Leggendo vari articoli, ho trovato molte volte un’equazione di questo tipo per “risolvere”, a livello concettuale, il problema delle vocazioni nella Chiesa: non ci sono più vocazioni al ministero ordinato, perché è in atto una grande crisi di fede nelle giovani generazioni. Non ci sono più giovani in grado di scegliere la strada della vita ministeriale, perché molte volte questi stessi giovani sono attratti da altre vie e strade che non poche volte distolgono il loro cuore e la loro mente dal desiderio di donare tutta la loro esistenza alla cura e all’edificazione della Chiesa.
Questa equazione – crisi di fede = crisi delle vocazioni –, se la confronto con la mia piccola esperienza – sia di condivisione franca con alcuni amici presbiteri sia nel mio lavoro quotidiano di educatore – vedo che è una soluzione “semplice” di un problema che, a mio modo di vedere, è da decenni che la Chiesa cattolica non ha il coraggio di affrontare e di prendere in mano sul serio.
Da un lato, certamente, sussiste il “problema” legato alla scelta (obbligo!) della vita celibataria che, sebbene la Chiesa cattolica non lo ritenga un “dogma” nel senso pieno del termine, nella prassi viene vissuto e imposto in forma dogmatistica (o senti dentro di te che Dio ti chiama ad essere celibe, e ne accetti le conseguenze, oppure io – Chiesa cattolica – non posso ordinarti!). Dall’altro lato, sussiste un ulteriore problema che intendiamo esprimere in questo modo: il ministero ordinato, volenti o nolenti, diventa e deve essere – per il soggetto che chiede l’ordinazione ministeriale – il tutto della sua vita. Tutta l’esistenza del ministro ordinato, in effetti, si gioca e deve tutta giocarsi in una vita pastorale che diventa ed è il “tutto”, lo “spazio” esistenziale in cui l’uomo-presbitero vive e deve giocarsi.
Ci sarebbe molto da riflettere – a mio modesto avviso – sul grande tema dell’obbedienza sia essa promessa al vescovo diocesano sia ai superiori di una congregazione religiosa.
Questa struttura ministeriale, ancora così fortemente intrisa di spirito monarchico e di tridentinismo, in cui io ministro ordinato sono chiamato costantemente a “farmi andar bene” ciò che altri hanno scelto per me, oppure a “dovermi accontentare” di un’esistenza che dev’essere tutta spesa in strutture ormai caduche o fortemente in crisi (basta pensare ad alcuni aspetti della pastorale parrocchiale…), non chiede forse il coraggio di aprire altre strade o altre vie per l’umanizzazione della vita del prete?
Perché la Chiesa cattolica non ha il coraggio di affrontare con coraggio, verità e lealtà questi nodi problematici?
Perché non ci si rende conto che ciò che allontana i giovani dal ministero ordinato non è la loro poca fede in Gesù Cristo, bensì la pesantezza che emana la struttura ministeriale della Chiesa?
Non c’è forse qualche differenza tra lo spirito evangelico (l’Evangelo di Gesù Cristo) e le strutture che dovrebbero essere al suo servizio?
La Chiesa non dovrebbe ascoltare maggiormente quei giovani presbiteri che, dopo qualche passaggio doloroso e di crisi, hanno scelto di abbandonare la via del ministero ordinato?
Non possiamo accontentarci, e credo proprio in nome dell’Evangelo di Cristo, di criticare semplicemente questi figli di Dio e della Chiesa bollandoli come degli infedeli o dei traditori, ma ne dobbiamo ascoltare le storie e la vita perché da essi la Chiesa potrebbe ancora e nuovamente trovare quelle “critiche” e quelle “criticità” che potrebbero spingerla al suo rinnovamento!
Credo che il peso della storia gloriosa di una Chiesa militante e forte si faccia ancora sentire sulle spalle della gerarchia. Il fascino di un certo potere e delle “sicurezze” che “vengono dai primi posti nei banchetti” potrebbero ancora affascinare (e, forse, affascinano davvero) alcuni a cercare nella “via della vocazione ministeriale” la strada per emergere dal nascondimento o dall’inferiorità.
Il Vangelo, però, mi sembra chieda altro… e che inviti costantemente a spogliarsi per servire, ad umanizzarsi per umanizzare, a sporcarsi nella strada per pulire e risollevare. Il ministero ordinato, così come oggi la Chiesa cattolica continua ad offrirlo ai giovani e agli uomini del nostro tempo è davvero una via umanizzante?
Perché non pensare ad un ministero ordinato più quotidiano, più incarnato nella vita ordinaria… fatta di lavoro per la sussistenza, per il bene altrui e per la vita pastorale? La forma di mantenimento economico attuale dei preti non è, in realtà, una forma di privilegio sociale? “Tanto, che lavori o meno…, lo stipendio mensile lo ricevo comunque!”. Non è così, però, nella vita ordinaria e quotidiana del popolo…
La domanda è volutamente provocatoria e, benché io sia conscio di non possedere la chiave di volta o risolutrice del problema, vorrei aprire una via per la discussione e la riflessione…
Sarebbe piacevole poter dialogare con l’autore dell’articolo che è rimasto anonimo. Allora, dov’è questo coraggio tanto desiderato nell’articolo?
Può sempre contattarlo. Saluti
Grazie. Semplicemente grazie per questo coraggio, da parte di un presbitero di 28 anni, che nn si stanca di ripetere queste stesse cose e di lottarci contro… finché ce la farà a starci dentro.