Il dialogo che si è sviluppato online attorno all’ordinazione diaconale delle donne cattoliche è rimarchevole, fra l’altro, perché istruisce in modo succinto – ma non superficiale – le questioni sulle quali urge un discernimento ecclesiale. Fra queste sono emerse anche la presidenza maschile dell’Eucarestia e il suo valore di rappresentanza sacramentale del Figlio fatto uomo.
La maschilità di Gesù Cristo
La scelta di qualificare la maschilità di Gesù come kenotica si mostra efficace: descrive l’elemento chiave del modo in cui il Figlio di Dio ha assunto la sua parzialità umana maschile, risignificandola; rammenta che l’esaltazione di Cristo Gesù ha ottenuto a chi nel suo nome piega il ginocchio (cf Fil 2,9-10) la liberazione dai gravami del peccato, anche quello incistatosi nella relazione fra uomini e donne (cf Gn 3,16); invita tutti i discepoli (maschi) a vivere le loro relazioni sessuate secondo tale logica, che estingue in radice ogni forma di dominio (maschile).
Dunque, si può dire che la maschilità di Gesù Cristo è strutturalmente kenotica. Questa sua kenosi è strutturalmente maschile? Strutturalmente è divina, essendo lo svuotamento del Figlio espressione dei rapporti intratrinitari; storicamente essa è avvenuta in un corpo maschile, secondo la divina condiscendenza: è stato necessario, nella pienezza dei tempi, un Messia maschio, altrimenti irriconoscibile e irricevibile. Tale asimmetria invita a non ingigantire il valore della maschilità, essendo decisivo, per la salvezza, quello della kenosi, cioè il fatto che Gesù Cristo ha assunto la “condizione di servo” ed è divenuto “simile agli uomini” (anthropoi), come richiama anche il Credo: et homo (non vir) factus est.
Nondimeno, può essere istruttivo interrogarsi sul senso teologico della maschilità di Gesù Cristo, disposizione divina che solo di recente ha iniziato ad essere esplorata. Essa è un dato di fatto contingente, ma non irrilevante – perché è il modo concreto e irreversibile con cui l’umanità ha incontrato Dio nel Figlio Gesù – e non insignificante, nel senso di muto o indifferente, ma è bene riconoscere che la tradizione non la carica di particolare valore salvifico1.
Certamente questo senso teologico della maschilità di Gesù dovrà essere investigato tenendo in debito conto la secolare ipoteca degli stereotipi di ruolo sessuale e dei condizionamenti che hanno connotato la relazione fra uomini e donne a svantaggio di queste ultime: dei presupposti patriarcali di cui sono intrise le nostre società ci si è accorti solo quando le donne hanno avanzato le loro legittime rimostranze e, di essi, molti (uomini e donne) ancora oggi non si rendono conto. Soprattutto, non si potrà pretendere di determinare il senso teologico della singolare maschilità di Gesù in termini evidenti e incontrovertibili, perché essa pertiene al mistero inesauribile della volontà divina e dell’identità divina.
Che cosa possiamo effettivamente conoscere del rapporto fra il corpo sessuato di Gesù Cristo e il suo corpo risorto? Sappiamo però che nel corpo glorioso di Cristo c’è spazio per l’intera umanità, maschio e femmina (con tutte le “complicazioni” del caso), e che Dio è al di là del maschile/femminile. Insomma, non è prudente considerare la singolare maschilità di Gesù Cristo priva di significato e non è prudente sovraccaricarla di valore simbolico, magari compiendo scelte (esclusive, definitive) sulla base di elementi di senso in fondo inattingibili.
La maschilità del ministro ordinato
L’associazione tra questa scelta divina (assumere un corpo umano maschile) e la sua rappresentazione ad opera di un ministro ordinato maschio non dovrebbe (non può più) essere considerata come un’evidenza che va da sé: essa pone problema. L’inconsistenza dell’argomento di convenienza della “naturale rassomiglianza” – che significativamente Ordinatio sacerdotalis non riprende – è già stata sufficientemente vagliata, per cui ci limitiamo a indicare che il vero nodo problematico è un altro: il ministro ordinato è chiamato a rappresentare Cristo o piuttosto a essere a servizio della Sua presenza2?
Il ministero ordinato è un servizio reso al sacerdozio battesimale (o comune), che è poi l’unico sacerdozio che Dio ha voluto per il suo popolo, essendo Gesù Cristo l’ultimo e l’unico Sacerdote3. Chiunque – una volta che il suo carisma è stato riconosciuto e vagliato – è nelle condizioni di servire l’intero popolo sacerdotale in nome di Cristo. Cioè, di fatto, in persona Christi: questa formula – che nel secondo millennio è stata riservata ad alcune funzioni dei ministri ordinati durante la celebrazione eucaristica – andrebbe spiegata meglio, relativizzata per non impiegarla in senso esclusivo, e intesa sempre nella strutturale interazione fra l’azione del ministro in persona Ecclesiae – che è fondativa – e quella in persona Christi, che è una conseguenza.
«È solo agendo in persona ecclesiae che il sacerdote agisce in persona Christi. Secondo la tradizione i sacerdoti presiedono all’eucaristia perché presiedono alla chiesa. L’ordine inverso non si verifica4». Questo invita a un’ultima riflessione.
Il senso della presidenza
Per comprendere il senso della presidenza – in questa inedita stagione della Chiesa, profeticamente incentrata sulla sinodalità – conviene rimettere a tema il rapporto fra vita cristiana, sacerdozio e celebrazione eucaristica. Ghislain Lafont5 lo fa a partire dall’unità nella differenza fra la Pasqua di Gesù, il suo sacrificio eterno sempre offerto al Padre nell’amore, il sacrificio spirituale della Chiesa nel tempo e il sacrificio sacramentale dell’Eucaristia, che manifesta e rende presenti l’uno all’altro il sacrificio della Testa e quello dei membri.
Ora, il “sacrificio spirituale” dei cristiani (cf Rm 12,1) è l’esercizio della carità nei diversi ambiti della vita e il “sacerdozio” cristiano è quello della comunità dei fedeli che vive questa carità mettendo a disposizione i suoi carismi. Pertanto, la realtà sinodale è intrinsecamente legata al sacrificio di Gesù, anzi: è la peculiare forma di sacrificio spirituale che il Signore domanda oggi alla sua Chiesa.
Su tali basi, il valore della presidenza diviene meglio intelligibile. Ogni leadership ecclesiale altro non è che una certa incarnazione dell’autorità di Gesù Cristo, perché ogni forma di autorità esercitata nel Corpo rende presente, a suo modo, l’autorità del Capo. Poiché ogni leadership deve interagire con le altre, occorre qualcuno che abbia l’autorità globale sulla comunità: un “moderatore” che presieda la comunità riconoscendo, attivando e coordinando i carismi, le autorità, i poli di attività in essa presenti.
La persona che presiede questo sacrificio spirituale della comunità – la ricerca sinodale dell’armonia dei carismi in vista della missione evangelizzatrice – dovrebbe presiedere anche l’Eucarestia, vertice e fonte della vita cristiana ove i credenti attingono il senso di questo loro sacrificio unendosi misticamente a quello di Cristo con le loro esistenze liberamente offerte. In effetti, chiunque detenga questo carisma di presidenza comunitaria è ordinato, in principio, a presiedere anche la celebrazione eucaristica, precisamente perché quest’ultima dona alla costruzione sinodale la sua realtà definitiva.
Oggigiorno, però, per presiedere una celebrazione eucaristica occorre (basta) essere ministri ordinati (uomini), al limite anche se non si ha niente a che fare con la vita della comunità in cui si celebra. Ha pienamente senso? A quali condizioni un’altra persona – che effettivamente presieda alla sinodalità di una comunità – potrebbe compiere questo atto finale di presidenza?
1 Cf. A. Röper, Ist Gott ein Mann? Ein Gespräch mit Karl Rahner, Patmos Verlag, Düsseldorf 1979, 66-78.
2 S. Noceti ne disquisisce in A. Grillo (ed), Senza impedimenti, Queriniana 2024, 111-118 segnalando anche l’istruttivo confronto in proposito – a partire dal senso di in persona Chisti – fra Sara Butler e Dennis M. Ferrara.
3 Cf. il recente intervento di F. Rossi De Gasperis, «L’umorismo della Lettera agli Ebrei», Il Regno – Attualità 8 (2024) 257-269.
4 Cf. H. Legrand, «Traditio perpetua servata? La non-ordination des femmes. Tradition ou simple fait historique?», in P. De Clerk – É. Palazzo (ed.), Rituels. Mélanges offerts à Pierre-Marie Gy, Cerf, Paris 1990, 410.
5 Riprendo qui alcune sue riflessioni svolte lungo i decenni della sua ricerca e riprese sinteticamente alla fine della sua vita in Petit essai sur le temps du pape François, Cerf, Paris 2017 e in Le catholicisme autrement?, Cerf, Paris 2020, che rappresentano un sapiente testamento spirituale.
- Pubblicato sul blog di Andrea Grillo Come se non.
Prima considerazione: Per dirla tutta il Figlio di Dio si è incarnato non solo maschio, ma anche israelita, della tribù di Giuda e della dinastia del Re Davide, come ci indicano le genealogie di Matteo (1,1-17) e di Luca (3,23-38). Quindi per essere veramente onesti i ministri ordinati dovrebbero maschi ebrei della tribù di Giuda e della dinastia del Re Davide, ma la Chiesa non considera la nazionalità e il casato come condizioni per ìl sacerdozio ministeriale.
Seconda considerazione: Gesù identifica se stesso con chiunque abbia fame, o abbia sete, o sia forestiero, o sia nudo, o sia malato o in carcere (Matteo 25, 31-46). Gesù supera i nostri piccoli schemi e ci indica la via da seguire. Egli è il Maestro che è sempre avanti a noi.
Come si può notare, alla fine i dibattiti giungono a incrociarsi intorno alla storia. Poi si torna a divergere.
Per alcuni non bisogna cadere nel riduzionismo “storicista”, e a fronte di ciò si invoca il “freno teologico” (dunque non storico), ovvero quel sapere che rivela e articola le profondità di Dio (dunque un sapere vero perché dà voce alla verità).
Per altri non si dà fede cristiana se non nella storia (esperienza, vita, condizionamenti) perché essa costituisce il “luogo teologico” (e non la semplice l’applicazione di un sapere altrimenti noto).
Su questa seconda opzione mi sembra lavori Castiglioni quando scrive: “Dunque, si può dire che la maschilità di Gesù Cristo è strutturalmente kenotica. Questa sua kenosi è strutturalmente maschile? Strutturalmente è divina, essendo lo svuotamento del Figlio espressione dei rapporti intratrinitari; storicamente essa è avvenuta in un corpo maschile, secondo la divina condiscendenza: è stato necessario, nella pienezza dei tempi, un Messia maschio, altrimenti irriconoscibile e irricevibile”.
Davvero inesplorato il rapporto tra “in persona ecclesiale” e “in persiana Christi” anche in ordine alla validità del sacramento dell”ordine. Se viene meno l’uno, viene meno anche l’altro. Certamente, seppur accennato nell’articolo, a livello teologico rimane poco articolato tra sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale. A riguardo il bellissimo numero della “Lumen gentium” scomparso dal dibattito teologico … ahimè!!! Da lì bisognerebbe partire per capire cosa è il ministero.