«Una Chiesa clericale attirerà vocazioni [preti, religiosi e religiose, laici] clericali. Una Chiesa sinodale attirerà vocazioni in consonanza con uno stile sinodale, fatto di apertura e di discernimento del proprio presente». Questa, più o meno, la frase che Francesco Zaccaria, teologo pastoralista (Facoltà Teologica Pugliese), ha pronunciato nel suo intervento (domenica 12 febbraio 2023) nell’ambito della Piccola Scuola di Sinodalità, organizzata dalla Fondazione per le Scienze Religiose Giovanni XXIII (8 gennaio-19 febbraio 2023).
È una frase che trovo in sintonia con quanto penso sul problema del clericalismo[1] e, solo in seconda battuta, sui seminari quali luoghi attualmente deputati al compito di formare i futuri preti. Provo qui a motivare il mio punto di vista, senza alcuna pretesa di esaustività.
Formazione e seminario: panacea e/o capro espiatorio?
Molti si attendono dalla formazione dei futuri presbiteri la soluzione di quasi tutti i problemi legati alla figura del prete. In questa visione, il seminarista è pensato come un pupazzo con una corda dietro le spalle. Il pupazzo camminerà speditamente (il seminarista sarà in futuro un bravo prete), se gli sarà stata girata bene la corda (avrà avuto una buona formazione).
So che le cose sono un tantino più complesse di come le ho forzatamente descritte, ma alla fine i desiderata che si annidano dietro le discussioni ecclesiali sul prete, spessissimo giungono a questa conclusione. In realtà, penso che la formazione conta quello conta. Non possiamo infatti far dipendere le lamentele sul ministero del prete quasi unicamente dal seminario (come se fosse una sorta di peccato originale).
Per questo motivo non ho mai preso parte in modo accorato a dibattiti sul valore o meno dei seminari. Certo si tratta di discussioni importanti (e di cui SettimanaNews ha dato un giusto rilievo), ma ho sempre pensato che il problema della formazione/seminario sia solo un aspetto di un problema molto più profondo e che lo precede. Lo potrei formulare con questa espressione un po’ grossolana, ma che serve a rendere l’idea: «dimmi che prete e (ancora ancora prima) che Chiesa vuoi, e ti dirò che formazione/seminario avrai».
Pratiche vs discorsi
Come ha opportunamente ricordato la teologa Cettina Militello nell’intervento che ha preceduto quello di Zaccaria, «I nostri alunni non prendono di certo i modelli ecclesiologici e ministeriali dalle aule di teologia, ma li assumono dalla vita e dall’esperienza di Chiesa che fanno».
Trasportato nel nostro problema, potremmo dire: «I nostri seminaristi non prendono come modello di ministero sacerdotale e più in generale di Chiesa quello proposto nei programmi formativi dei seminari, ma quello che vivono concretamente nelle loro parrocchie e diocesi». E, appunto, quali sono questi modelli? Su questo punto occorrerebbe riflettere maggiormente…
Il problema va, dunque, preso nella sua ampiezza, senza limitarlo a quello che può diventare, a seconda dei casi, il capro espiatorio o la chiave risolutiva di tutti i problemi: vale a dire la formazione nei seminari[2].
Tattiche clericali
Ma dirò di più. Ci sono seminaristi che, proprio per assumere da subito uno stile clericale e avere una vita molto più «libera», vale a dire meno vincolata ad orari, meno propensa a confronti alla pari tra compagni di formazione (magari di contesti ecclesiali diversi dal proprio), meno dedita all’impegno dello studio, volentieri sottoscriverebbero la posizione di chi, proprio per far fronte al clericalismo, vorrebbe abolire o rivedere i seminari (durata della permanenza ecc.).
Ci troveremmo in pratica con una situazione ancora più grave di quella attuale. Oggi, con tutti i limiti e le difficoltà del caso, ci sono anche seminari (e dunque programmi formativi) che impostano l’accompagnamento dei candidati al sacerdozio cercando di contrastare o perlomeno di problematizzare la figura del prete così come la si è percepita e vissuta in regime di cristianità.
Se, nel futuro, i seminari dovessero essere chiusi o rivisti, senza tuttavia una previa riforma del ministero sacerdotale ad ampio raggio (potere, celibato, visione sacrale ecc), correremo il rischio di avere seminaristi e futuri presbiteri ancora più clericali, narcisisti e poco motivati nello studio[3], di quanti ne possiamo avere oggi.
Ancora, se non si mette a tema la revisione profonda del ministero sacerdotale, avremo strutture formative certo più snelle e (almeno in teoria) più riferite alla vita quotidiana, ma la precomprensione attraverso cui i seminaristi assumeranno vita sarà pur sempre clericale. In una parola, avremo sempre gli stessi problemi.
[1] Per clericalismo intendo grosso modo quanto riportato dal recente contributo su SettimanaNews (8 febbraio 2022) a firma di S. Coco, La radice malata del clericalismo. Il clericalismo è sintetizzato in tre passaggi: «Il primo: una condizione di separatezza che isola il clero dal Popolo di Dio e lo configura in una sfera di sacralità. Il secondo: una condizione di superiorità che eleva il clero sopra il Popolo di Dio. Il terzo: una condizione di monopolio che assegna al clero la quasi totalità dei carismi-ministeri. Ciò comporta che il triplice munus cristologico (Cristo Re, Sacerdote e Profeta) sia appannaggio esclusivo dello stato clericale. E comporta una perdita della laicità della Chiesa».
[2] A fianco dei seminari, come chiave risolutiva, si pensa anche all’inserimento di alcuni corsi di teologia che dovrebbero far fronte a determinate carenze formative.
[3] Sul tema dello studio e, più in generale, dell’interesse dei nostri studenti per la teologia (non solo seminaristi), bisognerebbe aprire un capitolo a parte. Di certo il modello di prete “tuttofare”, che in genere il seminarista ha come metro di misura, non lo invoglia a un’attenzione al discorso intellettuale/culturale. Questo impegno richiede, infatti, altri codici comportamentali di riferimento. Con una buona dote di sarcasmo, mi viene perciò da dire che attualmente, dovendo stare in seminario, un seminarista non può non dedicare un po’ di tempo allo studio, fosse solo perché la data degli esami si avvicina. Sono consapevole che si tratta di una magra consolazione. Ma ho preso questo esempio solo per rendere più concreto il discorso che lega riforma del ministero e (solo dopo come sua legittima conseguenza) revisione della formazione al sacerdozio.
Mi sia consentita una piccola riflessione derivante dalla mia esperienza di contatto coi preti. Prima di tutto ho notato un generalizzato calo “culturale” nei preti (soprattutto nei più giovani); uno col diploma da geometra o da OSS e una infarinatura di teologia non può fare il prete (non ho niente contro geometri e OSS)… Alla Chiesa occorrono persone con una cultura elevata e che sappiano pensare con la propria testa; i seminari devono diventare (scusate il parallelismo) come una Bocconi o un MIT di Boston, in cui eccellono solo coloro che sono maggiormente dotati, sennò continueremo a sfornare un numero (sempre più esiguo) di “sfigati” che vanno a fare i preti perché solo così si sentono qualcuno (potrei fare nomi e cognomi); gente che ha difficoltà a mettere insieme soggetto, verbo e predicato; gente che parla per il solo gusto di sentire la propria voce… Scusate il giudizio molto duro ma io sono profondamente convinto che le nostre azioni (singole o di gruppo) siano governate dallo Spirito Santo e se lo Spirito Santo lascia che i seminari si svuotano, avrà le sua buone ragioni.
Da ex diplomato a un istituto tecnico prendo la sua frase come un leggero insulto personale… sinceramente la sua soluzione è intrigante, ma rischia di essere super selettiva e di creare pochi preti superdotati, ma magari lontani dal sentire del Popolo di Dio (ammesso di riuscirne a formare un numero sufficiente). Non sarebbe meglio smettere di pretendere che i preti siano dei tuttofare che in parrocchia fanno un sacco di cose diverse, e a parte le cose base tipo l’amministrazione dei sacramenti fare in modo che si specializzino nei settori verso cui sono più dotati o portati? La “scuola di eccellenza” a mio avviso sarebbe utile per i vescovi o altre figure di responsabilità, che prima di assumere il loro incarico devono essere formate a fondo, sia da esperti che figure con esperienza
Mi scuso!… Per sua consolazione anche io sono un ragioniere, quindi… Nella mia analisi, mi sono basato sulla mia esperienza personale; ho frequentato preti con una certa levatura culturale e, devo dire, che mi sono serviti molto. Per me sono stati di esempio e di guida. Certo possono esserci i rischi che lei prospetta. Per quanto riguarda la figura del prete tuttofare, mi trova perfettamente allineato e, anche in questo frangente, devo dirle che la mia teoria non è così peregrina… Ho notato che più elevata è la cultura del sacerdote, più questo è propenso a delegare e, viceversa, più la sua cultura è bassa, più è accentratore, oserei dire malfidato.
Una testimonianza personale: durante la preparazione alla Prima Comunione di un mio figlio successe un fatto imbarazzante (fine anni novanta): la catechista, una signora sulla quarantina sposata e con due figli piccoli, scappò col prete giovane della parrocchia, anche lui sui 35-40, che era molto amato dai bambini del catechismo. Sintesi amara che fece mio figlio (8 anni): Ma se non ci credono neppure loro a quello che ci insegnano! Io a Catechismo non ci voglio più andare. Io sono ateo! Cercammo di spiegare al figlio che “non bisogna giudicare” che ognuno ha il diritto di realizzarsi, ognuno ha il diritto di ricercare la propria felicità personale, non bisogna essere moralisti, Gesù tanto buono perdona tutti, Gesù tanto buono sarà felice della felicità della catechista con l’ ex- prete XY. Mio figlio non ci cascò. Con la logica pura dei suoi otto anni persistette a dire “Non ci credono neppure loro a quello che dicono”
No è laicizzando i preti che si risolvono i problemi, ma ricentrando tutte le identità ecclesiali in Cristo!… unico Mediatore!…
Ci vuole un bel coraggio oggi a voler fare il prete.
Nessuno ti ascolta.
Tutti ti condannano.
I novatori dicono che sei superato.
I tradizionalisti che non sei fedele.
Cosa devi fare?
A chi affidarti?
A Dio.
Solo a Dio lasciando perdere gli uomini e le loro fissazioni.
Ci vuole fede.
Questa è una scusa per continuare a pretendere troppo dai preti, negando loro il diritto di essere esauriti
Ha ragione.
Pretendiamo troppo dai nostri poveri preti.
Signore, da chi andremo? tu solo hai parole di vita eterna!!! [Gv 6,68]
Credo che per ri-fare i preti occorra ri-fare i seminari, attingendo anche alla Tradizione della Chiesa che per 1500 anni ha fatto a meno dei seminari. In ogni epoca ci sono stati santi e pessimi preti, indipendentemente dall’esistenza dei seminari. Occorre – perlomeno in Occidente – superare una certa visione tridentina per cui una struttura garantisce l’autenticità di una vocazione. La struttura può essere malata e coloro che si formano in essa possono, inconsapevolmente, essere “malati”. Ne ho parlato qui: https://iltuttonelframmento.blogspot.com/2020/10/cattolicesimo-borghese3.html.
Penso che la priorità attuale è rendere obbligatori e permanenti strutture di confronto tra preti e fedeli (es. Consigli pastorali). Solo così i preti capiranno che è finita l’idea che i fedeli stanno in fila per due dietro a loro. Non funziona più così e si vede che i preti non attraggono più giovani in parrocchia. La chiesa o sarà sinodale o semplicemente non sarà, quindi abbiamo bisogno di preti che sappiano camminare insieme ai fedeli nella sola sequela a Gesù, altrimenti si nutre solo egocentrismo e il narcisismo spirituale del prete di turno. Bisogna camminare insieme solo dietro a Gesù e non dietro al prete. Proprio per questo la fabbrica dei preti, i seminari, vanno o rivisti radicalmente o chiusi.
Fabrizio Ferretti, lei ha una visione della dottrina cristiana che è quella tradizionale ed è proprio quella una delle cause della crisi che sta vivendo l’identità del prete. Insistere nel sostenere che il prete debba ancora rivestire il ruolo sacerdotale di mediazione tra Dio e gli uomini è proprio una delle cause della crisi. E’ la sacralità che ha pervertito l’originaria laicità dei ministeri ecclesiali del presbitero e del vescovo. All’inizio, quando il clero non esisteva, il presbitero ed il vescovo non rivestivano alcuna funzione sacrale, non erano ministeri sacerdotalizzati, ma erano inseriti in seno alla comunità al pari degli altri ministeri, tutti con uguale dignità in forza del dono carismatico e della partecipazione al triplice munus cristologico (tutti re, sacerdoti e profeti). È stato il clericalismo intorno al III-IV secolo che ha reso clericali i ministeri, li ha separati dalla comunità e li ha elevati sopra la comunità. I moderni studi storici, esegetici e teologici hanno ormai conseguito risultati condivisi su questo che le sto dicendo. Non sono mie fantasie. Ed anche lo stesso magistero papale, con Francesco, si sta muovendo in tale direzione (legga la “Lettera al popolo di Dio). Dalla crisi se ne esce non sacralizzando ulteriormente i ministeri, ma declericalizzando gli stessi, inserendoli dentro la comunità, dentro una dimensione di laicità ecclesiale, con l’abolizione di ogni status privilegiato ed ogni differenza ontologica. Come recita il titolo di un libro di Michael Davide Semeraro “Ridotti allo stato ecclesiale” (ed. San paolo). Glielo consiglio.
> Dalla crisi se ne esce non sacralizzando ulteriormente i ministeri, ma declericalizzando gli stessi, inserendoli dentro la comunità, dentro una dimensione di laicità ecclesiale, con l’abolizione di ogni status privilegiato ed ogni differenza ontologica
Questo è quanto accaduto nelle chiese evangeliche negli ultimi secoli, ove questo processo è in fase piuttosto avanzata. Recenti studi sociologici come quelli del Pew Research Center svolti negli USA, paese prevalentemente evangelico (https://www.pewresearch.org/religion/wp-content/uploads/sites/7/2022/09/PF_2022.09.13_religious-projections_00-01.png), mi fanno pensare che non sia l’abolizione più o meno esplicita del clero la soluzione ai problemi da Lei menzionati.
Dall’altra parte, i dati diffusi da FIDES il 23 Ottobre 2022 (http://www.fides.org/en/attachments/view/file/Catholic_Churc_Statistics__2022_ENG.pdf) mostrano un aumento in termini assoluti del numero di cattolici in vari continenti, su tutti Africa (+5.3 mil), America (+6.5 mil) e Asia (+2.7 mil).
Dunque, se c’è una crisi, essa è in Europa, dove non sono in pochi a spingere per un clero desacralizzato. A prova di ciò, condivido un altro studio questa volta del CARA presso la Georgetown University (https://nineteensixty-four.blogspot.com/2023/01/where-is-mass-attendance-highest-and.html). Il Paese con il più alto numero di cattolici intervistati che vanno a Messa almeno una volta a settimana è la Nigeria (94%), seguito da Kenya (73%), Libano (69%), Filippine (56%), Colombia (54%) e Polonia (52%, unico paese europeo a superare la metà). La Nigeria tra l’altro è anche il Paese con il numero più alto di martiri cristiani (https://www.opendoorsuk.org/news/latest-news/nigeria-christians-world/).
Ha mai incontrato un prete africano “progressista”? Con questo voglio dire che mi sembra che la necessità della secolarizzazione del clero sia un problema del tutto sconnesso dalla realtà globale. Lei cita studi moderni, Le ho citato anche io degli studi moderni e, credendola una persona intelligente e in buona fede, spero rivaluterà quanto ha detto anche alla luce di questi studi.
In riferimento all’ultimo paragrafo del commento di Fabio: Io sono un prete africano, e devo dire che in Africa, i preti progressisti ci sono, e sono tanti. preti singoli. Solo le gerarchie resistono. E bisognerebbe capire perché! Solo un esempio: nel 1968, quando Paolo VI pubblica l’enciclica Humanae vitae le conferenze episcopali africane esultano quando le conferenze episcopali occidentali puntano il dito al Papa (tranne forse l’Italia). Oggi, malgrado certi tentennamenti all’inizio, mi rendo conto che la Chiesa in Africa si sta adeguando alle linee di papa Francesco. Non ho dubbio sul fatto che la stesa chiesa si allineerà alla linea del futuro pontefice, e dei futuri pontefici. L’obbedienza è nera! Ma qualche dubbio ce l’ho! Questa obbedienza de la chiesa africana è proprio ciò che Cristo chiede? Il conservatismo della chiesa africana mi pone più domande che il progressismo della chiesa occidentale. Ho seri dubbi che si tratti di un segno di una buona salute ecclesiale. Non mi addentro nella spinosa questione della secolarizzazione occidentale, ma la Chiesa in Occidente ha già fatto i suoi due mila anni, mi piacerebbe che la Chiesa in Africa giungesse anche essa a questo traguardo. Si, è possibile. Ma solo perché anche questa Chiesa africana è guidata dal Santo Spirito, e non semplicemente dai suoi preti e vescovi “non progressisti”. Anche perché l’Africa sta già vivendo una sua secolarizzazione, a tratti uguale a quella occidentale. Se il progressismo è un problema reale, dobbiamo riconoscere che a canto al conservatismo (chi è anche un problema), la Chiesa in africa patisce anche di un certo formalismo, che non ha giovato alla chiesa occidentale. Mi chiedo con quale miracolo il detto formalismo possa giovare alla Chiesa Africana! Inutile ritornare sul ruolo che il seminario assume in tutto questo.
Grazie per il suo prezioso contributo e mi scuso se sono sembrato supponente. Io amo la chiesa africana pur essendo italiano e spero di cuore che essa produrrà presto un Papa.
Non mi riferisco ad indagini sociologiche quando parlo di studi recenti, ma alle ricerche esegetiche ed alle riflessioni teologiche. Badi bene, non ho nulla in contrario alla sociologia, ma non m’interessa il dato quantitativo (ad es. la frequenza alla messa domenicale). Io posso citarle una lista molto lunga di studi esegetici e teologici a sostegno di quanto ho detto nel mio articolo. Tutta gente competente ed ecclesialmente impegnata, per nulla sconnessa dalla realtà. Per quanto riguarda le chiese evangeliche, sarebbe interessante conoscere a chi si riferisce, visto che il panorama evangelico è piuttosto vasto e frastagliato. E le dico subito che la lotta al clericalismo riguarda anche l’area delle chiese nostre sorelle di area protestante, seppur in misura qualitativamente e quantitativamente differente da noi cattolici e dalle chiese dell’ortodossia. Se il processo di declericalizzazione in area protestante ha come risultato gli evangelicals nord e sudamericani, allora le dico che non rilevo alcuna declericalizzazione in quelle comunità, molto molto integraliste e reazionarie. In realtà effettivi processi di riforma si possono riscontrare a livello di comunità di base ed a livello di movimenti (donne, ecologia, diritti civili, …). Tutte esperienze che spesso sono state oggetto di repressione da parte delle autorità vaticane e che oggi vengono riabilitate. Qualche timido processo riformatore pare essersi avviato presso alcune chiese nazionali, ad es. in Germania, e vedremo come proseguirà. Anche perchè, come sostiene Francesco, importante è avviare processi: “il tempo è superiore allo spazio … Questo principio permette di lavorare a lunga scadenza, senza l’ossessione dei risultati immediati. Aiuta a sopportare con pazienza situazioni difficili e avverse, o i cambiamenti dei piani che il dinamismo della realtà impone … Dare priorità allo spazio porta a diventar matti per risolvere tutto nel momento presente, per tentare di prendere possesso di tutti gli spazi di potere e di autoaffermazione. Significa cristallizzare i processi e pretendere di fermarli. Dare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi …, privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici. Senza ansietà, però con convinzioni chiare e tenaci” (EG n. 223)
Capisco, tuttavia se si vuole parlare di modernità non si può escludere il dato sociologico e personalmente non conosco dati che, soprattutto nel lungo termine, affermerebbero che strutture “declericalizzate” portino ad una maggiore diffusione del Vangelo. Se qualcuno li ha, vorrei consultarli.
io andrei molto cauto a prendere come buone le statistiche sulla frequenza alla Messa che si basano su autodichiarazioni degli intervistati: si sa bene che sono inattendibili, e il dato reale è poco più della metà nei casi migliori, molto meno nella gran parte
Se leggiamo la lettera di San Clemente ai Corinzi vediamo che i presbiteri erano considerati superiori ai semplici fedeli e gli si doveva obbedienza. E questo è uno dei tanti esempi che si possono trovare. Quello che sono saltati sono i meccanismi di “controllo” dei laici, come per esempio il fatto che i ministri fossero eletti o proposti da tutta la comunità e non calati dall’alto
Intanto la Dottrina Tradizionale è quella di sempre, da 2000 anni a questa parte e non c’è ne sarà un’altra tra i cattolici. Papa, vescovi e presbiteri sono sempre stati scelti da Dio tramite la vocazione e la consacrazione, a partire da Cristo, attraverso Pietro, gli Apostoli, i vescovi, i presbiteri, i diaconi. Ti dice niente la Successione Apostolica? Il prete è sacerdote ministeriale in virtù della chiamata e della consacrazione tramite il Sacramento dell’Ordine Sacro e non è, né lo sarà mai, espressione e indicazione del popolo. “e tra di essi prenderò sacerdoti per me, che annunzieranno la mia gloria”. Le istanze che sostieni sono protestanti, quindi erotiche, e se altri le condividono vuol dire che sei in buona compagnia.
Nei primi secoli della Chiesa diaconi e presbiteri venivano eletti o proposti da tutta la comunità, vedi Didache XV: è tutta la comunità che riconosceva che la persona chiamata era degna. Questo senza negare il dono che la persona riceve con l’ordinazione sacramentale
L’ultima parola è sempre spettata al vescovo in comunione col papa, scordatela un’elezione democratica di un presbitero in qualunque epoca.
San Cipriano di Cartagine dopo aver ordinato in emergenza un lettore si senti in dovere di giustificare il gesto alla sua comunità,che di solito li eleggeva o confermava. Ed era un lettore,non un presbitero
Che poi il vescovo avesse l’ultima parola è vero, ma questo non nega la realtà
dell’elezione dal basso
Sono d’accordo sulla necessità del ripensamento radicale della figura del prete a cominciare dal superamento del celibato obbligatorio e dall’effettiva equiparazione del presbitero alle persone di altri stati di vita. D’altra parte, nel Nord del mondo il seminario quale “college astraente dal mondo” è oggi del tutto anacronistico. E accanto alla revisione sostanziale dei curricula di studio accademico del candidato al presbiterato (meno dogmatica dottrinalistica, più storia, discipline psico-sociali e stimoli a saper “fare cultura”) appare inderogabile puntare a far crescere i candidati in questione nella capacità di creare e mantenere relazioni interpersonali significative e ordinare soltanto persone davvero notevoli in proposito.
Non credo sia corretto usare la parola “superamento” quando si parla di celibato.
Nessuno giovane vuole fare il prete oggi perché la figura del prete è screditata, non ha alcun prestigio sociale, a meno che il prete non si trasformi in un personaggio “moderno” e più attraente: assistente sociale, manager, psicologo, amministratore di soldi, moderatore di assemblee. Ma il semplice e umile parroco di una volta, alla Don Camillo, quello che viveva nella canonica, celebrava la Messa, impartiva i sacramenti, andava a visitare i malati, confessava i peccatori, no questo è visto oggi come un personaggio “fantozziano”, che nessun giovane vuole fare.
Don Camillo però non faceva solo quello, ma interveniva nella vita sociale e politica del paesello, spesso recuperando l’umanità ferita e mediando tra varie parti. Ecco, molti si aspettano che il prete faccia anche questo, recuperi i cocci dell’umanità ferita e li riattacchi. Inoltre guidava un carrarmato, sventolava tavoli, picchiava i comunisti, mungeva le vacche etc. tutte queste cose sicuramente potrebbero aiutare il prete a venir maggiormente rispettato.
Intanto i preti sono sempre meno, le chiese abbandonate aumentano, la frequenza ai sacramenti a livelli minimi, ma chiacchiere, carte, congressi e sinodi proliferano. Bravi.
Intanto che si celebrano i sinodi dei sinodi, il tempo passa e la chiesa in uscita sta rinnegando le sue origini e ha perso di vista ogni destinazione
Un articolo che in modo chiaro ci rimanda un concreto spaccato di vita della Chiesa. Non mettere mano alla visione ontologico-sacrale del prete, pregiudica ogni vero cambiamento. Il clericalismo è il normale ambiente in cui si forma un giovane candidato al sacerdozio. Poi il prete può essere anche social, o vestire in blue jeans… poco cambia. Inoltre mi chiedo: come interpretare il fatto che molti preti hanno un continuo bisogno di stare a contatto con la gente, l’avere sempre qualche attività da svolgere? Semplice “zelo pastorale” o “paura ossessiva” (magari non consapevole) della solitudine?
Ma di Preti revisionati nella “visione sacrale….” penso che non si sappia cosa farne. Il Gregge ha bisogno di Pastori che siano “nel mondo, ma non del mondo”. Tutto il resto è polvere
Non c’è necessità di un nuovo genere di “assistenti sociali” ma di Preti che siano veri intermediari tra il Cielo e Terra; di questo passo, la desertificazione opprimerà la Chiesa di Cristo e il Suo Gregge che in Lui confida. Povera Chiesa in mano a chi ha dimenticato la Missione afidatale dal Cristo: Custodia della Fede e Salvezza delle Anime. Probabilmente è questo che si vuole e allora…prosit!!!
Per risolvere la problematica del prete oggi, sono da prendere in visione tutti e tre gli aspetti, messi in evidenza anche dall’articolo: la vita pastorale delle parrocchie, la formazione in seminario e la vita del prete oggi. Questi tre aspetti sono connessi tra di loro e non possono essere disgiunti. Diversi seminaristi entrano in seminario con già una realtà di essere prete o presbitero, che la parrocchia o meglio i preti impegnati nella pastorale parrocchiale, trasmettono loro. Il cammino seminariale è bene che sia rivisto, già alcune diocesi lo stanno facendo, dando spazio anche a un inserimento di cammino non solo in seminario, ma anche nella vita di famiglia e a contatto con i problemi del mondo. In ultimo la vita del presbitero non deve essere principalmente sacerdotale e sacrale, ma colui che vive con coerenza il vangelo, accettando anche gli sbagli, dove il centro del ministero è sempre Cristo e la Chiesa “ospedale di campo”. Per ottenere tutto ciò ci vorrà pazienza e tempo, non dimenticando mai che c’è stato nella chiesa un Concilio Vaticano II. L’essenziale è crederci nel possibile rinnovamento e cambiamento, nell’ascolto dello Spirito Santo.