Il futuro del prete sarà legato a un ministero sinodale, dentro una Chiesa sinodale. L’appartenenza al presbiterio (con e sotto il vescovo) costituirà l’ambito di accettazione, verifica e progettazione del servizio presbiterale nelle Chiese locali. In conformità all’ecclesiologia conciliare.
Al vivace dibattito promosso da SettimanaNews sul prete e sulla parrocchia,* vale la pena di aggiungere un riferimento a ciò che i vescovi hanno indicato in un recente testo, frutto di una lunga elaborazione: Lievito di fraternità. Sussidio sul rinnovamento del clero a partire dalla formazione permanente (San Paolo, pp. 78).
Quattro anni di lavoro, due seminari di studio (2013, 2014), un’assemblea generale straordinaria della Conferenza episcopale (2014) con un messaggio dedicato ai preti, un lungo impegno della Commissione episcopale per il clero e la vita consacrata, il coinvolgimento delle Conferenze episcopali regionali e della Commissione presbiterale nazionale. Infine, l’approvazione di massima da parte dell’assemblea generale del CEI nel maggio del 2016 e il mandato al Consiglio permanente per la definitiva stesura, con la pubblicazione in occasione dell’assemblea CEI (maggio 2017).
Un lavoro chiuso in tono minore per l’avvenuto ricambio della Commissione incaricata, per il profilo volutamente modesto del documento (un sussidio) e per una recezione piuttosto scarsa, se non distratta.
Tre passaggi
L’accento posto sulla formazione permanente è meno marginale di quanto possa apparire e segna tre passaggi rilevanti:
a) la formazione seminaristica non «produce» un prete, ma avvia un ministero che si forma nell’esercizio della pastorale, dentro una Chiesa locale e in un presbiterio specifico (con e sotto il vescovo);
b) la vita comune del seminario chiede un’esperienza di vita comune anche nel concreto del servizio presbiterale;
c) si comprende il presbiterio non a partire dal vescovo, ma il vescovo a partire dal presbiterio, lasciando il modello di Ignazio di Antiochia per una modalità di pratica dell’episcopato di tipo sinodale, testimoniato da Clemente Romano e Ireneo.
Il testo si sviluppa in otto capitoli, con un’introduzione e una conclusione, cui si aggiunge il discorso del papa all’assemblea del 2016: costruttore di comunità, strumento della tenerezza di Dio, la profezia della fraternità, l’amicizia con il Signore, nella libertà della sequela, non un burocrate o un funzionario, con la gioia del Vangelo, ritorno alla radici.
Vi si trovano molte conferme: l’indicazione teologica del ministero come carità pastorale, la centralità della parrocchia, la collocazione del servizio nell’ecclesiologia conciliare con la priorità del popolo santo di Dio, la spiritualità fondata sull’eucaristia, uno stile segnato dalle promesse di obbedienza, di celibato e di povertà di vita ecc. Mi limito a indicare tre linee più prospettiche: la formazione permanente, la maturazione umana oltre che spirituale, la responsabilità nella gestione economica.
Formazione permanente
La formazione permanente non è un’aggiunta volontaria a un deposito di verità e a un insieme di prassi pastorali già sufficienti. Non rappresenta la rincorsa imitativa a quanto ogni professionalità oggi richiede e verifica. Non si esaurisce nella modalità didattica, nella costruzione di un certo numero di relazioni professorali e teologiche. È «un dinamismo che coinvolge la dimensione umana, spirituale e intellettuale del pastore» (p. 9). «Siamo convinti che la formazione permanente debba compiere un salto di qualità, per passare da esperienze occasionali a progetti organici, strutturati per un cammino di rinnovamento complessivo della vita sacerdotale» (p. 69).
La formazione permanente attraversa sia la dimensione personale (letture, preghiera, confronti), sia quella dei gruppi spontanei fra preti (visite, pellegrinaggi, discussioni) o fra convocazioni delle diverse età, sia a livello di intero presbiterio (ritiri, giornate pastorali, contatti con altre Chiese locali). Se il presbiterio è «un unicum sacramentale, che non rimanda a una determinazione giuridica o organizzativa, ma una dimensione fondamentale dell’identità del ministro ordinato» (p. 23), cioè rendere presente il Cristo che visita la vita degli uomini per stare in mezzo a loro, guarirli e salvarli, allora in esso ci si santifica e il compito comunionale non è un’aggiunta.
«È più importante essere a servizio della comunione e viverne l’unità, che spendersi da soli in un attivismo convulso» (p. 24). «Non si è presbiteri senza o a prescindere dal vescovo e dai confratelli» (p. 24).
È dal vissuto pastorale pregato, riflettuto e condiviso che emerge il discernimento dello Spirito in ordine al proprio ministero. Per questo è necessario investire una o più persone in ordine a dare forma adeguata ai cammini proposti.
Come è necessaria la formazione iniziale, senza la quale vi sono esiti interiori e umani negativi, così è preziosa la formazione permanente. Ad essa è necessario dare una struttura stabile, con una o più persone, dedicate a favorire il riconoscersi del ministro come soggetto attivo e responsabile della propria formazione.
Su questo orizzonte prende figura la vita comune del clero. Essa – «che certo non può essere imposta, ma proposta e sperimentata – rende possibile una solidarietà ben più rilevante dei compiti pastorali che assume, e apre a maggiore conoscenza e comunicazione sul piano umano e spirituale». «Come tali costituiscono un’occasione di conversione missionaria della pastorale con cui scrivere non tanto un altro capitolo di geografia ecclesiastica, ma una nuova pagina di storia della spiritualità del presbiterio diocesano» (p. 28).
Maturità umana
L’intero testo è attraversato da una costante preoccupazione per la maturazione umana del presbitero, strettamente connessa a quella spirituale. «Contemplando il Cristo – che ha assunto il volto dell’uomo a partire da quello più abbandonato –, il ministero ordinato accosta le persone con umiltà e gratuità, attento a cogliere in ogni dimensione umana un’attesa a cui la speranza cristiana è chiamata a offrire risposte. Tale spessore di umanità si forma vivendo con cuore aperto e sincero le relazioni quotidiane, secondo uno stile pastorale che già in sé si rivela una forma di evangelizzazione» (p. 11).
«In questa luce, la sventura che mai dovrebbe accadere a un prete è quella di trascinarsi in un ministero esercitato in maniera puntuale, ritualmente perfetto e dottrinalmente completo, ma disincarnato sul piano delle relazioni umane. La carità pastorale è insidiata dalla tentazione della mediocrità, sulla quale ci si adagia quando non si ha il coraggio di mettersi in discussione, di affrontare ogni giorno le proprie debolezze e lasciarsi correggere dalla parola di Dio, da quella dei confratelli e del proprio popolo. Si tengono allora per sé – come fossero private – certe zone della vita nelle quali non si accetta che alcuno entri, nemmeno lo Spirito di Dio» (p. 19).
L’impegno amministrativo
Un intero capitolo è dedicato alle questioni amministrative e burocratiche. A testimonianza di un’inquietudine crescente dei preti davanti a compiti sempre più vasti (per il moltiplicarsi delle parrocchie affidate) e a procedure civili sempre più complesse. Ma anche a sottolineare la preoccupazione davanti a schegge impazzite che gestiscono i beni come questioni personali senza confronti e criteri, minacciando la tenuta degli stessi conti diocesani.
a) L’impegno burocratico e amministrativo è parte della responsabilità pastorale. Domanda di ripensare l’utilizzo delle strutture in essere, di educare la comunità alla conservazione e alla valorizzazione dei beni, di programmare gli investimenti «in modo tale da non trovarsi gravati da edifici che non solo non serviranno, ma si riveleranno un peso o una fonte di esposizioni debitorie sproporzionate rispetto alle concrete possibilità (pp. 45-6).
b) Il consiglio pastorale e il consiglio degli affari economici debbono essere coinvolti nei bilanci preventivi e consuntivi, evitando il rischio dell’accumulo personale, dell’indistinzione fra beni personali e beni della comunità, dell’ignoranza degli indirizzi diocesani e della CEI.
c) L’estendersi delle unità pastorali renderà sempre più importanti le competenze dei laici in merito all’economia, forme di perequazione fra le parrocchie e supervisione diocesana.
d) È «essenziale far crescere mentalità e procedimenti corretti e virtuosi che consentono di amministrare con correttezza e trasparenza» (p. 51).
E gli abusi?
La qualità del testo suggerisce molti elementi aggiuntivi. Ne accenno soltanto tre.
Se il presbiterio non è solo la somma dei preti, né semplicemente un corpo ecclesiale, ma un «unicum sacramentale», si apre la dimensione a una specifica spiritualità che vale per tutti (carità pastorale), ma che si declina nella storia, nelle forme e nelle singolarità della Chiesa locale. In tale contesto il riferimento all’esperienza del presbitero religioso sarebbe utile (esercizio ministeriale dentro una specifica spiritualità). Come la vita comune dei religiosi può essere un utile confronto con l’auspicata vita comune del clero.
In secondo luogo, vi è un’assenza significativa: quella degli abusi del clero. In tutto il processo di formazione del documento la drammatica vicenda è sempre stata presente, ma sottotraccia. Non c’è ancora un’adeguata parola pubblica dell’episcopato e della Chiesa italiana in merito.
Infine, il seminario. L’uscita della Ratio fundamentalis (8 dicembre 2016) ha ristretto gli spazi di invenzione in ordine alle modalità di gestione o alla reinvenzione dei seminari. Come, del resto, va segnalata l’assenza di ogni accenno di discussione sui “viri probati”, alla possibilità di preti con famiglia.
Nell’insieme si respira una grande attenzione al linguaggio, alla cura e alle preoccupazioni per il clero più volte espresse da papa Francesco.
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Note e riflessioni
I tre elementi su cui lavorare molto come fa notare l’autore dell’Articolo sono:
1. Silenzio imbarazzante sui problemi sessuali dei presbiteri. Ancora non c’è una adeguata presa di coscienza sia per gli “abusi” ma anche per gli “usi” della sessualità e alla vita affettiva dei presbiteri. Attenzione: la pedofilia non è causata dall’omofobia ma è una parafilia dell’eterosessualità. L’omosessualità non è da condannare ma di valorizzarne gli aspetti di maturità e sensibilità… ma ancora…
2. L’auspicata vita comune dei presbiteri è al centro dello sviluppo ecclesiale delle comunità parrocchiali per incrementare la loro disposizione a essere scapoli e capaci di servizio reciproco nella comunità senza prevaricazione di potere. La stessa vita comune dei religiosi però attraversa anch’essa molte crisi di identità con tentazioni di superamento verso un individualismo sempre pronto ad emergere.
3. Sperimentare una nuova gestione dei seminari aperta a esperienze di formazione permanente e di rinnovamento per i preti con diversi anni di ministero.
Ho letto la presentazione del documento sulla formazione permanente del clero, prima di aver letto il commento stesso, nella speranza che esso mi desse delle piste di lettura. E queste me le ha date. Ritengo che il cuore di tutto il documento sia nella riscoperta spirituale e umana del sacramento del presbiterato come un unicum nella vita dei preti. Se non si parte dalla convinzione che si è preti insieme, non si rinnoverà nulla di veramente ecclesiale nelle nostre chiese. Ogni prete cercherà di essere santo da solo, non ricordando l’ammonizione di sant’Agostino (mi pare) che afferma “guai al solo” riferendosi al fedele, ma ancor più, credo, al sacerdote. Infine mi pare che sia ora che si riconoscano ai laici le loro responsabilità di essere Chiesa a tutti i livelli anche pastorali. E’ ora che abbiamo il coraggio di affidare a loro l’amministrazione dei beni ecclesiastici. Sono convinto che non faranno maggiori danni di quelli che hanno fatto i preti anche perché la gestione dei beni materiali è un loro compito specifico anche professionalmente parlando. La supervisione del loro lavoro sarà poi compito sia dei consigli economici parrocchiale sia dell’economato diocesano. Ma è essensiale che i preti siano liberati da questi “affari” che sono ben lungi dalla “preghiera e dall’annuncio della Parola” che Gli Apostoli si erano riservati per sè al momento di provvedere alla mensa delle vedove e dei poveri (e qui, almeno si trattava di carità). Uno sguardo più profondo dovrà essere riservato amcora alla formazione seminaristica che non mi sembra adeguata alla figura del prete delineata anche nel documento. E qualcosa di più preciso andrà detto anche sulla figura del Vescovo… “buon Padre di famiglia…”. Comunque, grazie dell’articolo.
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