L’invito a una regola di vita per il prete torna in una pubblicazione di Mauro Maria Morfino, vescovo di Alghero-Bosa: Facciamo come il Signore. Pensare una regola di vita del presbitero (recuperabile sul sito della diocesi). Un testo assai sviluppato (un centinaio di pagine), strettamente connesso con quella corrente spirituale che da alcuni decenni fa del riferimento alla regola di vita un marchio di riconoscimento non solo per il presbitero, ma anche per il laico.
La memoria va subito alla Regola di vita del cristiano ambrosiano, lettera pastorale del card. C.M. Martini nel 1996. Diceva: ho scritto questa regola «per dirti in forma semplice e breve dove è possibile incontrare il Dio che è il nostro Tutto, il Dio della compassione e della misericordia, il Dio che si fa compagno del nostro dolore e ci aiuta a portarne il peso, dandogli un senso. Questo Dio puoi trovarlo nella Chiesa: nel suo annuncio, che è il Vangelo di Gesù e dei fatti storici indubitabili della sua vita», nei suoi sacramenti e nella compagnia di quanti credono.
Un’indicazione spirituale che ha trovato un’applicazione molto estesa per i presbiteri. L’hanno ripresa B. Mazzocato, vescovo di Treviso, nel 2008, M. Semeraro (Albano Laziale) nel 2016, F. Masseroni (Vercelli) nel 2001, L. Monari (Brescia) alla CEI nel 2006 e poi ai suoi preti nel 2012.
Il suo riferimento è più volte tornato nella ricerca sul prete che i vescovi hanno fatto fra il 2014-2015. In particolare negli scritti dei vescovi G. Sigismondi (ora assistente ACI) e F. Lambiasi (Rimini).
La corrente spirituale affonda le sue radici nella lunga storia ecclesiale, in particolare nella tradizione monastica (Regola di Benedetto) e in quella pastorale (Gregorio Magno, Regula pastoralis).
I nervi scoperti
La regola è contemporaneamente disciplina del tempo, discepolato del Signore e stile del ministero: «la regola è verificare sul volto e sul passo di Cristo, la nostra esistenza di cristiani e di servi del Vangelo. È per salvaguardare senza tentennamenti e infingimenti la salus animarum, suprema lex Ecclesiae e per vivere sapientemente e gioiosamente il ministero di grazia ricevuto con l’imposizione della mani, che si può parlare di una regola di vita e della sua attuazione» (p. 89).
La tirannia dei tempi, il venir meno del ruolo sociale del prete, la necessità di un’identità spirituale robusta convergono oggi nella rinnovata richiesta di una disciplina e di uno stile che permettano al presbitero di vivere pienamente il suo ministero.
Un ampio spazio è dato al riferimento principe, cioè alla Parola. In particolare nel commento a Mc 1,28-39 (una giornata-tipo di Gesù) e a Gv 21,15-17 (la triplice richiesta di amore di Gesù a Pietro).
Tornano spesso i punti fondanti e faticosi della vita presbiterale: dalla radicalità della scelta all’opportunità di trovare appigli e sostegni alla fedeltà nel ministero, dal ritmo fra lavoro e riposo alla gerarchia delle attività, dal rapporto fra preghiera e azione alla qualità della liturgia e dell’omiletica.
Soprattutto nella seconda parte si affrontano i «nervi scoperti», le tentazioni che mettono alla prova l’elemento unificante della vita presbiterale, cioè la carità pastorale.
A cominciare dal tempo. «Cogliamo non raramente il tempo rivestito di inimicizia nei nostri confronti o come indomabile entità. Tempo che perdiamo. Tempo che non ha più tempo per noi. E noi divorati dal tempo, orfani del tempo, vittime puntualmente alienate del tempo idolatrato» (p. 50). «Senza una disciplina del tempo, che è una vera “santificazione del tempo”, non c’è possibilità di vita spirituale cristiana» (p. 52).
Ri-umanizzare le relazioni. Il che significa essere sia vicini che distinti rispetto agli interlocutori, capaci di empatia, di reciprocità, di gratuità, di stabilità relazionale, di assertività e di tenerezza. Il diritto del presbitero a stare da solo, un sorta di jus… solo. Fare da soli, camminare da soli, pensare da soli: è ciò che smentisce il dato originario di appartenere a un corpus, di essere nel presbiterio. Non ci bastano i presbiteri, ci occorrono i presbitèri (F. Lambiasi).
La rabbia del maligno
L’autarchia dottrinale. L’ecclesiologia che innerva parole e prassi deraglia e non è più quella cattolica, non è più quella del concilio, né del magistero. «Il demonio teme poco coloro che digiunano, coloro che pregano anche di notte, coloro che sono casti, perché sa bene quanti di questi ne ha portato alla rovina. Ma coloro che sono concordi e che vivono nella casa di Dio, con un cuor solo, uniti a Dio e tra loro nell’amore, questi producono al demonio dolore, timore, rabbia» (san Bernardo).
L’autarchia liturgica. «Quando la comunità deve assistere allo smantellamento dell’altare e trovarsi imposta la celebrazione spalle al popolo mai richiesta dall’assemblea o altri arbitrari sconvolgimenti degli spazi liturgico-celebrativi, come anche la riesumazione di riti, libri liturgici, paramenti e consuetudini che la Chiesa ha sostituito; o il divieto per i fedeli di ricevere l’eucaristia nelle mani per comunicarsi obbligatoriamente in bocca, cosa che la delibera attuativa della CEI n. 56 non prevede, dov’è più rintracciabile il “grande valore pedagogico” della liturgia?» (pp. 65-66).
Il clericalismo. «È un nervo scoperto che, oltre a far male, molto scandalizza coloro che ne diventano disarmati testimoni. Il “qui comando io” – che sta a indicare che né concilio, né papa, né vescovo, né vicario generale, né vicario foraneo, né tantomeno alcun altro “semplice” confratello, può interferire sulla conduzione della mia parrocchia, del mio ministero» (p. 66).
La pastorale mercenaria. «Si privilegia una pastorale settoriale e selettiva, che dà enfasi e largo spazio alle proprie genialità, mentre mortifica e penalizza ambiti pastorali che gli competerebbero come prete, a pieno titolo con il medesimo investimento di energie» (p. 67-68). Tratti che lasciano il gusto amaro della mercificazione «si palesano anche nella resistenza a mutare luogo, campo di azione e modalità operative, tenendo in ostaggio e per lunghi anni, intere comunità» (p. 68).
Coerenza e studio
Il testo si chiude con due annotazioni.
La prima sulla coerenza fra vissuto e detto, perché la predicazione è efficace solo se c’è coerenza fra quanto si dice e quello che si vive.
La seconda riguarda lo studio. Una reazione evidente alla svalutazione dello sforzo concettuale e all’impegno della conoscenza teologica, diffusa non solo fra il clero, ma spesso anche fra il laicato. «Alla radice di questo malvezzo, probabilmente, vi è un fraintendimento di fondo, assai generalizzato: cioè il tempo dedicato allo studio, è tempo sottratto alla gente, alla pastorale, alla vita parrocchiale e associativa. Un tempo di estraniazione dalla propria vocazione di pastore, di uomo per e tra la gente». Tutt’altro. Le ore dello studio «si riverberano sulla sua identità ministeriale come addizione e non come sottrazione… È un tempo santo perché è da quelle ore “extracomunitarie” del prete che viene ri-ossigenata la comunità; è da questo spazio ad elevata identità pastorale, che i destinatari del nostro servizio ecclesiale beneficiano di diagnosi non affrettate» (pp. 82-83).