Non è facile essere preti oggi. Ancor più se parroci. Sì, perché il mondo, anche quello italiano, quello dei mille campanili, è profondamente cambiato, mentre la teologia del ministero ordinato no.
Non è facile essere preti oggi in un mondo nel quale lo stesso celibato, forse anche a causa degli scandali noti a tutti, è considerato come un elemento di sospetto, se non da abolire il prima possibile.
Non è facile essere preti oggi, ancor più se chiamati a vivere dentro un contesto nel quale, quando non vieni attaccato, sei al massimo tollerato come un elemento contestuale, un po’ “folcloristico”, ancora utile per quella fetta di italiani dai capelli bianchi ai quali, a dirla non troppo sottovoce, questi cambiamenti nella Chiesa non piacciono proprio.
Oggi il ministero del parroco, al di là del momento dell’ingresso nelle nuove comunità, è chiamato a fare quotidianamente i conti con quel sentimento di frustrazione personale e degli altri che lo accompagna in ogni sua azione. Si ha la consapevolezza di una civiltà parrocchiale morta, e dentro questa situazione viene richiesto di far finta di niente, di minimizzare, di tenere in piedi ciò che in piedi più non sta. Qualsiasi prete, vecchio o giovane che sia, sente sulla sua pelle quel suo essere anacronistico, corpo estraneo dentro un mondo sempre più plurale e al quale la sua proposta non dice più nulla. O forse il modo con cui era abituato a farla.
Tanti preti oggi sentono nel cuore il peso dei giovani che se ne vanno, delle persone che non vedono più nella Chiesa un posto in cui essere accolti e liberi, delle lamentele degli anziani che non trovano più le loro certezze religiose, legate a pratiche di un tempo definitivamente tramontato.
E, mentre papa Francesco invoca una Chiesa dalle porte aperte, buona parte dell’organizzazione di cui è capo parla e agisce con ben altro linguaggio, specialmente verso coloro che queste porte se le sono trovate, e se le trovano ancora, ben sigillate. E chi, come qualsiasi prete – di centro o di periferia, di città come di campagna – si trova in prima linea in questo momento, avverte le proprie lacrime venire a galla come un fiume in piena, che non trova più nessun argine a contenerle.
Chi scrive appartiene a un mondo in via di estinzione. O comunque in picchiata. Quello dei preti. Inutile mettere la testa sotto la sabbia. C’è un modo di vivere questa sequela del Signore Gesù che non è più attrattiva per nessuno, e forse – ma questo lo dirà la storia – Dio stesso ci sta anche mettendo del suo. A ben vedere, infatti, una tale accelerazione del cambiamento della nostra Chiesa, anche mantovana, non può essere solo opera dell’uomo. Sono profondamente convinto che sia in corso un “dimagrimento forzato” tremendamente doloroso, le cui radici non sono tutte sulla terra.
Non è facile essere preti oggi. La fine della civiltà parrocchiale non significa però la fine della Chiesa, ma solo, come in diversi acutamente osservano, la fine di un certo modello di Chiesa. E forse seguirà anche la fine di un certo modello di prete e di parroco. Ne usciranno preti e parrocchie più adatti al mondo che verrà. Forse anche quello in cui i preti potranno sposarsi, ma soltanto a una certa età (citazione ben nota ai lettori).
Nell’ultima intervista rilasciata dal card. Martini, pubblicata sul Corriere della Sera il giorno dopo la sua morte (1° settembre 2012), l’arcivescovo diceva che «…la Chiesa è rimasta indietro di 200 anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio?».
Chi scrive svolge con gioia sia il servizio di parroco che di docente di teologia, e confida con assoluta fiducia sia nel magistero che nella teologia. Stanno entrambi camminando. Con i loro tempi. Ma fate presto, per favore, perché noi qui ci siamo sotto!
Don Giampaolo Ferri è parroco e direttore dell’Ufficio comunicazioni sociali della diocesi di Mantova. L’articolo è ripreso dal sito della diocesi (qui).
Grazie Gian Piero, condivido a pieno il suo intervento. Solo chi vive il suo Ministero con “Gioia” (e non con rassegnazione) dimostra di avere quella sacra risorsa spirituale che è la Fede Matura. Le diagnosi – pessimistiche – le sanno fare tantissimi “umani”, a tutti i livelli culturali, ma il popolo di Dio missionario dalla nascita deve camminare “sempre” sulla Strada Maestra ed operare attivamente e instancabilmente in carità. Ancora grazie, saluti Fraterni a Voi Tutti
Giusto dire “è difficile essere preti” senza aggiungere oggi. Perché essere preti è sempre stato difficile anche duecento o quattrocento anni fa. Basta leggere il “Diario di un curato di campagna ” di Bernanos per comprendere che l’ essere preti ovunque e in ogni epoca storica è ed è stato difficile. Cosa ha salvato le generazioni e generazioni di preti del passato e sembra non salvare i preti di oggi ? La fede. Senza una fede robusta ,i dubbi, gli scoramento, le ansie ,le angosce, la solitudine non possono essere sconfitte. La fede robusta però sembra venire meno in gran parte dei preti. Da semplice fedele posso dire che molti sacerdoti mi sembrano degli atei ,infelici perché hanno sbagliato vita. Invece i preti che hanno fede ,anche in situazioni difficilissimi, mostrano un coraggio, una forza d’ animo che è la migliore testimonianza della verità del Vangelo. Una Chiesa ricca e trionfante, ben accetta dal mondo e alla moda ,con preti potenti e riveriti, non testimonia che la propria mondanità. E’ questo non solo oggi ,in ogni tempo è stato così.
Alla riflessione di don Giampaolo, che condivido pienamente, mi permetto aggiungere una mia paginetta dello scorso anno, che penso vada nella stessa direzione.
Pensieri in ordine sparso
Che fai nella vita? Non me lo chiede quasi nessuno, tanto lo sanno. Me lo chiedo da me, ogni tanto. Per ricordarmelo. Sono un prete, per come mi vede il mondo. Sono prete, sì, ma anche parroco, per come mi vedo io. Qualche volta proprio non riesco a smettere i panni del parroco, forse perché quelli del prete non mi bastano. E allora provo a dirla così: sono un prete tra la gente, un prete che non esiste senza la gente. E la gente non è mai astratta: è Michele, Lucia, Sergio, Anna; è quella famiglia, quel bambino, quel nonno, quei fidanzati, quella catechista. La gente è storia, è volto, è lacrima, è speranza.
Fatta questa premessa, che mi sembra importante, se dico che la Chiesa, questa Chiesa concreta, a cui tengo, vive tempi complessi, non mi danno il Nobel. Ma lo dico lo stesso: sono prete in un’epoca non facile. Raccontare oggi, con la propria vita, prima e più che con la propria bocca, di un Dio che squarcia i cieli e viene ad abitare questa nostra terra, non è per niente semplice. Prima tutto era più scontato, anche la fede. Anche la trasmissione della fede. Oggi no, oggi nulla è più come prima.
Nel 2022, mentre lentamente veniamo fuori dall’emergenza Covid e prende piede l’emergenza guerra, con la paura che si sta trasformando in pigrizia, dobbiamo fare i conti con le nostre chiese sempre più vuote, soprattutto di bambini e di ragazzi; chiese che, se si riempiono di adulti, è quasi esclusivamente per… ragioni sociali. Sì, si viene in chiesa non per fare il pieno di grazia di Dio, per un po’ di preghiera, per incontrare Gesù Cristo e la propria coscienza, o perché nella vita eterna ci crediamo davvero, ma quasi solamente perché “dobbiamo” dimostrare una vicinanza umana, orizzontale, a chi si sta sposando e ci ha invitato al suo matrimonio o ha perso un congiunto e s’aspetta che noi ci siamo. Le celebrazioni più partecipate sono, almeno nella mia Parrocchia, ma credo che ovunque sia così, proprio i funerali: tanta gente in chiesa manco il patrono San Giuseppe riesce ad attirarla e certe volte pure il distanziamento obbligatorio si è fatto fatica a mantenerlo. E allora ti chiedi: come mai tanta partecipazione quando invece, in altri momenti, ti ritrovi con le quattro fedelissime nonnine che nemmeno una nevicata tiene lontane dal Signore? La risposta è semplice: i Sacramenti hanno perso la loro verticalità, il loro legame col buon Dio, e si stanno trasformando in eventi sociali, tra uomo e uomo. Che non è poca cosa, perché abbiamo bisogno di relazioni, di amicizie sincere, ma certamente non basta.
La pandemia ha dato il colpo di grazia ad un essere Chiesa già fragile e facciamo una gran fatica a rimetterci in piedi. Ci rifugiamo nel passato, in quanto è già stato e ci dà sicurezza. O in esternazioni talmente puerili della fede che pure i bambini non ridono più, ma ridono di noi, anche di noi preti. Vivere Dio nel nostro tempo, questa è la difficoltà. Papa Francesco, che come noi cerca risposte, ci ha affidato il Sinodo sulla sinodalità, che non è un gioco di parole ma la possibilità di pregare e riflettere sul sogno di Dio per la Chiesa del terzo millennio.
Non scoraggiamoci! Ridiamo slancio alla fede, ridiamole verticalità. Coltiviamola, perché non si riduca a emozione o abitudine. Dio ci è necessario, ci diceva il Papa san Paolo VI. Ci è necessario come l’aria, in questo tempo di asfissia. Segnali positivi ce ne sono, vedi l’impegno caritativo profuso verso quanti hanno avuto serie difficoltà durante la pandemia e che continua nei confronti di tantissime famiglie bisognose dei nostri paesi; o l’empatia con quanti, soprattutto bambini, stanno soffrendo per la guerra; o il forte desiderio di pace, manifestato in forme diverse; o, ancora, la disponibilità ad accogliere famiglie in fuga dall’Ucraina. Il buono che è nell’uomo, se unito alla grazia di Dio, può diventare ottimo.
don Tonio Lobalsamo, diocesi di Bari-Bitonto, parroco a Capurso (Ba)
Quanto è stato scritto in questo articolo è davvero ammirevole per senso della realtà e per stimolo verso il futuro. Come uscire da questa situazione? Non è difficile rispondere a questa domanda. Occorre fare scelte precise in tre direzioni:
– mettere la qualità delle relazioni umane e la sincerità adulta di rapporto al centro di qualsiasi istituzione ecclesiastica e della sua vita ordinaria, a cominciare dal rapporto dei vescovi con i preti delle loro diocesi;
– evitare che il parroco sia responsabile di qualsiasi cosa nella gestione parrocchiale in modo che lasci i compiti amministrativi ed economici a chi è competente e si concentri sul cuore del suo ministero;
– valorizzare tutti quei parroci che sono capaci di “fare cultura” nelle realtà locali dove sono operativi perché il futuro ecclesiale non si misurerà sui devozionismi e sui moralismi tradizionali, ma sulla capacità di rispondere con intelligenza alle sfide della cultura di oggi e di domani (ma la formazione dei seminaristi e quella permanente dei preti sono all’altezza della situazione?);
– riorganizzare economicamente la Chiesa cattolica, anzitutto in Italia, in modo che équipes composte da preti, laiche, laici ,religiose e religiosi gestiscano in solido grandi parrocchie o gruppi di parrocchie e il denaro che non viene più utilizzato per retribuire i preti (che sono sempre meno numerosi) serva per far vivere dignitosamente gli esponenti degli altri “stati di vita” che sono parte di tali équipes (équipe che non devono per forza essere presiedute da un prete).
Per ora mi fermo qui, ma o si supera la paura di cui parlava il Card. Martini nella sua ultima intervista da vivo oppure l’insignificanza ecclesiale sarà sempre maggiore e tutti quei preti, che sono liberi nella coscienza e sono capaci di vere relazioni umane e di collaborare seriamente all’educazione interiore e sociale collettiva, si sfibreranno sempre di più perdendo energie e fiducia.
Ma alle tante lamentazioni da prefiche, vogliamo magari aggiungere un po’ della Fede del Santo Curato d’Ars, Patrono dei Parroci e non sei funzionari della fede che oggi vanno di moda? Prosit
Consiglio a tutti l’ottimo libro intitolato “L’opzione Benedetto” di Rod Dreher.
La chiesa cattolica nei duemila e passa anni, ne ha attraversate di tutti i colori, anche se molti riconoscono la secolarizzazione, io vi dico fidateVi anche Voi ministri che officiate, di quell’Amico misterioso che è Gesù egli con i fatti le parole attualissime ora e sempre nei secoli dei secoli, trascritte nel vangelo non può aver ingannato miliardi di persone che in lui si sono confidate. Basta solo fidarsi, lo so e difficile ma fidarsi è la fede solo quella potrà salvarci.
Condivido in tutto e per tutto l’ articolo di don Giampaolo Ferri. Una cristiana che interroga e si interroga…
Caro don Gianpaolo,
Ho finito giusto ieri di leggere La Pieve sull’argine di don Primo Mazzolari. Forse ciascuna comunità parrocchiale dovrebbe provare a vivere l’esperienza tentata da don Stefano di condividere il rischio di “cogestire” la comunità ecclesiale. Si lascerebbe meno solo il sacerdote e noi laici non potremmo più lamentarci che e’ sempre colpa di qualcun altro.
Lo Spirito soffia dove vuole ma noi dobbiamo farci trovare pronti con le vele spiegate.
Carissimo Don Giampaolo,
ti ringrazio per il tuo articolo che ho letto sul sito della nostra diocesi. Dopo una prima lettura mi sono detto che quanto avevi scritto sembrava “un grido” in una situazione sempre più complessa nella quale ci troviamo come preti a vivere il ministero. Non ho risposte pronte e preconfezionate che possono essere valide solo se reggono nella situazione concreta in cui si opera. In seminario ci è stato insegnato che la spiritualità di un prete ha la sua sorgente in quella che si chiama la carità pastorale. In questa prospettiva anche l’aver ascoltato un povero che bussa alla porta, quale unica persona che varca la canonica nell’arco di un giorno, è oggetto di preghiera davanti al buon Dio. E’ tutto vero quello che scrivi: sempre più non siamo considerati, ci chiedono dei servizi che noi non siamo capaci di trasformare in domande di fede, in un colpo ti arrivano sulle spalle diverse comunità cristiane da seguire e, non da ultimo, da qualche anno si comincia a parlare di ex-culturazione del cristianesimo dalla vita della gente. C’è poi una domanda che nei rapporti tra preti spesso si sente: Le comunità alle quali siamo mandati? Forse una volta quando il prete restava fermo molti anni in un paese, ma oggi con la mobilità alla quale sono sottoposti i presbiteri, non penso più di tanto o limitatamente a qualcuno che ha pietà di noi. Meglio tenere ben stretti gli amici che la Provvidenza di Dio ci ha regalato. All’urgenza in cui chiami in causa, nella parte finale, il magistero e i teologi, credo che siano chiare alcune prospettive. Inutile negarlo, ma stiamo arrivando, se non lo siamo già, ad essere una. A qualcuno questa espressione non piace e preferisce. Io preferisco l’espressione di papa Benedetto XVI che non si chiude, ma rimane aperta a tutti senza neanche la pretesa di convertire. Certo, come diceva il Card Martini (che tu stesso citi): che il vescovo Carlo Ferrari predicava spesso ai preti come prospettiva di Chiesa, ma è la situazione che ci troviamo a vivere oggi e che ci sorprende o spaventa. Ma, se ci pensi bene, è sempre stato così. Basta guardare alla storia del popolo d’Israele attestataci della Bibbia e ci accorgiamo che è sempre stato un piccolo gruppo a far ripartire. In Cina, in Iran, in Turchia, non è forse già così? Ritornando a come un prete possa esercitare il suo ministero in tale situazione che si profila in Italia e in tutta l’Europa, penso anzitutto che occorra pensare ad un prete che prima di tutto accetti di non essere più al centro e, di conseguenza, non cercato. Insomma che si converta di appartenere con libertà ad un piccolo segno senza pretese, ma sapendo che di certo é sui passi del Signore Gesù Cristo. Ma per reggere in tale situazione non vedo, per il futuro, preti che vivano da soli, isolati. Penso che in futuro verrà prima l’esperienza di presbiterio che la gente. Progettare una canonica con equilibrati spazi di autonomia e di condivisione non penso sia impossibile! Dobbiamo avere poi il coraggio di affidare molto nostro lavoro ai laici (i documenti della CEI e della CEL sulle ministerialità andrebbero presi in considerazione con urgenza perché serviranno degli anni per innervare il tessuto pastorale). Quanto alla tanta ricerca dell’essenziale della vita del prete oltre a dirlo e a scriverlo mi sembra che nessuno aiuti in tale ricerca i presbiteri nel pieno del lavoro pastorale. E’ qui che sarebbe importante recuperare uno spazio o spazi di riflessione, di confronto che uniscano tutte le generazioni. Non c’è bisogno di timbri e di ufficialità, ma solo del desiderio di pensare il futuro nell’essenzialità perché non passerà molto tempo da quando saremo travolti da una situazione completamente nuova. Tutto questo mi sembra importante perché stiamo in piedi non tanto per le cose che facciamo, ma per l’essere che siamo.
Buongiorno, io credo invece che si siano ribaltate le parti, anni fa i laici lamentavano la troppa ingerenza della Chiesa nella vita politica, oggi invece mi sembra che siano i laici a volerlo fare. La Chiesa segua il Vangelo passo passo e non si adegui o si modernizzi, la Parola di Dio non può essere modellata ai desideri della gente, c’è solo uno che desidera plasmarla e non è certamente Colui che l’ha proferita
Ottima riflessione! Grazie don Giampaolo!
Sono d accordo con l’autore ma non omogenizziamo la categoria preti.
Ad alcuni questo discorso non interessa, preferiscono la routine liturgica e casa e stipendio garantiti
Diventiamo santi e riempiremo le chiese.
Consiglio di ispirarsi al santo Curato d’Ars, pregare e sacrificarsi !!!
Condivido appieno le riflessioni. Sono un diacono e mi accorgo tante volte che il nostro popolo di Dio su tante cose è più avanti di noi. In questi tempi dovremmo saper leggerne i segni: Vocazioni sia al presbiterato sia al diaconato stanno diminuendo e all’interno della chiesa per esempio si discute ancora per esempio sul diacono che per molti diventa un tappa buchi … e sul parroco che è oberato di cose che non appartengono al suo ministero e di coinvolgere di più i laici. Ma la domanda sorge spontanea … li coinvolgiamo veramente? E altra domanda vogliono essere coinvolti? Spero che in occasione della conclusione del cammino sinodale i nostri pastori i vescovi possano essere realmente ispirati dallo spirito santo senza paura, per rendere la chiesa aperta in ascolto cero e sincero con nuove strutture solo per annunciare al meglio il Vangelo!
Quando una situazione si vive con sofferenza, il Vangelo ci dice che lo Spirito Santo in noi discerne cio’ che non appartiene al Regno : appunto, pianto e stridore di denti. Quindi di queste cose che provocano sofferenza ci sta liberando, buttandole fuori. Lo Spirito non si sbaglia perche’ scruta tutto, persino le profondira’ di Dio.
La Parrocchia non puo’ essere una comunita’ inclusiva, che ,cioe’ , chiude nel suo recinto tutti, per tenerli al sicuro mentre li si ammaestra. I cristiani vivono la Comunione, ma la comunita’ e’ espressione di un modo di essere delle aggregazioni che appartiene al passato, come al passato appartengono le tribu’. Come si puo’ essere sale, invisibili, se si e’ comunita’ visibile con vessilli, stendardi e santi protettori?
Ieri a Cascais Papa Francesco ha detto: “Quante volte si preferisce la purezza rituale, alla vicinanza umana”. In poche parole Papa Francesco ha messo in evidenza le questioni di fondo della situazione attuale della Chiesa.
Purezza rituale e vicinanza umana non sono da contrapporre o da preferire una all’ altra: sono da coltivare tutte e due. Perche’ dividere sempre con l’ accetta categorie come giustizia-misericordia, dottrina-pastorale , quando nella Chiesa sono realta’ che sono sempre state presenti insieme ?
Tutto vero, credo che manchi in noi preti e parroci la consapevcolezza che siamo in un altro mondo anche rispetto a soli 20 anni fa. Nella memoria abbiano solo il passato, immagini e strutture che si tenta di far rivivere e così si perdono le energie per cercare come annunciare oggi il vangelo che prorio in questo contesto disumano si mostra sorgente di vita. Fa pena il rifiuto della realtà in alcuni che si attaccano a forme tradizionali come anche la rassegnazione di chi cerca di continuare come sempre fatto con poco entusiasmo e rassegnazione. Credo che sia necessario capire il tempo in cui viviamo e trovare luoghi e forme di dialogo mentre sopravvive con poca possibilità di vita la pastorale tradizionale; è necessario far nascere le domande non dare risposte a chi non le cerca. La mia delusione è nella mancanza di volontà di noi preti alla riflessione comune. Personalmente ho inviato per anni ai miei confratelli di tutta la diocesi articoli per suscitare discussioni e confronto: nessuna reazione; ho attivato un gruppo di lettura su un libro (che ho regalato a chi ha partecipato, giusto per far capire quanto mi sembrava importante) con incontri mensili per il confronto: è durato qualche mese e da 12 che eravamo ci siamo sempre più ridotti per “impegni pastorali”. Anche ora continuo a studiare, scaricare articoli e resto in attesa di interlocutori, che forse non verranno, ma certamnete non possiamo aspettarci soluzioni da altri. Sono convinto che i cambiamenti nella Chiesa li provoca la storia ma se si capisce che storia stiamo vivendo e che umanità stiamo tutti vivendo… io ci provo anche alla soglia dei miei 70 anni.
Se i suoi confratelli non rispondono, perché non tentare con qualche laico??? Magari fa bene andare al di là del cerchio clericale. Tentare non nuoce. Se il mio parroco mi chiedesse un aiuto per leggere la realtà che vive, io lo aiuterei senza problemi. Sarebbe un bel esercizio di discernimento ecclesiale.
Mi ricordo bene di lei don Mauro… non scoraggiamoci!
Una riflessione sincera e lucida, sofferta e forse anche profetica. Per un laico come me, conforta sapere che ci sono sacerdoti così autentici e capaci di “sentire e riconoscere” la realtà
È questo un bel, sincero, profondo grido di dolore, di un sacerdote che si copre gli occhi e va avanti come se nulla fosse. Avrei una domanda pro-vocatoria da porre; dove sono i suoi confratelli, vedono ciò che le vede? E i vescovi dove sono? Non dovrebbero ascoltare e prendersi cura dei “suoi” preti? Ritorna la domanda di Martini: dove è il coraggio?
Mi correggo per rispetto di chi ha scritto questo articolo che apprezzo: “NON si copre gli occhi e NON va avanti come se nulla fosse”.
Da cristiano, da prete e da parroco non posso che sottoscrivere le parole di don Gianpaolo: quanta verità, lucidità e…dolore.
Spero vivamente che, prima o poi, la Chiesa che è in Italia si possa svegliare dal torpore che l’attanaglia e possa offrire processi di vita – semplicemente: Vangelo – a tutti quegli uomini e donne che si sono messi al servizio ma che si trovano spaesati e confusi in un tempo come quello che stiamo vivendo.