La parola “studio” viene dal latino studium, che significa «desiderio, amore di qualcosa, ardore, propensione, gusto, passione, zelo, voglia, cura, occupazione prediletta, applicazione assidua»[1].
Plauto, nella commedia Stico, usa l’espressione «studio maxumo»[2], che viene tradotta con «sommo interesse»; Ovidio nelle Metamorfosi impiega il termine nella proposizione «studio minuente laborem»[3], traducibile con «mentre la curiosità alleggeriva la fatica»; ancora, Sallustio nella Congiura di Catilina scrive «sed ego adulescentulus initio, sicuti plerique, studio ad rem publicam latus sum»[4]: «quando ero giovane, come molti, la passione (passione politica) mi spinse alla vita pubblica».
Per trovare un utilizzo del lemma più vicino al significato che oggi riconosciamo dobbiamo attendere il XVI secolo e l’opera formativa della Compagnia di Gesù. È del 1548 lo scritto De studiis Societatis Iesu del p. Girolamo Nadal, seguito a un decennio di distanza dal De Ratione et Ordine Studiorum Collegii Romani del p. Diego Ledesma (1558)[5] e infine, nel 1598 compare il volume (edito a Napoli nel 1599) intitolato Ratio atque institutio studiorum Societatis Iesu, ad opera del gruppo di accademici del Collegio Romano. Qui gli studi già ci riportano all’idea dell’organizzazione delle discipline, alla logica – la ratio – attraverso cui presentarle[6].
È sufficiente arretrare di tre secoli per ritrovare ancora una prevalenza del significato originario. In Tommaso d’Aquino studium significa soprattutto impegno, determinazione nell’applicarsi a qualcosa[7]: è conservato il senso più antico del rivolgersi a qualcosa di interessante, a qualcosa che attrae, ma in più si affaccia l’idea che concentrarsi richieda risolutezza, resistenza, capacità di sostenere la fatica.
Questa doppia declinazione dello studium, come interesse ben indirizzato e determinazione nell’affrontare gli ostacoli, la possiamo incontrare esplicitata in una piccola virtù descritta da Tommaso, la studiositas[8], che ben si presta a riordinare alcune osservazioni di carattere antropologico.
Secondo Tommaso, «lo studio implica soprattutto forte applicazione della mente a qualcosa. Quindi lo studio riguarda anzitutto la cognizione. E in secondo luogo, tutte le altre attività nelle quali abbiamo bisogno di essere diretti dalla cognizione»[9].
Nella traduzione è possibile traslitterare il termine cognitio, usato da Tommaso, anziché renderlo con conoscenza: lo studio riguarda la cognizione, nel senso che nasce proprio dall’essere colpiti da qualcosa, dall’essere incuriositi, attratti. Questo, per Tommaso, è il potere della realtà in cui siamo immersi: catturare la nostra attenzione. Quindi l’idea che lo studium implichi una forte applicazione non dovremmo recepirla – non almeno in prima battuta – in senso deontologico, intendendo che per progredire nel conoscere occorre applicarsi. Non sembrerebbe essere questo il senso più originario. Piuttosto si potrebbe dire che studium presuppone grande interesse, forte attrazione, richiamo alla concentrazione: la mente si applica a qualcosa che la colpisce a tal punto da occupare tutto l’orizzonte.
Il desiderio naturale di conoscere
La studiosità si riferisce allora – è Tommaso stesso a dircelo – a questa grande e, al tempo stesso, ordinaria esperienza dell’essere catturati dalla realtà, rapiti da quel che incontriamo. Al punto che sorge spontanea la spinta ad immergersi ancora di più, ad approfondire, ad esplorare ulteriormente, a guadagnare maggiore dettaglio.
Desideriamo comprendere meglio quel che ci ha sollecitati, proprio nel senso radicale del cumpr(ĕh)endere, dell’appropriarsi, del prendere con sé, accogliendo i nuovi elementi in un patrimonio organico di conoscenza.
Tenendo presente questo orizzonte, è possibile anche apprezzare quel che Tommaso annota in seguito a proposito della studiosità. Troviamo queste parole, a prima vista sorprendenti: «L’uomo con la sua anima desidera naturalmente di conoscere, secondo l’affermazione del Filosofo: “Tutti gli uomini per natura desiderano conoscere”[10]. Ebbene, la moderazione di questo desiderio appartiene alla virtù della studiosità»[11].
Tommaso d’Aquino ha individuato, con innegabili vantaggi, una virtù morale specifica dell’intelligenza, che, da una parte, tempera il naturale desiderio di conoscere, e, dall’altra, sostiene la mente nell’inevitabile ascesi dello studio, e l’ha chiamata studiositas.
È la studiositas una virtù sicuramente poco nota, eppure assai importante in un mondo sempre più scolarizzato ed evoluto, dove l’affrancazione dalla fatica materiale permette a molti di dedicarsi allo studio, nella prospettiva della carriera accademica, o per essere all’altezza delle nuove esigenti offerte di lavoro, oppure semplicemente per soddisfare e coltivare i propri interessi culturali crescenti e variegati.
Il desiderio di conoscere è un desiderio naturale che risulta perfettamente analogo al desiderio del cibo o della sessualità, perciò anch’esso esige un controllo e una guida di ordine razionale.
La studiositas, virtù che modera il desiderio di conoscere, è una parte potenziale della temperanza, quale virtù secondaria annessa alla principale. La moderazione vuol essere più un impegno severo a scegliere come e cosa studiare, piuttosto che una limitazione di ardire e di tenacia. In realtà, la virtù dello studio non deve portarci solo a fuggire l’intemperanza di coloro che pretendono di conoscere oltre i limiti dell’umano e dell’onesto, ma pure ad affrontare con seria determinazione la fatica intellettuale.
È interessante l’idea che la studiosità sia l’habitus che modera il desiderio di conoscere e che faccia parte della rosa di declinazioni di quella grande virtù cardinale che è la temperanza. Tommaso suggerisce in un certo senso che l’essere studiosi rappresenta la maturità dell’esercizio intellettuale. La studiosità esprime una disposizione alla ricerca temperata – cioè raffinata, resa resistente alla pressione, proprio come il vetro temperato – e dunque la capacità di non disperdersi, di non subire caoticamente il fascino della realtà che si offre alla conoscenza.
In senso più ampio, si potrebbe dire che è la virtù che consente di vivere in modo maturo quell’esperienza costante e quotidiana dell’essere catturati dalle cose, dalle realtà affascinanti che si propongono e a cui ciascuno decide di dedicare attenzione (talvolta, anche, facendole diventare il fulcro della propria formazione professionale).
Nella conoscenza, perciò, si possono distinguere due tipi di bontà. La prima riguarda l’atto stesso della conoscenza. E tale bontà è propria delle virtù intellettuali: che cioè su ogni cosa si sappia la verità. L’altro tipo di bontà riguarda invece l’atto delle potenze appetitive: che cioè si abbia la volontà retta di applicare le facoltà conoscitive in un modo o in un altro, a una cosa o a un’altra. E ciò spetta alla virtù della studiositas.
Per acquisire e poi praticare la virtù della studiositas, è necessaria l’umiltà. I segni dell’umiltà, quando essa è presente, sono: primo, che uno non disprezzi nessuna dottrina; secondo, che non si eviti ciò che fa arrossire come sarebbe per l’episcopo di tanti anni essere ammaestrato da un collega ordinato non ancora da un anno; terzo, che chi non sa non si vergogni di ammettere di non sapere; quarto, che nel parlare non si disprezzi ciò che contiene la Scrittura[12].
Qualunque sia il campo degli interessi di chi studia, dovrà inevitabilmente confrontarsi con tutti coloro che lo hanno preceduto, o che attualmente svolgono analoghi studi, e tutti deve tendenzialmente considerare come suoi maestri.
Dice Sertillanges: “Con il pensiero noi troviamo qualche cosa, non la facciamo; rifiutare di sottomettersi significa non incontrare, e non sottomettersi in anticipo significa eludere l’incontro. Il nostro intelletto è al totale una potenza passiva; si è forti intellettualmente nella misura in cui si è recettivi”[13]. Ogni studioso, dunque, non è un’isola, nessuno può sentirsi in assoluto un maestro, un iniziatore.
Studiosità e curiosità
Nella studiositas sono presenti due aspetti, quello di porre un freno al desiderio smodato di conoscere proprio dell’anima e quello che consiste in una certa applicazione per acquistare il sapere, per contrastare la tendenza a evitare la fatica negli studi, propria del corpo. Per questo il vizio specifico della studiositas è la curiosità che si ha quando il desiderio di conoscere è disordinato.
Essendo la virtù morale della studiositas un giusto mezzo tra due possibili comportamenti viziosi, oltre alla curiosità che è il vizio per eccesso, si configura pure il vizio per difetto che è la negligenza (s’intende negli studi), e questa può assumere in alcuni casi forme anche gravi.
Non si può negare che desta una certa difficoltà stabilire un limite tra la studiositas e la curiosità, se si considera che nessun progresso possa attendersi nello studio delle varie discipline, qualora manchi una certa dose di curiosità che spinge ad approfondire la conoscenza.
Possiamo segnalare però cinque atteggiamenti che connotano la curiosità e non la studiosità. Il caso più grave che si possa configurare circa la curiosità sta nel ricercare nello studio un fine disonesto. Fine illecito persegue anche chi mira alla conoscenza della verità per inorgoglirsene, caso questo più frequente di quanto si voglia ammettere.
Al secondo posto sta la curiosità consistente nel ricercare la conoscenza per vie illecite e superstiziose. Si parla di curiosità superstiziosa quando si cerca di investigare l’occulto attraverso individui e mezzi non leciti, come chi pratica lo spiritismo, l’occultismo, il satanismo.
Il terzo modo di manifestarsi della curiosità, almeno ordinariamente meno grave, consiste nel trascurare gli studi utili e necessari per quelli meno utili o leggeri.
Il quarto atteggiamento è la mancanza di sobrietà nel sapere. Si cade nel vizio di curiosità quando tutto si vuole sapere. All’amor del sapere la modestia cristiana domanda sobrietà. I mistici parlano di “golosità spirituale”, malattia specialmente dei principianti, impazienti di gustare tutte le dolcezze e tutti i trasporti che Dio concede ai suoi santi. Allo stesso modo vi è una “golosità intellettuale”, quella di colui che tutto vuole sapere. Come dice Heidegger: la curiosità è il sapere per aver saputo: “se non lo sai: te lo dico io!”. È il sapere per far sapere che uno lo sapeva già.
Oggi poi attraverso il ricorso smodato ai social tutti devono sapere i fatti di tutti e occuparsi delle vicende di tutti. Come al solito, la modernità con la sua sbalorditiva incoerenza derivante dal ripudio di ogni logica riesce ad abbinare tutto ciò ad un altrettanto radicale individualismo in quanto tutti devono, sì, partecipare a tutto, ma alla fin fine nessuno si trova responsabile di nulla scomparendo nell’anonimità della massa.
Sono da condannarsi entrambi gli eccessi e, per rendersi conto di quanto dannosa sia per una comunità (religiosa, ma anche «laica») l’ergersi a inquisitores vitae alterius, basta rileggere le deliziose pagine dell’Imitazione di Cristo dedicate a questo tema.
Tommaso precisa con il suo consueto sapiente equilibrio la moralità del «badare a fatti altrui» e le sue distinzioni, senza perdere nulla della loro validità, hanno guadagnato, con i tempi che corrono, molta attualità. Prospicere facta aliorum vel inquirere può dunque essere lecito se avviene con animo buono e per qualche propria utilità spirituale, affinché l’uomo, ammirando le virtù altrui, si senta spronato a imitarle o, vedendo negli altri dei difetti, sia incoraggiato a correggerli caritatevolmente con la dovuta discrezione o per dovere di semplice fraternità o per dovere di ufficio.
Non è invece per nulla lecito intendere ad consideranda vitia proximorum (si noti come l’attenzione diventa malvagia concentrandosi primariamente sui difetti altrui), per disprezzare, calunniare o anche solo inutilmente curiosare.
La smania del conoscere si può altresì presentare come un’azione in profondità, volta a scendere negli abissi inaccessibili alla limitata conoscenza umana, oppure come sforzo della mente di portarsi nei campi più disparati dello scibile, realizzandosi in questo caso la cosiddetta “tentazione del vagabondo intellettuale”.
La conseguenza è l’imprecisione o instabilità intellettuale che, forse, riescono a fare un saccente, ma che non possono soddisfare un’autentica vocazione intellettuale. Si cade nel vizio della curiosità anche quando, con riferimento al singolo individuo, questi vuole sapere più di quanto le attuali capacità gli consentono. Per cui nella Scrittura è detto: “Non cercare le cose troppo difficili per te, non indagare le cose per te troppo grandi. Bada a quello che ti è stato comandato, poiché tu non devi occuparti delle cose misteriose. Molti ha fatto smarrire la loro presunzione, una misera illusione ha fuorviato i loro pensieri” (Sir 3,21-22. 24).
La quinta modalità del vizio della curiosità consiste nel desiderio di conoscere le creature, senza indirizzare questa conoscenza al debito fine, cioè alla conoscenza di Dio.
La radice della curiosità è l’accidia che, come vizio capitale, genera tanti altri vizi, tra i quali in particolare la tendenza della mente a divagare, per sottrarsi alla tristezza incombente, in qualcosa di illecito (evagatio mentis circa illicita).
Tale tendenza, se risiede nella stessa mente invogliata di disperdersi inopportunamente in cose diverse, si chiama importunità della mente, se concerne la conoscenza, dicesi appunto curiosità, se spetta alla parola, è verbosità, se consiste in continui spostamenti del corpo che con i suoi movimenti disordinati esprime il divagare della mente, ha il nome di inquietudine del corpo, infine instabilità si dice esteriormente la tendenza a cambiare facilmente il posto di residenza (amore disordinato dei viaggi) e interiormente la facile mutabilità dei proponimenti. Alla luce della sua viziosa radice e dei vizi suoi affini, la curiosità appare dunque come una certa divagazione della conoscenza dettata dalla tristezza alla quale ci si vorrebbe sottrarre[14].
Concentrazione versus dispersione
Gli stimoli che riceviamo sono così tanti e così avvincenti, che il rischio che ciascuno corre è appunto quello della dispersione, il rischio di essere sopraffatti dagli spunti. Lasciandosi inebriare dal continuo proporsi di cose nuove e interessanti, si finisce per rimanere alla superficie delle cose, senza darsi il tempo di scendere in profondità. Più aumentano gli stimoli, più cresce il desiderio di seguire ogni pista; ma, provando a soddisfarlo, si finisce giocoforza per accontentarsi di fare pochi metri in ogni direzione.
Giunge infatti subito il momento di abbandonare la traccia per mettersi ad inseguire quel che di nuovo si è presentato all’attenzione. Il senso del caos sta tutto qui: nel raccogliere cognizioni, cioè stimoli e provocazioni, senza riuscire effettivamente ad approfondire, finendo per avere sulla propria scrivania, sul proprio desktop o nella propria stessa vita una quantità soffocante di percorsi interrotti, di pensieri sospesi, di pratiche abbandonate dopo pochi passi.
È curioso come questo genere di annotazioni che arrivano dal XIII secolo intercettino una problematica che forse solo oggi viviamo nel modo più radicale. La nostra attenzione è catturata non solo da quel che ci colpisce nel mondo reale, ma anche dai messaggi, dai tweet e dai post che una rete sempre più estesa di soci – gli abitanti del social – deposita nella nostra bacheca. Come evitare di lasciarsi travolgere dalla mole di cognitiones, di stimoli che chiedono attenzione? Diventando studiosi, si potrebbe dire appoggiandosi a Tommaso. Diventando capaci di non inseguire ogni traccia, ma di selezionarne alcune per realizzare immersioni di profondità.
Nella Summa Theologiae troviamo queste indicazioni: «Rispetto alla cognizione ci sono nell’uomo due tendenze contrastanti. Poiché da parte dell’anima l’uomo è inclinato a desiderare la cognizione delle cose: e da questo lato deve tenere a freno tale desiderio, per non cercare in modo caotico [immoderate] la cognizione delle cose»[15].
L’esigenza di selezionare le notizie, o di scegliere a quale ramo del sapere o del produrre a cui dedicare le proprie energie, è tuttavia solo una delle tante rifrazioni del più radicale bisogno umano di rinvenire un orientamento complessivo per il vivere, di scorgere un tracciato di senso a cui essere fedeli. La dispersione non è semplicemente un fenomeno intellettuale ma rappresenta una possibilità esistenziale, una modalità di vita. Analogamente, la concentrazione – che si oppone alla dispersione – è indubbiamente sinonimo di attenzione, di resistenza alle distrazioni, ma insieme esprime a sua volta un’attitudine che può caratterizzare la persona nella sua globalità.
La concentrazione potremmo intenderla come la caratteristica dell’anima che ha trovato il proprio centro e che, in forza di questo centro, apprezza e filtra le novità e le opportunità che si profilano all’orizzonte. La studiositas sostiene questa capacità selettiva ad ampio spettro e, in un certo modo, aiuta a ricondurre il nuovo che si propone verso un centro, verso un punto di convergenza, di unificazione. Non è, in questo senso, una capacità per la sola vita intellettuale: varrebbe intenderla come una capacità esistenziale, trasversale, a tutto campo.
Se la studiosità possiamo intenderla come la capacità di interagire con criterio con la realtà che sollecita, senza correre caoticamente di qua e di là, allora potremmo anche dire che è la virtù di ogni persona che abbia trovato un baricentro nella vita, un buon punto di riferimento a cui rivolgersi per trovare equilibrio e «criteri per la vita-tutta-intera», per prendere decisioni e sostenere delle rinunce senza patirle come un impoverimento.
Assecondando questa rilettura, che suggerisce di proiettare la piccola virtù su un piano esistenziale più ampio rispetto a quello delle dinamiche tipiche dell’apprendimento, si possono forse sviluppare alcune considerazioni ulteriori.
L’idea che si profila in prospettiva antropologica è che la persona concentrata – sostenuta dalla studiosità – non sia tanto quella rapita da un obiettivo o da un tema quanto quella che, passo dopo passo, avanza in direzione di una sempre più solida unificazione interiore, la persona che – per dirla con la terminologia aristotelica impiegata da Tommaso – ha trovato la traccia del fine ultimo[16].
Concentrata è la persona che sempre più riesce a scorgere il senso unitario di ciò che sperimenta; è la persona che sa ricondurre le scelte ma anche gli eventi che la riguardano dinanzi ad un punto di riferimento capace di illuminarli, di integrarli nel cammino della vita, di rivelare quale sia il loro posto. L’unificazione interiore è l’opposto della dispersione dei vissuti, della loro collezione caotica, della frammentarietà del vivere.
Concentrata è perciò la persona che ha scoperto ciò che è essenziale perché la vita abbia senso e bellezza e che per questo ha fatto la pace con l’impossibilità di esplorare ogni via, che per questo non si sente impoverita nel lasciare andare possibilità, occasioni, treni…
La maturazione di un profilo di questo tipo non è naturalmente qualcosa di scontato. Il grande avversario è senz’altro la fatica che tutto questo comporta. Tommaso include peraltro nella studiosità la capacità di perseverare, di non recedere, di vincere appunto la fatica: in quest’ultima la studiosità trova «una difficoltà da superare»[17].
La fatica indubbiamente segna e insieme qualifica lo studio e, si potrebbe dire, segna e qualifica anche la stagione di vita che per lo più vi è dedicata. Ma proprio il tempo dello studio finalizzato e della formazione specifica risulta esistenzialmente rilevante anche perché consente di familiarizzare con le manovre fondamentali del vivere ordinario: selezione degli stimoli da cui lasciarsi catturare, crescita nella concentrazione, disponibilità alla fatica.
Queste manovre ciascuno le impara proprio iniziando a compiere delle scelte di orientamento, iniziando ad investire in modo coordinato e unitario le proprie risorse e il proprio tempo. Tutto questo lo si può considerare (anche) come uno straordinario tirocinio in preparazione a quel lavoro di integrazione dell’esperienza e di orientamento globale della vita che attende ogni persona, specialmente dopo il tempo della formazione.
La studiosità – come tutti gli habitus riferibili alla rosa delle virtù cardinali –, se adeguatamente coltivata, non rappresenta un’abilità limitata a settori particolari dell’esperienza né ad una stagione specifica, ma appunto costituisce una risorsa per la vita-tutta-intera.
La virtù della studiosità rappresenta un sostegno per la maturazione globale della persona, sempre che sia coltivata riconoscendole l’ampio respiro che evoca e che merita.
È in questa prospettiva che, semplicemente a livello di suggestioni di chiusura, ci si potrebbe interrogare anche su studiositas e studi universitari. Gli studi universitari si iscrivono nel movimento della ricerca della verità. Verità delle cose, incontro con la realtà che cattura con la sua complessità e che invita a scomporre e ricomporre per comprendere.
Ma anche ricerca della verità di se stessi: il vivere stesso aumenta via via in complessità, si espandono gli orizzonti relazionali, si sperimentano magari anche fratture, scomposizioni che chiedono nuova concentrazione, una sempre maggiore capacità di reintegrazione dei vissuti in una unità di senso. Si scorge il più delle volte in questo modo che la veritas non è solo una questione di adaequatio rei et intellectus, ma anche di significato dell’esistenza umana, e che entrambe rappresentano l’anima dello studium.
Studiosità come compassione intellettuale
In un mondo spesso tentato dal pessimismo intellettuale, dal dubbio sulla possibilità di raggiungere la verità, o da un fondamentalismo violento, la virtù della studiosità si rivela essere – secondo la felice intuizione di san Domenico – un esercizio di misericordia veritatis. Tale esercizio è possibile perché basato sulla fiducia che ci sia in ciascun uomo una propensio ad veritatem.
Da questa prospettiva ne scaturisce una spiritualità dello studio, con due aspetti. Il primo è la carità dello studio, per cui lo studio non può essere ricercato per se stesso ma deve sempre essere finalizzato ad un qualche bene del prossimo (salus animarum); il secondo è la ricerca di una continua osmosi tra preghiera e studio. È proprio la preghiera che tiene lontano l’uomo dai pericoli dello studio disordinato, e primo tra tutti quello della superbia.
Quando lo studio è rettamente inteso, non è che un modo per incontrare il Signore, cioè una forma anch’esso di preghiera. Lo studio, soprattutto quello delle cose di Dio, ma anche ogni altro studio, alimenta la preghiera, gli dà sostanza, corposità; a sua volta, la preghiera aiuta lo studio a spiritualizzarsi, preservandolo dall’aridità.
Nonostante tutto ciò, è innegabile che esista il problema di conciliare studio e orazione, perché nell’esperienza concreta si avverte un certo dualismo. La causa più profonda del dissidio tra vita contemplativa e studio va individuata nella rottura dell’unità interiore dell’uomo, conseguente alla prima caduta.
L’armonica collaborazione tra le potenze inferiori e quelle superiori fu infranta: la fantasia si è sottratta al dominio della ragione; perciò anche l’intelligenza è spesso soggetta al gioco dei fantasmi, e, quello che è peggio, è stato rotto l’equilibrio e la reciproca collaborazione tra intelletto e volontà, tra facoltà apprensive e facoltà affettive, tra conoscenza e amore. L’uomo, il cristiano, il figlio di Dio non sarà perfetto che quando l’armonia primitiva tra questi due principi di vita e di sviluppo sarà stata completamente restaurata[18].
Mentre lo studio coinvolge prevalentemente le facoltà razionali, la preghiera, pur avendo anche una sua dimensione intellettiva, è soprattutto effusione di cuore, e il cuore, se ci dedichiamo a un’intensa e prolungata attività cerebrale, tende fatalmente a inaridirsi.
Spesso noi avvertiamo l’intelligenza come qualcosa di assolutamente nostro, dimenticandoci che da Dio proviene e a Dio deve essere indirizzata. Il primo e più importante consiglio di carattere spirituale che si può dare è, dunque, quello di sforzarsi di dare un orientamento teocentrico all’intelligenza. Ciò si può fare cogliendo il necessario nesso oggettivo che corre tra ogni verità e Dio[19].
E’ evidente come un orientamento teocentrico dell’intelligenza fa perdere allo studio quell’aspetto di freddezza, avvicinandolo così alla preghiera, dandogli come la connotazione della preghiera, riducendo in questo modo la difficoltà del passaggio dall’una all’altra espressione umana.
Inoltre, armonizzando studio e preghiera, ogni senso di sufficienza razionale sparisce, e il bisogno del soccorso divino viene sentito necessario, non solo come generico sostegno alla debole capacità intellettiva (come già per gli studi profani), ma proprio a sua essenziale integrazione.
Per il presbitero il dovere dello studio è sorretto da un ideale e da uno spirito: fa parte della propria risposta ai doni di Dio, del suo impegno di adesione al Verbo divino, del quale troviamo traccia in tutto creato e nel cuore stesso della persona. Il presbitero, attraverso lo studio, sente la responsabilità di capire l’uomo di oggi, di entrare in comunione con lui e di trasmettere efficacemente i tesori di fede, del vivere cristiano e della grazia.
Perciò, nel processo unitario della formazione integrale del presbitero, il momento dell’educazione intellettuale rappresenta una funzione insostituibile: quella di stimolare la capacità di apprendere, valutare e conoscere gli elementi fondamentali della realtà per svolgere sempre in modo adeguato il ministero.
[1] G. Fioravanti, La pedagogia dello studio. Considerazioni e spunti per una pedagogia del desiderio, Roma-L’Aquila
20042, p. 27.
[2] Plauto, Stico, atto I, v. 199.
[3] Ovidio, Metamorfosi, IV, v. 295.
[4] Sallustio, La congiura di Catilina, v. 3.
[5] Cf. M. Coll s.j., L’ordinamento degli studi prima della Ratio Studiorum (1551-1586), in “La Gregoriana” n. 43, 2012, pp. 30-31.
[6] Cf. G. Grandi, A proposito della “studiosità”. Piccola virtù a sostegno della vita-tutta-intera, in G. Piaia – G. Zago (a cura di), Pensiero e formazione. Studi in onore di Giuseppe Micheli, Cleup, Padova, 2016, pp. 379-387.
[7] Ricorre, ad esempio, l’espressione «adhibere studium» (Cf. ad es. ST II-II, q. 53 a. 1 co. q. 55 a. 2 co. q. 55 a. 3 co.) con il senso di impegnarsi, industriarsi. In generale si propone sempre l’idea del prestare attenzione.
[8] Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae (ST), II-II, q. 166.
[9] ST, II-II, q. 166 a 1, Co.
[10] Cf. Aristotele, Metafisica, Libro I (A), 1, 980 a 20-27 (tr. it.: Opere, Vol. VI, Laterza, Roma-Bari 1982, p. 3).
[11] ST, II-II, q. 166 a. 2, Co.
[12] Cf. SANCTI ANTONINI, Summa Theologiae, Verona 1740, ristampa fotolitografica Akademische Druck-U. Verlagsanstal, Graz 1959, IV, III, XI. col. 168d.
[13] A.D. SERTILLANGES, La vita intellettuale, Studium, Roma, 1953, 3° ed., trad. it. Maria Pia Flick, pp. 118-119.
[14] Cf. Tommaso d’Aquino, Summa Theologica, II-II, 35, 4 3m.
[15] ST, II-II, q. 166 a. 2, ad 3.
[16] Per una discussione della curvatura impressa da Tommaso alla nozione aristotelica, sia concesso rinviare a G. Grandi,
Alter-nativi. Prospettive sul dialogo interiore a partire dalla «moralis consideratio» di Tommaso d’Aquino, Edizioni Meudon, Trieste 2015, pp. 91-116.
[17] ST, II-II, q. 166 a. 2, ad 3.
[18] Cf. R. VOILLAUME, Come loro nel cuore delle masse. Vita e spiritualità dei Piccoli fratelli di Gesù, S. Paolo,
Roma, 1959, 4a ed. trad. it. Vanna Casara, pp. 291-292.
[19] “La Verità divina è la sorgente di ogni verità. Tutto ciò che è vero viene da Dio e può, in certo modo, ricondurci a Lui. A tal riguardo la spiritualità cristiana si è divisa in due tendenze: quella che, in modo soggettivo e restrittivo, ha interpretato il principio di non cercare altra verità se non quella che conduce alla contemplazione di Dio; e quella di s. Tommaso, che l’ha inteso nel modo più ampio possibile. Più si conosce la Verità divina e più si riesce a vederla riflessa in tutte le verità umane. Non c’è, d’altra parte, conoscenza che, approfondita e universalizzata, non possa servire alla conoscenza di Dio, come non c’è conoscenza, che non possegga, per la sua stessa virtualità, un valore, una specie di solidarietà con Dio stesso” (M G. NICOLAS, Sainteté et Verité, in “Cahiers Saint Dominique”, n. 11, 1959, p. 62).