Attrazione. Che termine stupendo nella nostra lingua. Rimanda al movimento, alla possibilità di essere sospinti verso. Verso cosa? L’affetto per l’altro, la condivisione di amicizia, l’intimità emotiva, lo scambio di profondità interiori, e anche la vicinanza fisica, talvolta.
L’orientamento sessuale è questo: energia emotiva, romantica e sessuale. L’espressione più completa, e che rende meglio il suo significato, è orientamento affettivo, eteroaffettivo/omoaffettivo.
Come definirlo è indicato dall’American Psychological Association (APA), concorde il mondo scientifico, incluso il Premio Nobel per la Medicina, Kandel, e penso che nessuno possa individualmente produrre una diversa definizione, a meno che non dica in altre parole lo stesso concetto fondamentale.
È il punto di partenza ineludibile per qualunque altra considerazione sull’orientamento sessuale.
So di ripetermi rispetto ad altri scritti, anche miei, su questo argomento, ma incontrando ancora tanta sofferenza e gravi ed errate comprensioni sul tema, non mi sento in colpa a riprendere il binomio orientamento omoaffettivo e vocazione presbiterale.
Non è virtuosismo teorico, quindi, ma «onestà e chiarezza» – sono alcune parole dell’articolo dello scorso 9 novembre – verso uomini e donne, fratelli e sorelle, amici e amiche, con orientamento omoaffettivo. Credo, infatti, che ogni qual volta si leggano associati a situazioni di pericolo e corruzione, ricevano l’ennesimo ceffone.
«Il governo delle pulsioni sessuali in un presbitero con orientamento omosessuale può risultare più arduo rispetto a quello di un presbitero eterosessuale. Questo rende la custodia della castità, già impegnativa di per sé, ancora più difficile».
Fatico a cogliere quali siano le fonti di affermazioni simili, ancora diffuse evidentemente.
Proprio in quanto l’orientamento sia energia e attrazione, in se stesso non ha connotati di deficit, di mancanza, di falla di sistema e di evoluzione. La persona con orientamento omoaffettivo, per dirlo ancora più chiaramente – anche se in termini crudi di cui mi scuso – non è l’esito di una zoppia familiare o di qualche carenza intervenuta durante lo sviluppo. Pertanto la persona omoaffettiva non ha strutturalmente una maggiore disposizione a «cadere» rispetto a una eteroaffettiva, e neppure a gestire le pulsioni sessuali diversamente.
A meno che non ci sia di fondo la convinzione che tutto sommato una qualche sorta di immaturità un uomo o una donna omoaffettivo/a, la debba pur avere. E che lui o lei non possa giungere a una maturità complessiva conforme all’età e alla condizione di vita, perché rimarrà sempre un passo indietro.
Sussiste una simile convinzione di fondo? Meglio esplicitarla.
Che sotto sotto, come il fuocherello sotto la cenere, prima o poi si risvegli quel diavoletto evolutivo che ha inceppato lo sviluppo armonioso dell’omosessuale, portando scompiglio per sé e per altri, da cui chiusure, relazioni promiscue, comportamenti esibizionistici?
Si può e si deve riflettere sulla maturità, sull’equilibrio psicoaffettivo della persona, sulle motivazioni di vita, su come sostenga il sì di allora, ma la riuscita di una vocazione presbiterale e a vita religiosa, e la possibilità di una piena realizzazione umana e vocazionale non dipendono certo dall’orientamento sessuale. Questo ormai dovrebbe essere chiaro.
Sarebbe stato bello leggere i preziosi richiami e consigli dell’articolo già citato rivolti a tutti i confratelli presbiteri, ma proprio tutti: l’attenzione a non abusare del proprio ruolo e potere, ad essere disinteressati nella vicinanza, alla sobrietà nell’abbigliamento e nei beni materiali, a non sentirsi e comportarsi come il centro dell’universo, ad amare in modo libero.
Invece il titolo «preti e omosessualità», l’uso del «voi» (e noi, sottinteso), e i diversi passaggi che mettono in evidenza alcuni pericoli propri degli omosessuali, rimandano a dei limiti specifici e significativi rispetto all’accesso di un omosessuale all’ordinazione presbiterale. Peccato.
«La natura esclusiva dei legami che possono svilupparsi tra persone dello stesso sesso, unite alla particolare debolezza emotiva che può derivarne, può creare dinamiche più complesse da gestire, mettendo a dura prova l’integrità della vocazione celibataria. Se si è consapevoli di questa difficoltà, è necessario prenderne atto con umiltà e discernere con onestà se accedere o meno al ministero presbiterale».
Siamo ancora al punto di collegare l’omoaffettività a soggetti istrionici, narcisistici, col bisogno compulsivo di parlare di sé, di raccontare a tutti della propria intimità? Il pensare che la persona omoaffettiva possa diventare quasi una vignetta non può sussistere con lo studio serio e la conoscenza personale della realtà.
Intendiamoci, nessuna ingenuità o romanticismo, è tosta essere preti e religiosi/e, siamo in un tempo difficile con crisi di fede e di senso che attraversano le vocazioni e i matrimoni, con una possibilità di scambi sterminata e svincolata da qualunque limite. Anche il Papa nell’ultima Enciclica lo ricorda:
«L’anti-cuore è una società sempre più dominata dal narcisismo e dall’autoreferenzialità. Alla fine si arriva alla “perdita del desiderio”, perché l’altro scompare dall’orizzonte e ci si chiude nel proprio io, senza capacità di relazioni sane» (Dilexit Nos, n. 11).
Amare, darsi all’altro, agli altri richiede un gran lavoro su di sé, ma grande davvero.
È su questo che dovrebbe ragionare seriamente chi vuol bene alla Chiesa, e crede che preti e religiosi/e non siano pura follia o solo un vecchio retaggio del passato, ma siano uomini e donne che parlano dell’Amore e della Speranza, profezia di una vita che non finisce qui.
Discorso enorme e troppo ampio per essere affrontato ora: la società, il tempo attuale, la cristianità, gli ambienti formativi e di vita, le parrocchie, noi laici siamo chiamati in causa nella riflessione sulla vocazione di preti e suore. La riuscita delle vocazioni, l’umanità delle vocazioni, l’accoglienza inclusiva è responsabilità comune.
Una domanda di verifica personale e ambientale rispetto al perché alcuni uomini e donne possano sentirsi bene solo dentro gruppi ristretti, dovremmo porcela tutti. È responsabilità loro o anche nostra?
La crisi numerica, gli abbandoni, il malessere di preti e religiosi/e… non può ricadere solo sull’individuo, e ancor meno sull’omosessualità.
Una parola infine: differenziare l’orientamento omoaffettivo/eteroaffettivo è giusto e onesto, rende ragione della bellezza meravigliosa delle diversità. Solo che la diversità, che per nessuna ragione va livellata, non può essere agganciata per trarne conclusioni indebite. La singolarità è carisma, dono, risorsa.
«Cedere alla tentazione dell’omologo è facile. Cercare il simile, chi ci rispecchia, chi ci comprende nelle nostre fragilità, appare a volte un rifugio rassicurante», è verissimo; ma attenzione che noi, comunità cristiana e Chiesa, facciamo valere queste parole sempre, per chiunque di noi, per me, per te, per chi usa se stesso come termine di riferimento, fino ad arrivare a noi e voi.
Chiara D’Urbano è psicologa e psicoterapeuta; da molti anni accompagna in ambito clinico e formativo i processi vocazionali di seminaristi, sacerdoti, religiosi e religiose. È consultore del Dicastero per il Clero, perito della Rota Romana, del Tribunale dello Stato della Città del Vaticano, e del Vicariato di Roma. Collabora con Seminari e Istituti religiosi (cf. sito personale)
Io non ho letto l’articolo di Marrone ma per la mia esperienza di frequentazione di persone omoaffettive ho potuto notare che c’è si una immaturità affettiva, una incapacità di saper crescere. Come se il meccanismo di maturazione sessuale e affettiva, di acquisizione della propria identità e sessualità si fosse inceppato o arrestato ad un certo punto nell’adolescenza. In questa situazione come è possibile assumere la responsabilità di diventare guida ed esempio per gli altri attraverso il sacerdozio? Mi sembra che anche Papa Francesco abbia espresso simili perplessità. Per quanto ormai ci sia la tendenza, come nel presente articolo, a normalizzare tale orientamento, io non ne vedo l’opportunità ma semmai invito a continuare ad approfondire e a studiare la storia e la psiche delle persone omoaffettive. Grazie per l’attenzione.
Finalmente competenza. Conoscere le cose e non conoscerle non è la stessa cosa. Occorre far parlare le persone competenti su argomenti come questo.
Grazie cara Chiara per il tuo articolo… Finalmente siamo tornati nel 2024, anche nella Chiesa!
Gentile dottoressa,
grazie per aver letto l’articolo e per aver condiviso riflessioni così articolate e sentite. È evidente che il tema suscita un intenso coinvolgimento emotivo e intellettuale, e sono grato per l’opportunità di approfondire alcuni punti che, come lei giustamente osserva, meritano ulteriori chiarimenti.
L’intento dell’articolo era proprio quello di aprire uno spazio di dialogo e riflessione su una tematica complessa e delicata come quella dell’orientamento affettivo in relazione alla vocazione presbiterale. La scelta di trattare questo argomento è stata guidata da un sincero desiderio di affrontare con onestà le domande e i dilemmi che emergono non solo nella vita di chi si sente chiamato alla consacrazione, ma anche tra coloro che, come comunità, accompagnano e sostengono queste vocazioni.
Mi dispiace se alcune parti dell’articolo hanno potuto suscitare la percezione di giudizio o di pregiudizio. La mia intenzione non era di associare in alcun modo l’orientamento omoaffettivo a una minore maturità affettiva o a una difficoltà maggiore nel vivere la castità e la vocazione. Ogni cammino vocazionale, infatti, implica per chiunque una sfida profonda, che richiede una crescita continua, indipendentemente dall’orientamento. L’articolo intendeva sottolineare che la capacità di vivere relazioni sane e affettuose è essenziale, e che essa dipende più dalla maturità emotiva e dal supporto ricevuto che dall’orientamento sessuale. Su questo, credo che siamo d’accordo.
Concordo con lei anche sull’importanza di evitare stereotipi che rischiano di ridurre la complessità delle persone e delle loro vocazioni. È fondamentale che la Chiesa, nel suo cammino di accoglienza e inclusione, riconosca pienamente la dignità e la bellezza della diversità umana.
Ritengo che, stando al pronunciamento del 2005 della Congregazione per l’Educazione Cattolica “Istruzione circa i criteri di discernimento vocazionale riguardo alle persone con tendenze omosessuali in vista della loro ammissione al seminario e agli ordini sacri”, molte cose restano ancora da chiarire.
La sfida sta proprio nel superare qualunque barriera che limiti l’accettazione e il rispetto reciproco, affinché ciascuno possa vivere la propria vocazione con serenità e autenticità.
Vorrei concludere sottolineando il valore del confronto rispettoso che lei e altri lettori avete contribuito a creare. Solo attraverso un dialogo onesto e aperto possiamo aspirare a una Chiesa che abbraccia ogni sua parte e che, fedele al messaggio di amore di Cristo, accoglie e accompagna ciascuno nel proprio cammino di vita e di fede. Spero che questo possa chiarire il mio intento e che possa contribuire a un dialogo sempre più inclusivo.
È quanto mai necessario riaffermare l’importanza di un dialogo continuo e rispettoso su queste tematiche. Questo dialogo è fondamentale non solo per affrontare le sfide del presente, ma anche per promuovere una comunità cristiana inclusiva, dove ogni persona sia valorizzata nella sua singolarità e possa vivere la propria vocazione con serenità, indipendentemente dal proprio orientamento affettivo.
Profitto di questo scritto per fare qualche considerazione sui commenti apparsi a margine del mio articolo. I commenti potrebbero trarre vantaggio da un approccio più rispettoso e dialogico, evitando un linguaggio eccessivamente aggressivo. Questo potrebbe creare uno spazio di confronto aperto e rispettoso, dove ogni punto di vista può essere considerato con attenzione, e il dibattito risulti arricchente per tutti i partecipanti.
È fondamentale ricordare l’importanza di mantenere il rispetto per chi esprime opinioni diverse e per chi tenta di affrontare un tema complesso e delicato come quello dell’orientamento sessuale e della vocazione presbiterale. Le opinioni critiche possono essere espresse con fermezza senza ricorrere a termini duri o a giudizi personali che chiudono la possibilità di un confronto.
Alcuni commenti riflettono un’indignazione immediata e poco incline a cercare di comprendere il punto di vista dell’autore dell’articolo. Questo atteggiamento rischia di esasperare il dibattito, oscurando i punti positivi che potrebbero emergere dalla discussione.
È importante esercitare empatia e comprensione reciproca, anche di fronte a idee percepite come sbagliate o superate. Un approccio empatico aiuta a comprendere il contesto dell’articolo e le motivazioni che potrebbero aver spinto l’autore a scriverlo.
Criticare un’affermazione specifica o un punto di vista è legittimo, ma etichettare chi la esprime in modo negativo o dispregiativo può sembrare ingiusto e chiude ogni possibilità di dialogo. è necessario riportare il dialogo su un piano di serenità e di riflessione costruttiva, evitando prospettive ideologiche che possono spesso polarizzare le opinioni su un tema così delicato.
L’intenzione del mio articolo non è stata quella di sollevare giudizi o di avanzare posizioni preconcette sull’orientamento omoaffettivo o su quello eteroaffettivo. Piuttosto, l’obiettivo era di avviare una riflessione aperta e rispettosa su come ciascuno, indipendentemente dal proprio orientamento, possa vivere con pienezza e maturità la vocazione presbiterale. È un cammino personale che richiede equilibrio emotivo, crescita continua e il supporto della comunità ecclesiale, senza distinzioni di orientamento.
Sono consapevole che argomenti come questi suscitano spesso reazioni forti, poiché coinvolgono aspetti profondi della nostra identità e della nostra fede. Tuttavia, è proprio nel confronto sereno e aperto che possiamo comprendere meglio le diverse prospettive e trovare modi per includere e accompagnare ogni vocazione nella sua unicità.
Spero che questo chiarimento aiuti a comprendere meglio l’intento dell’articolo e a costruire uno spazio di discussione che rifletta l’accoglienza e la compassione proprie del messaggio cristiano. Ringrazio nuovamente per il contributo e per l’occasione di continuare questo dialogo in un clima di rispetto e apertura.
Grazie ancora per il suo contributo.
Come la mettiamo con il clero uxorato delle chiese cattoliche orientali? Omosessuali conviventi, dotati della doverosa benedizione concessa dal parroco competente per territorio, possono essere ordinati presbiteri?
Ecco il caso in cui il nome di chi scrive (Chiara) corrisponde perfettamente a ciò che scrive che è chiaro nell’argomentare e rende chiaro l’orizzonte della questione, oltre i fumi dei luoghi comuni e le nebbie dei pregiudizi. E la prima chiarezza è nel abbattere quel confine artificiale tra “voi” e “noi”, tra “loro problema sessuale” (gli omosessuali) e il “noi chiesa”, come se la questione della vita affettiva e sessuale fosse problematica solo per una categoria di persone da custodire “amorevolmente” in un recinto a parte… Siamo Chiesa tutti insieme e insieme ci prendiamo cura gli uni degli altri, senza griglie di partenza come in formula uno, dove c’è chi sta di diritto sempre in pole position e chi è lasciato in ultima fila o parcheggiato ai box… È chiara la questione?
Marrone si inchini. Legga i libri di Chiara D’Urbano. E rifletta parecchio. E, mi perdoni, se insegna ancora morale, chieda un anno sabbatico. E studi. Studi. Auguri.