Con una santa messa solenne, celebrata nella Frauenkirche, il 12 giugno scorso, e presieduta dal vescovo ausiliare Ruppert Graf zu Stolberg, l’arcidiocesi di Monaco di Baviera e Freising ha festeggiato la prima giornata memoriale dei beati martiri di Dachau.
In questa località, situata a circa una quindicina di chilometri a Nord Ovest di Monaco, i nazionalsocialisti, dopo la loro presa del potere, nel 1933, avevano creato il primo campo di concentramento che divenne poi il modello di tutti gli altri. Tra il 1933 e il 1945, secondo i dati ufficiali, furono internate qui più di 200 mila persone, soprattutto avversari politici dei nazisti, zingari sinti e rom, come pure docenti universitari, omosessuali, religiosi e religiose oltre che ebrei della Baviera.
Il numero delle vittime è calcolato a oltre 30.000 accertate.
A partire dal 1940, con il crescere della persecuzione contro la Chiesa, furono deportati in questo lager anche sacerdoti, frati, monache e laici cattolici impegnati, con una massiccia presenza di preti polacchi. Su 2.720 ministri del culto registrati come prigionieri, la stragrande maggioranza, 2.579 (94.88%) erano cattolici. Tra le altre confessioni cristiane figurano anche 109 evangelici, 22 greco-ortodossi, 8 vetero cattolici e 2 musulmani. Più della metà non sopravvisse.
Il Martirologio romano ha iscritto i nomi di 200 prigionieri considerati martiri, di cui 56 – sacerdoti, religiosi e laici – sono stati beatificati. Tra di essi anche “l’Angelo di Dachau”, come era chiamato dagli altri prigionieri del lager, padre Engelmar Unzeitig, missionario di Marianhill, beatificato il 24 agosto 2016. Nella sentenza di condanna a morte c’era scritto: “difensore degli ebrei”.
Padre Engelmar era originario di Greifendorf, nell’odierna Repubblica Ceca, dove era nato nel 1911. Ordinato sacerdote nel 1939, a 28 anni, desiderava andare missionario in terre lontane. Aveva scelto come motto del suo sacerdozio: “Se nessun altro vuole andare, andrò io!”.
Svolge il suo primo ministero in Austria. Incurante dei rischi, denuncia nelle sue omelie il regime nazista e invita i cattolici a restare fedeli a Dio e a resistere alle menzogne del Terzo Reich.
Nel 1941 viene arrestato e deportato a Dachau, dove saranno uccisi oltre 1.000 sacerdoti e religiosi cattolici, ma anche pastori protestanti e preti ortodossi. Nel lager, p. Elgelmar si prende cura dei prigionieri, in particolare dei russi, impara la loro lingua e li assiste materialmente e spiritualmente. Scoppiato il tifo, i malati vengono abbandonati in una baracca dove nessuno pensa di andare: ci va lui, li aiuta come può e alla fine viene contagiato e muore senza ricevere nessuna cura del caso. È il 22 marzo 1945. Il giorno prima aveva compiuto 34 anni. È stato sacerdote solo sei anni, 4 dei quali passati nel lager nazista.
In una lettera aveva scritto: «Qualunque cosa facciamo, qualunque cosa vogliamo, è sempre e solo la grazia che ci guida e ci porta. La grazia di Dio onnipotente ci aiuta a superare ogni ostacolo. L’amore raddoppia le nostre forze, ci rende ricchi di fantasia, contenti e liberi. Se solo la gente sapesse che cosa Dio ha in serbo per quelli che lo amano!».
Il card. Angelo Amato, che l’ha proclamato “beato” il 24 Settembre 2016, nella cattedrale di Würzburg, intervistato da Sergio Centofanti per la Radio Vaticana, ha così affermato: «Padre Unzeitig appare come una scintilla di autentica umanità nella notte buia del terrore nazista. Egli mostra che nessuno può estirpare la bontà dal cuore dell’uomo… Amando Dio con cuore totalizzante, era misericordioso e caritatevole con coloro che, come lui, soffrivano per gli stenti e le umiliazioni della prigionia.
Per dare consolazione ai prigionieri russi tradusse gran parte del Nuovo Testamento in russo per riaccendere la loro fede. Con la sua presenza affabile e piena di bontà dava speranza ai prigionieri oppressi e disperati del lager. Assisteva gli ammalati gravi accompagnandoli con affetto materno fino alla fine. Con lui la morte diventava un passaggio sereno verso l’eternità. Il supremo gesto d’amore fu la volontaria offerta di assistere e curare i malati di tifo a Dachau».
Nonostante l’esperienza disumana del lager. Si mantenne paziente e ilare, cercando di tenere alto nei prigionieri il sentimento di dignità e di umanità. La sua condizione era da lui considerata come uno status onorifico, un privilegio per testimoniare l’amore di Cristo. La sua forza d’animo suscitava ammirazione e dava a tutti il respiro per continuare a sopportare una situazione senza speranza. “Era l’amore fatto persona”, ha detto di lui padre Adalberto Balling. Altri lo chiamano il nostro beato, il martire della carità, il Massimilano Kolbe dei tedeschi».
Papa Francesco, all’Angelus della domenica 25 settembre, giorno dopo la sua beatificazione, ha detto di lui: «Ucciso in odio alla fede nel campo di sterminio di Dachau, egli all’odio contrappose l’amore, alla ferocia rispose con la mitezza. Il suo esempio ci aiuti a essere testimoni di carità e di speranza anche in mezzo alle tribolazioni».