L’insistenza sul presbiterio che attraversa la coscienza ecclesiale odierna è legata all’emergenza dei numeri e alla cultura del tempo o è un’esigenza dell’identità della Chiesa locale? C’è un presbiterio perché c’è un vescovo oppure c’è un vescovo perché c’è un presbiterio? Perché nel secondo millennio questo dato ecclesiologico sembra scomparire e perché riappare nel Vaticano II? Le pratiche e gli esercizi del ministero sono coerenti con la concezione sinodale dei presbitèri? Quello che manca è addebitabile all’insufficienza della teologia o all’inadeguatezza della formazione? Che ruolo può avere il corpo presbiterale nella soluzione della crisi dei preti?
Sono alcune delle domande che hanno attraversato il breve ma intenso convegno nazionale della rivista Presbyteri (Roma, 6 maggio 2019) frequentato da una cinquantina di presenti con il titolo “Il presbiterio nell’esperienza della formazione del clero”.
Il corpo presbiterale nel terzo millennio
Don Dario Vitali, direttore del dipartimento di teologia dogmatica della Gregoriana, ha ancorato la dimensione collegiale del presbiterio all’interno della Chiesa apostolica, mostrando la fondatezza storica e dogmatica dell’indicazione conciliare. E ha chiuso il percorso della relazione nell’affermazione del presbiterio come soggetto collettivo, col vescovo e mai senza, definito da due compiti essenziali: il servizio pastorale alla comunità locale e la testimonianza della comunione, nell’esercizio di una forma di obbedienza reciproca.
La pertinenza della radice apostolica deve superare il lungo silenzio del secondo millennio e si àncora indissolubilmente sia alle (scarse) indicazioni del Nuovo Testamento sia (soprattutto) alla continuità del modello sinagogale. Il «sinedrio» raccontato dai Vangeli diventa le «guide» indicate dalle lettere paoline. Se non si può pensare all’Israele di Dio senza gli anziani, non si possono immaginare le comunità primitive prive di un presbiterio. Anche nelle lettere paoline e nell’ambito ellenistico questa struttura comunitaria non si è dissolta.
L’episcopato nasce appunto dentro il ministero degli anziani (sorveglianti) delle comunità cristiane. E se, in Asia Minore, il profilo personale del vescovo emerge presto, non così nella comunità di Roma, dove il «papa» è il primo dei presbiteri.
Dopo Costantino la figura del vescovo scivola lentamente su quella del funzionario imperiale. Ma è solo con la riforma gregoriana, all’inizio del secondo millennio, che emerge la «solitudine» del papa facendo dei vescovi i propri «funzionari».
Quando salta il principio di unità del vescovo con la sua comunità, si eclissa coerentemente la dimensione collettiva del presbiterio. Essa riemerge nel Vaticano II. La dimensione sacramentale dell’episcopato conciliare domanda coerentemente la rinascita del corpo presbiterale. Tanto che anche i sacerdoti religiosi devono radicarsi in una Chiesa locale.
È toccato alla seconda relazione e alla tavola rotonda del pomeriggio declinare nella pratica pastorale la rinnovata consapevolezza conciliare. Mons. Antonio Napolioni, vescovo di Cremona, si è ricollegato all’ultima stagione della Conferenza episcopale (CEI) che ha fatto oggetto di attenzione i presbiteri. Fra il 2013 e il 2017 si sono susseguiti due seminari di studio, due conferenze generali, l’apporto delle conferenze regionali e una pubblicazione finale: Lievito di fraternità. Sussidio sul rinnovamento del clero a partire dalla formazione permanente (2017).
Il testo dava nota di tre passaggio rilevanti:
a) la formazione seminaristica non produce un prete, ma avvia un ministero che si forma nell’esercizio della pastorale, dentro una Chiesa locale e in un presbiterio specifico (con e sotto il vescovo);
b) la vita comune del seminario chiede una esperienza di vita comune anche nel successivo servizio presbiterale;
c) si comprende il presbiterio non a partire dal vescovo, ma il vescovo a partire dal presbiterio.
La formazione permanente non è aggiunta volontaria e occasionale a prassi pastorali già sufficienti. Non si esaurisce nella modalità didattica. È piuttosto un dinamismo che coinvolge la dimensione umana, spirituale e intellettuale del pastore. Essa deve passare da esperienze occasionali a progetti strutturati che permettano ai presbiteri, nelle loro diverse età della vita, di raccontare la propria fede e di istruire un percorso condiviso con le comunità cristiane.
Se la struttura del seminario è stata la grande intuizione del Tridentino, la comunità (non la struttura) del seminario e il suo organico collegamento dentro il corpo presbiterale è la consegna del Vaticano II.
Una pratica insufficiente
Scorrendo uno dopo l’altro gli otto capitoli del sussidio, mons. Napolioni ha sottolineato il compito del prete di costruttore di comunità, strumento della tenerezza di Dio, chiamato alla profezia della fraternità, all’amicizia con il Signore, alla libertà nella sequela. Non un burocrate ma un servitore gioioso.
Davanti al venir meno dei numeri, ha ricordato la parola del card. Lustiger: si fa pastorale coi preti che Dio ci dona. Senza ignorare la solitudine e il degrado che lambisce la vita di alcuni presbiteri che, proprio per questo, sono chiamati a riscoprire una dimensione affettiva nella relazione con gli altri preti.
Il ministero pastorale è anzitutto e prevalentemente un’opera collettiva. La prima testimonianza da offrire alle comunità è quella della comunione fra i preti. C’è quindi urgente bisogno di vita comune nella sue varie forme possibili e la necessità di rinnovare la fiducia negli organismi collegiali e di rappresentanza.
Il rischio è duplice e contrapposto: l’accidia, che giustifica una sostanziale dimissione, e l’iperattivismo, che nasconde una maturità umana e spirituale insufficiente. I punti e i passaggi critici sono noti: l’entrata nel ministero da parte dei giovani preti, i trasferimenti che segnano l’età adulta e la cessione dalla responsabilità con il pensionamento.
La prima voce della tavola rotonda volta a illuminare alcuni elementi della formazione permanente in atto è stata quella di Renato Marangoni, vescovo di Belluno-Feltre. Con don Giuseppe Zanon ha avviato l’esperienza della formazione permanente del clero padovano percependo presto che investire su quella aveva un significato “politico” complessivo non solo sulle esperienze dei preti, ma sull’indirizzo della diocesi. Non comunicazione di contenuti dottrinali o intellettualistici, ma discernimento sulla qualità di vita del prete e spinta verso esperienze nuove e impreviste.
Il gesuita p. Stanislaw Morgalla, direttore del Centro Pietro Favre della Gregoriana, ha illuminato, attraverso un caso, lo sprofondare nella crisi di un prete che non trova risposta né nel vescovo né nel direttore spirituale perché non è ricondotto alla sua fragilità di origine. La conclusione è quella di ricordare la sfida che attraversa l’intera vita: conoscere se stessi. Scontato il rilievo della competenza psicologica nel cammino formativo, integrando lo spirituale con l’umano, e l’imperativo categorico di imparare ad imparare.
Docilitas o docibilitas?
Don Calogero Cerami, rettore del seminario di Cefalù, ha raccontato l’evolversi della formazione permanente del prete nell’esperienza delle diocesi siciliane e le modalità via via sperimentate.
Molti gli interrogativi rimasti aperti: i presbiteri avvertono il senso di corresponsabilità nel presbiterio? A quale coscienza sono formati? Quale l’accoglienza dei presbiteri dei nuovi ordinati? Quale accompagnamento nei momenti di crisi? Dobbiamo ammettere, concludeva, la difficoltà di raggiungere tutti i preti, in particolare quelli in crisi che si chiudono e che nessuno cerca.
L’ultima voce è stata di don Giuseppe Roggia, docente alla pontificia università salesiana. La formazione permanente rimane ancora scarsamente esercitata e poco compresa. Soprattutto nel suo atteggiamento esistenziale di fondo, nella disponibilità a comprendere il cambiamento. Ha sottolineato, in particolare, la forte dipendenza, anche del clero, dalla rivoluzione digitale e mediatica. Fra le conseguenze è lo sbriciolarsi della dimensione della verità di sé e degli altri, una pretesa di arrivare alle «cose», saltando la fatica delle competenze, dei confronti spirituali e fraterni. Con l’esito di galleggiare in superficie, senza alcuna profondità. Formare più alla docibilitas (disposizione ad imparare) che alla docilitas (docilità non critica).
Nel convegno emergeva l’affezione per la figura ecclesiale del presbitero, il non detto sugli abusi che ora vengono alla luce e il giudizio severo su pratiche, ancora in atto, di vescovi che raccolgono con poca responsabilità e discernimento seminaristi fuoriusciti da altri istituti religiosi o diocesani per ordinarli nella propria diocesi.
Una sapienza ecclesiale bene espressa dall’identità della rivista che si colloca alla confluenza di tre affluenti: la rivista Pietà sacerdotale della tradizione gesuitica, il bollettino Unione apostolica dell’UAC (Unione apostolica clero) e Sacerdos della Congregazione di Gesù sacerdote (“Venturini”) che edita oggi Presbyteri e ne porta con generosità l’onere.
La presenza del segretario generale della CEI, mons. Stefano Russo, testimonia di un’attenzione non occasionale alle riflessioni e ricerche in merito al presbiterio in Italia.