In questi ultimi tempi le Chiese di vari paesi europei hanno manifestato la loro preoccupazione per il fenomeno dei sacerdoti africani che abbandonano il loro continente per cercare di sistemarsi in Europa. E anche gli esponenti delle Chiese dell’Africa hanno lanciato l’allarme perché questi preti non vogliono più tornare indietro. La loro perdita – è stato detto – danneggia le diocesi e gli istituti religiosi con «enorme pericolo per le Chiese del luogo».
Il vescovo Ignace Bessi Dogbo, di Katiola, presidente della Conferenza episcopale della Costa d’Avorio, dopo la riunione della scorsa primavera, in una conversazione con il settimanale cattolico inglese Catholic Herald, ha affermato che, per la Costa d’Avorio, questa “fuga” significa la perdita di un terzo dei suoi preti.
Le ragioni di una scelta
Ancora più drastiche le dichiarazioni del teologo p. Donald Zagore, della Società delle Missioni africane, riferite dall’Osservatore Romano del 24-25 agosto scorso.
«È triste – ha dichiarato p. Donald – ed è importante riconoscere che il fenomeno dell’immigrazione in Europa riguarda non solo le nostre società civili africane, ma anche le nostre numerose diocesi e comunità religiose. Ci sono molti sacerdoti e religiosi che abbandonano il continente africano per servire nei paesi europei e americani. L’emigrazione dall’Africa all’Europa, nella sua forma religiosa, è un fenomeno che sta diventando sempre più importante nel nostro continente».
Già all’inizio del 2017, Marcelin Yao Kouadio, vescovo della diocesi di Daloa, in una delle sue omelie, aveva citato i casi di due diocesi africane particolarmente colpite da questo fenomeno.
Anche Ignace Bessi Dogbo ha denunciato questo fenomeno dei “preti vaganti”: sacerdoti che si rifiutano di tornare in Africa dopo gli studi o dopo una missione in Europa.
Pure Dominique Lebrun, arcivescovo di Rouen, ex presidente del gruppo di lavoro dei Prêtres venus d’ailleurs, in un’intervista rilasciata al quotidiano cattolico La Croix, lo scorso 7 agosto, ha riconosciuto che questo fenomeno esiste.
«Le ragioni più comuni che spingono molti sacerdoti a recarsi in Europa – ha affermato padre Donald – sono la ricerca del benessere materiale e del prestigio. Molti di loro se ne vanno dall’Africa per fuggire dalla loro situazione di miseria e di precarietà e con l’intenzione di raggiungere i paesi ricchi. Inoltre, molti preti africani si ritengono superiori ai loro conterranei, specialmente negli ambienti ecclesiastici, se vivono, lavorano o studiano in Europa. A volte una nomina o ulteriori studi in Europa assumono la forma di un riscatto. È drammatico pensare che l’anima africana raggiunga la pienezza della sua realizzazione quando gode del prestigio europeo».
«Questo concetto – osserva ancora padre Donald – comporta un enorme pericolo per la Chiesa cattolica in Africa, che va via via svuotandosi per la mancanza di sacerdoti, e si accompagna al fenomeno del proliferare di vocazioni che possono essere non autentiche. Oggi molti pensano che non sia più necessario diventare prete per servire i poveri in Cristo. Ciò che ha valore invece è la corsa ai beni materiali e il successo, da cui derivano conflitti e divisioni nelle nostre Chiese in Africa». Perciò, «nelle nostre diocesi, nelle nostre comunità religiose, urgono azioni concrete per arginare questa emigrazione del personale ecclesiastico. Anzitutto è necessaria una consapevolezza collettiva del pericolo rappresentato. In secondo luogo, le autorità della Chiesa devono vagliare attentamente le motivazioni che spingono a scegliere la vita sacerdotale o religiosa. Infine, va detto in maniera forte e chiara – come ha sottolineato il vescovo Marcelin Kouadio – che il sacerdozio e la vita religiosa non possono essere un trampolino di lancio per fuggire dall’Africa».
Il fenomeno in Francia
In Francia – scrive il settimanale cattolico inglese Catholic Herald – vi sono attualmente 1.800 preti stranieri ufficialmente occupati nella pastorale, provenienti in gran parte dalle ex colonie. Ciò corrisponde a un quinto del numero globale del clero francese, calcolato sugli 11.500 individui. Ma esiste anche un buon numero di preti che sono nel paese senza autorizzazione.
Il vescovo Bessi Dogbo, nel corso dell’assemblea della Conferenza episcopale della primavera scorsa, ha dichiarato che molti preti della Costa d’Avorio sono latitanti. E ha aggiunto che la Chiesa africana ha anche problemi di obbedienza, specialmente col clero giovane.
Per quanto sia urgente il problema della mancanza di preti, i vescovi dell’Europa devono sempre verificare dove sono questi preti che vengono da fuori, cosa fanno e se il loro paese di origine ne ha bisogno. Anche quelli che ottengono la cittadinanza europea rimangono sempre vincolati alle loro diocesi di provenienza.
Inoltre, bisogna che il vescovo che li ospita si assicuri che sono stati realmente inviati dalla loro diocesi e non per altre intenzioni… Alcuni esponenti delle Chiese europee – ha dichiarato l’arcivescovo Dominique Lebrun, di Rouen – sono sensibili a queste preoccupazioni e ha sottolineato che i problemi crescono quando questi preti resistono agli appelli a tornare nel loro paese, adducendo problemi di studio, conflitti della personalità o ansie di carattere politico.
«Qualunque siano le circostanze – ha dichiarato al quotidiano La Croix – il non ritorno di un prete danneggia il suo rapporto fondamentale con la diocesi e il suo vescovo e ciò dev’essere riprovato». Ha aggiunto anche che «alcuni arrivano in Europa senza documenti appropriati, dopo aver sofferto stenti nel loro paese, e che praticamente tutti, dopo il loro arrivo, hanno sperimentato problemi di razzismo e la fatica di adattarsi a una nuova cultura. Molti hanno pensato di rimanere per sostenere i propri familiari poveri o per avere le medicine introvabili nei loro paesi e hanno aggiunto di avere bisogno di aiuti quando rientreranno nei loro paesi».
Il problema in Germania
Secondo il teologo Karl Gabriel, professore di religione e politica presso l’università di Münster, per i sacerdoti stranieri ci sono sostanzialmente tre modi per venire in Germania e in Europa. Anzitutto il “libero mercato” offerto dalle diocesi europee. Una seconda possibilità sono i contatti personali tra vescovi africani e vescovi tedeschi. Ma la stragrande maggioranza si affida ai contratti con gli istituti religiosi o le diocesi. Questa è la strada favorita secondo Gabriel. In base a questa forma di scambio, chiaramente regolata, i preti stranieri sono già idealmente preparati a casa loro per venire in Germania.
Ma non sempre è stato questo lo standard. Negli anni ’80 e ’90, quando in Germania cominciò a profilarsi la mancanza di sacerdoti, arrivarono per la prima volta nel paese numerosi preti stranieri. «A quel tempo, i responsabili non avevano calcolato bene che cosa significasse il cambiamento per il prete che veniva, per la sua terra natale e per la comunità che li accoglieva. Le diocesi tedesche, a partire dalle loro necessità, si sono guardate attorno senza consultare le diocesi di origine. Inoltre, la preparazione di questi preti era spesso insufficiente».
Per dirla senza giri di parole, si affermò questo modo di pensare: «in Polonia e in India c’è un sovrappiù di preti, in Germania un sovrappiù di denaro, e le due cose vanno tra loro del tutto d’accordo».
In futuro – secondo Gabriel – sarà ancora più importante verificare se i sacerdoti e la nuova comunità che li accoglie si armonizzano tra loro. Non di rado, infatti, ci sono stati degli attriti. Inoltre, in alcuni casi, ci sarebbe un’insufficiente conoscenza della lingua, particolarmente evidente nelle omelie.
Bisogna anche aggiungere che non tutte le Chiese hanno accolto calorosamente il nuovo sacerdote. Ci sono stati anche dei risentimenti xenofobi o reazioni di individui dell’estrema destra.
Secondo lo studio di Karl Gabriel, uno ogni sei parroci stranieri, in particolare gli africani, aveva già avuto, nel 2007, esperienze di xenofobia. Tuttavia, il 42,9% di loro ha dichiarato di trovarsi “molto bene” in Germania.
Dall’inizio di quest’anno, dopo aver provato diverse esperienze, l’arcidiocesi di Monaco e Freising ha cambiato le regole di accoglienza. Josef Kafko, responsabile per i sacerdoti dell’ordinariato arcivescovile, ha così spiegato: «Se un parroco straniero ha un buon rapporto con la comunità e coltiva un lavoro in rete, allora può sorgere il desiderio di rimanere qui. Ma, per evitare un’eccessiva alienazione dal proprio paese d’origine, l’arcidiocesi intende in futuro collaborare con gli istituti religiosi. I religiosi sacerdoti inviati possono vivere insieme anche in Germania in una piccola comunità con altri confratelli del loro paese. Ma, dopo sei/dieci anni devono tornare in patria».
Anche l’arcidiocesi di Colonia ha stabilito delle regole dettagliate. I preti venuti dovranno presentare un certificato di lingua e seguire tre anni di formazione in cui vengono trasmessi il nostro modo di pensare e i nostri valori, due progetti catechistici indipendenti e documentati, e sarà verificata la loro idoneità professionale.
Per le diocesi straniere che hanno favorito il soggiorno dei loro sacerdoti, l’esperienza all’estero comporta tuttavia anche molti vantaggi, per esempio per quanto riguarda lo sviluppo personale così che questi, una volta tornati nel loro paese, saranno in grado di assumere compiti formativi a vantaggio del clero locale. Una cosa questa che, malgrado tutte le critiche, è ben vista anche dal vescovo ivoriano Dogbo.
A mio sommesso avviso manca un punto cruciale : il dovere morale di noi bianchi di creare migliori condizioni materiali per le giovani chiese africane
Certo, quando andavate in Africa era missione, oggi come la Chiesa in Europa diventó terra di missione, e dall’Africa vengono i sacerdoti, dite che stanno fuggendo… Ipocriti..,