ambienti ecclesiastici le persone fanno fatica a essere coerenti con ciò che affermano e lineari con quello che suppongono di essere. L’ipocrisia, qui, sembra l’arma da tenere sempre a portata di mano per mantenere privilegi, e semmai per accrescerli, contando sulla buona fede e lo spirito di sopportazione degli altri.
La loro funzione diventa la loro finzione e quest’ultima nutre e sostiene il loro posto e la loro autorità ecclesiale. La paura di rivelarsi per ciò che sono – povere e fragili creature come tutti – provoca in loro un’identificazione crescente con la funzione che rivestono, fino al definitivo prevalere del ruolo. Si tratta di ipocriti di ruolo: persone con un elevato potere decisionale.
Magnificando il valore dei collaboratori, li spronano verso obiettivi improbabili che richiedono sforzi immani. Si dichiarano disponibili e aperti a discutere con ognuno riconoscimenti e ricompense, senza che questo poi avvenga. La loro maschera è funzionale solo a raggiungere posizioni più gratificanti o di maggior potere e peso.
La persona viene surrogata dalla presunta superiorità farisaica impositiva, refrattaria alla coscienza decisionale dell’interlocutore, considerato astrattamente, senza storia o una propria situazione da gestire autonomamente.
In tal modo, poco per volta, tutto è pensato e vissuto in vista del fine che si sono prefissi, il decoro della religione, e ciò finisce per legittimare comportamenti anche ingiusti, ma ritenuti necessari per dare gloria a Dio a ogni costo; giustificano tutto con la gloria che spetta a Dio e, diventati ciechi (cf. Mt 23,16), non vedono che, in realtà, danno gloria solo a sé stessi.
La tentazione farisaica del ministero
È la tentazione del fariseo che si arroga il privilegio di essere la voce di Dio, a giustificazione dell’esercizio monocratico del potere, che, per propri interessi, presume pure l’uso legittimo della menzogna. La concezione autoritaria si avvale ancora della dipendenza conformista, reviviscente ai nostri giorni nella supina, irresponsabile, obbedienza acritica o obbedienzialismo. Dunque, il fariseismo si maschera con l’ipocrisia del rito religioso (culto), della legge (giustizia), del rigore (misericordia), del sapere (verità), del potere (autorità).
Vizio dell’incoerenza morale e della piccineria esistenziale, l’ipocrisia ha una lunga storia. La parola «ipocrisia» deriva dal greco «hypókrisis» e dal verbo «hypokrínomai», che significa «interpretare una parte». E, originariamente, il termine «hypokrités» appartiene al linguaggio del teatro[1]. In una rappresentazione teatrale, infatti, accade che, ad esempio, un attore, che può essere ignorante, appaia in scena come un saggio.
Il sociologo canadese E. Goffman in La vita quotidiana come rappresentazione sostiene che il mondo è una grande rappresentazione teatrale. In essa, ognuno indossa una maschera e assume un ruolo, a seconda dei diversi contesti; ognuno crea un’immagine di sé da rappresentare, molto spesso differente da ciò che realmente sente e sa di sé.
Nella convinzione che, nella grande rappresentazione che è il nostro mondo, bisogna fingere per ottenere dei vantaggi, o più semplicemente per permettere alla propria vita di scorrere in modo più agevole, senza scossoni e colpi di scena. Aprono scenari simili le parole di Pirandello in Uno, nessuno e centomila: «Imparerai a tue spese che, nel lungo tragitto della vita, incontrerai tante maschere e pochi volti».
Di maschere ha parlato papa Francesco: «L’ipocrita è una persona che finge, lusinga e trae in inganno perché vive con una maschera sul volto, e non ha il coraggio di confrontarsi con la verità (…). Si può dire che è paura per la verità. L’ipocrita ha paura per la verità. Si preferisce fingere piuttosto che essere sé stessi. È come truccarsi l’anima, come truccarsi negli atteggiamenti, come truccarsi nel modo di procedere: non è la verità. “Ho paura di procedere come io sono e mi trucco con questi atteggiamenti”. E la finzione impedisce il coraggio di dire apertamente la verità e così ci si sottrae facilmente all’obbligo di dirla sempre, dovunque, e nonostante tutto. La finzione ti porta a questo: alle mezze verità (…). L’ipocrita è una persona che finge, lusinga e trae in inganno perché vive con una maschera sul volto, e non ha il coraggio di confrontarsi con la verità. Per questo, non è capace di amare veramente – un ipocrita non sa amare –, si limita a vivere di egoismo e non ha la forza di mostrare con trasparenza il suo cuore (…). È particolarmente detestabile l’ipocrisia nella Chiesa, e purtroppo esiste l’ipocrisia nella Chiesa, e ci sono tanti cristiani e tanti ministri ipocriti»[2].
Don Lorenzo Milani – siamo nel centenario della sua nascita – nel 1958 scrive un’appassionata lettera in cui afferma che il seminario deve formare seminaristi sinceri: disposti a qualsiasi costo a passare sopra alle regole dell’educazione, al galateo, al quieto vivere, ai benpensanti, alle persone che contano, insomma al proprio tornaconto, pur di non venir meno alla verità[3].
E in un altro scritto aggiunge: «Criticheremo i nostri vescovi e cardinali serenamente, visto che nelle leggi della Chiesa non c’è scritto che non lo si possa fare… Criticheremo i nostri vescovi perché vogliamo il loro bene, cioè che diventino migliori… Nessun vescovo può vantarsi di non avere nulla da imparare. Ne ha bisogno forse più di tutti noi per l’isolamento in cui la carica stessa lo costringe»[4].
Purtroppo, nell’attuale temperie ecclesiale, da una parte, si esalta la categoria della sinodalità, dall’altra, si fa ricorso artatamente allo spauracchio del chiacchiericcio per soffocare e colpevolizzare chiunque osi esercitare il diritto di critica. Sono anche queste forme di autoritarismo e clericalismo, ammantate di spiritualismo.
Per poter acquisire consapevolezza del nostro livello di autenticità e di credibilità è necessario il riferimento a tre parametri etico-sociali fondamentali[5].
Profili dell’autenticità
Il primo parametro è quello interpersonale. È nei rapporti con l’altro che possiamo misurare il nostro impegno e testimoniare le nostre convinzioni. È solo attraverso gli altri – verso i quali ci approssimiamo di volta in volta – che possiamo concretare la nostra disponibilità e dedizione. Il resto è retorica.
Il secondo parametro è quello della stretta correlazione fra conoscenza ed esistenza. Sapere e vita devono rispecchiarsi, altrimenti è ipocrisia.
Il terzo parametro è quello della stretta interconnessione fra la vita sociale, quella religiosa e l’aspetto etico. Si tratta della stretta interconnessione fra la nostra libertà e il senso della responsabilità. Fra queste due dimensioni del nostro essere ci deve poter essere un costante rispecchiamento. Diversamente siamo degli ipocriti.
L’autenticità di una persona è quella che, nella società, si mostra così com’è, senza infingimenti o ipocrisie. Mi fanno anche pensare le parole di s. Paolo “la carità non abbia finzioni”, cioè lo stesso amore di Dio implica che si abbia col prossimo una vita lineare, non doppia, senza opportunistiche simulazioni. Non è un caso che proprio all’amore si affida Dante per vincere «ipocresia, lusinghe e chi affattura, falsità, ladroneccio e simonia, ruffian, baratti e simile lordura»[6].
A questo proposito, trovo interessante quanto afferma di sé Benedetto XVI: «Sono quel che sono. Non cerco di essere un altro […]. Non tento di fare di me qualcosa che non sono»[7].
Papa Francesco, sulla stessa linea, confida di cercare sempre «l’autenticità: mi sono accorto che non avrei mai fatto nulla che non fosse stato autentico, neppure per comprare amore e stima del prossimo. Ho combattuto anch’io contro la società dell’apparenza e continuo a farlo accettandomi per quello che sono […]. La verità ha sempre una doppia faccia. E l’autenticità è la via per salvarsi […]. L’essere amati è una delle conseguenze dell’autenticità»[8].
L’autenticità è sempre un vantaggio! È possibile essere sé stessi, lottare per raggiungere i propri obiettivi anche senza sotterfugi mentali e senza sottoporre la nostra personalità ad alcuna maschera. L’ipocrisia è uno stressante sotterfugio infantile per procurarsi accettazione e possesso che, a lungo termine, non ripaga mai.
L’ipocrisia, a mio avviso, è, principalmente, l’occultamento della propria persona, la quale, invece di manifestarsi nella sua genuinità o naturalezza, così com’è, preferisce, per consolidati interessi, celarsi, particolarmente, in ideologie, strutture di potere, sistemi di vita sorpassati! L’ipocrisia è una caratteristica che nasconde, dietro sembianze amichevoli, una volontà di potenza mirata ad altro. Quest’altro può essere: il possesso di un bene, l’ottenimento di una posizione, la conquista della benevolenza. In tutti questi casi, il reale scopo non viene dichiarato primario. L’ipocrita, dunque, dissimula e camuffa le sue vere intenzioni.
Schiettezza da coltivare
Per conto mio, apprezzo molto di più una persona che sia sincera. Provo fastidio, disagio, a trattare con persone ipocrite, dal doppio gioco, che si atteggiano artatamente. Cercano di ingannarti col sorriso in bocca, magari sfoderando, all’occasione, paludamenti religiosi di alta teologia o di vibrante spiritualismo!
«Mi è odioso quanto il portone della casa di Ade chi una cosa nasconde dietro di sé e un’altra dichiara. Io invece intendo parlare chiaro: secondo me, è meglio» risponde con ira Achille a Odisseo quando il re d’Itaca prova a convincerlo a tornare a combattere dopo lo sgarbo di Agamennone[9]. Un riferimento antico per un atteggiamento mai passato di moda: quello dell’ipocrisia.
L’incontro, invece, con persone genuine (pur negli immancabili difetti di ognuno di noi) è un piacere, un sospiro di sollievo, una salutare boccata d’ossigeno. Mi invoglia a frequentarle, sicuro di parlare non con figuranti, ma con persone naturali, autentiche, «semplici come le colombe» (Mt 10,16), refrattarie ad ogni ipocrita recitazione.
Illuminanti a riguardo suonano le parole con cui papa Francesco rievoca un ricordo giovanile: “Io ricordo, quando ero studente di filosofia, un vecchio gesuita, furbacchione, buono ma un po’ furbacchione, mi consigliò: se tu vuoi sopravvivere nella vita religiosa, pensa chiaro, sempre; ma parla sempre oscuro. È un modo di ipocrisia clericale, diciamo così. No, la penso così, ma c’è il vescovo, o c’è quel vicario, c’è quell’altro … meglio stare zitti … e poi la cucino con i miei amici”[10].
Ritengo che il modello evangelico, il prototipo, che assume valore emblematico, per quanto riguarda la genuinità della persona, è Natanaele. Lo trovo limpido, trasparente, dalla franchezza simpatica, che, senza tergiversare, dice quel che pensa, privo di dissociazioni tra interno ed esterno della persona. Non vi è in lui alcuna dissimulazione della personalità tra cui rientrano le varie forme di reticenza dei subordinati nei confronti del potere, e che risulta opposta alla franchezza, cioè al “dire tutto ciò che si pensa”.
È l’uomo equilibrato, semplice, «in cui non c’è falsità» (Gv 1,47). Interessante, nell’ottica della genuinità, è pure Giovanni Battista, che dubita, sinceramente, dell’identità messianica di Gesù, vivendo ancora secondo il Vecchio Testamento. Di lui, tuttavia, Gesù dice: «fra i nati da donna non è sorto alcuno più grande» (Mt 11,11).
La teatralità ingannevole è frequente nella vita. Ma nei comportamenti religiosi si verifica e si riproduce più frequentemente e più pericolosamente. Perché nel campo della religione i «riti» sono decisivi. Perché nel comportamento religioso la cosa primaria è il «rito», non l’«éthos», l’etica, la condotta. E «un rito è una successione di azioni che, attraverso il rispetto rigoroso di regole, diventano in loro stesse un fine»[11].
Per questo, proprio per questo, la fedele osservanza religiosa può diventare – e di solito diventa – un inganno e un pericolo. Il rito, ben eseguito, tranquillizza la coscienza, ma non migliora il comportamento.
A differenza dell’inquietudine che, invece, caratterizza la vita del non ipocrita. Questi non dice quanto gli altri vogliono sentirsi dire. Con la sua libertà e con la sua coerenza mette in difficoltà chi si nutre di apparenza interessata e difficilmente crea consenso sincero intorno a sé. Il non ipocrita sente rivolte, prima di tutto a sé, le parole di Gesù, che considera l’ipocrisia come categoria (im)morale: «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che rassomigliate a sepolcri imbiancati: essi all’esterno son belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume» (Mt 23,27).
Il volto del Figlio
Alano di Lilla, un monaco cistercense vissuto agli inizi del XIII secolo, paragonava gli ipocriti agli struzzi: hanno il corpo grande, pieno di penne e hanno anche le ali, ma, perché appesantiti, non possono volare; così l’ipocrita che, a suo dire, sembra avere tante virtù sì da rassomigliare ai santi, ma non sa volare verso Dio[12]. Molto sinteticamente, l’ipocrita usa le parole dei santi, ma non ne ha la vita; il suo impegno non è offrirsi a Dio, ma esporsi alla vista degli uomini[13].
Il ministero sacro è l’opposto dell’ipocrisia. Il compito di un buon attore è di rappresentare bene il personaggio che raffigura; tanto più bravo, anzi, egli è, quanto meglio sa farlo nascondendo se stesso. Il cristiano, al contrario, non trasforma mai la sua fede in una recita, ma si impegna a renderla vita reale.
I ministri ordinati sono chiamato a mostrare il volto di Cristo: è questo il significato dell’agere in persona Christi. Questo non è la maschera da indossare in qualche momento della loro vita, un trucco che dura per il tempo di un rito liturgico. Piuttosto, la verità della loro vita ogni giorno.
[1] Cf. H. Giesen, Christliches Handeln. Eine redaktionskritische Untersuchung zum “diakonische” Begriff in Mattheusevangelium – EHS XXIII – 181, Frankfurt am M, 1982, 216-219).
[2] Francesco, udienza del 25 agosto 2021.
[3] Cf. M. Landi, “Tutto al suo conto”. Don Lorenzo Milani con Dio e con l’uomo, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2023, p. 47.
[4] Cf. L. Milani, Tutte le opere, Mondadori, Milano 2017, pp. 683-695.
[5] Cf. C. Mandia, L’ipocrisia. Il fariseismo ieri e oggi, Moralcchi Editore U. P., 2019, p. 10.
[6] Dante, Inferno, XI, 58-60.
[7] Benedetto XVI, Luce del mondo, LEV, Città del Vaticano, 2010, p. 162.
[8] Francesco, Dio è giovane, Piemme, Milano, 2018, pp. 78-79, 107-108.
[9] Cf. Omero, Iliade, IX, 312-313.
[10] Francesco, Incontro con i sacerdoti, religiosi, seminaristi del seminario regionale e diaconi permanenti, Bologna 1° ottobre 2017.
[11] G. Theissen, La religione dei primi cristiani, Claudiana, Torino 2004, p. 162.
[12] Cf. Distinct. Dict. Theol. H: PL 210, 810.
[13] Cf. Isidoro di Siviglia, Sententiae XXIV, 1-2: PL 83, 699.