In occasione di una due giorni di confronto fra una ventina di preti della diocesi di Crema, il vescovo Daniele Gianotti ha introdotto la ricca riflessione comune sulle unità pastorali, la sinodalità e sulle condizioni del ministero presbiterale con alcune brevi indicazioni che riprendiamo. L’incontro si è svolto il 18-19 ottobre ad Albino (Bergamo).
Elenco, senza nessuna pretesa di completezza, alcuni snodi che mi sembrano da mettere in conto, per parlare della nostra condizione di preti negli scenari che stiamo vivendo. Non ci faccio sopra grandi ragionamenti e non sto a “pesarli” per dire che cosa è più o meno importante.
La diminuzione del numero dei preti – per lo meno come li conosciamo noi – è da considerare nel futuro prossimo, irreversibile, per diverse ragioni che non sto a enumerare.
Ciò non significa che si debba rinunciare a lavorare sul piano vocazionale, anzi; tuttavia, dobbiamo fare i conti col fatto che i preti saranno decisamente meno, in un futuro non lontano.
Alla questione numerica se ne aggiunge subito una “teologico-sociologica”; anche la rilevanza del prete per la vita della comunità viene messa in discussione, e lo sarà ancora di più, per vari motivi; cf. la perdita complessiva del prestigio sociale del prete nella nostra società; le conseguenze degli scandali relativi agli abusi nei confronti dei minori; la riflessione sulla sinodalità, che spinge a mettere in rilievo la «vera uguaglianza riguardo alla dignità e all’azione comune a tutti i fedeli nell’edificare il corpo di Cristo» (LG 32), che vige fra tutti i membri del popolo di Dio; il giusto richiamo alla pluralità dei ministeri, di cui la Chiesa ha bisogno; la denuncia continua (a mio parere forse eccessiva) del “clericalismo”.
La scelta delle unità pastorali, per quanto invitabile sotto certi aspetti, rischia di peggiorare le cose, se si limita a moltiplicare incombenze e responsabilità del prete, senza modificare in qualche modo le modalità e le condizioni del suo esercizio del ministero – il che suppone, prima ancora, di modificare il modo stesso di impostare la comunità cristiana.
Al riguardo può essere un rischio, nella nostra situazione, il fatto che tutto sommato, le cose siano per certi versi agevoli, perché le dimensioni delle unità pastorali rimangono relativamente ridotte, le parrocchie sono vicine ecc.; però già si vede (in qualche caso almeno), il rischio di pensare le unità pastorali soltanto come una somma di parrocchie, senza che riusciamo a “inventare” qualche modalità nuova di articolazione della pastorale e dunque anche del ministero del prete.
In questo contesto, la questione delle condizioni di vita del prete mi sembra meno rilevante, o meglio mi sembra subordinata a quanto dicevo prima; nel senso che, senza un ripensamento della fisionomia complessiva della figura del prete e delle modalità della sua responsabilità pastorale, si possono sì individuare problematiche circa le condizioni di vita, e provare a migliorarle; ma rimane comunque aperto il problema circa l’“identità pastorale” del prete, che resta, a mio parere, la questione decisiva.
È molto probabile – come mostra l’esperienza di altre diocesi ma anche, in certa misura, nella nostra – che nel prossimo futuro vengano a offrire la propria disponibilità al ministero presbiterale uomini di una certa età, con determinate professionalità, con percorsi variegati e orientamenti che non si prestano facilmente alla “plasmazione” di una figura determinata di presbitero.
Che fare, in questa situazione? Anche lasciando da parte la questione della formazione che si può proporre in casi come questi, come considerare, ad esempio, l’idea del ministero presbiterale che queste persone possono avere davanti? Fino a che punto possiamo permetterci di accogliere solo chi corrisponde a una determinata figura di “presbitero”?
Ho accennato al fatto che, nonostante la pressoché certa diminuzione delle vocazioni al ministero presbiterale – diminuzione ancora più drastica di quanto stiamo già sperimentando – non dobbiamo desistere dall’animazione vocazionale.
Sullo sfondo c’è il conflitto tra una visione dell’uomo, dominante nella nostra cultura e il cui impianto (sbrigativamente) si richiama all’idea di Nietzsche dell’«oltre-l’uomo» – cioè (in soldoni) dell’uomo “artefice di sé”, dell’uomo che, del tutto autonomamente rispetto ad autorità, divinità, tradizioni ecc. determina e plasma la sua vita – e la concezione appunto “vocazionale”, di una vita che si vuole come “risposta” alla chiamata di Dio…
La questione “vocazionale”, insomma, non è tanto una questione di “reclutamento di personale”, quanto di aiutare le persone, e i giovani in particolare, ad aprirsi ad una visione evangelica di sé, della relazione con Dio e con i fratelli in Cristo e nello Spirito.
Nella problematica vocazionale, in ogni caso, entra anche la questione dell’immagine che diamo di noi (come singoli e come presbiterio), o piuttosto della nostra vocazione e del modo in cui l’accogliamo come ciò che offre senso e pienezza alla vita.
Resta, in ogni caso, la questione di quale effettiva pastorale vocazionale facciamo, o possiamo fare, nella nostra Chiesa (e, evidentemente, non solo in rapporto alla vocazione peculiare del presbitero diocesano).
molte domande
nessun sogno
Non si ha la capacità, voglia, coraggio (?) di proporre scelte audaci che superino una volta per tutte Trento e si calino nell’antropologia e nella sociologia del XXI secolo. E questo a tutti i livelli del pensare ecclesiale. Come sta accadendo per il clima, non saremo noi a cambiare le cose: esse cambieranno da sole e noi di dovremo (dolorosamente) adeguare.
Se possibile avere la relazione del vescovo…