Ringrazio Settimananews perché costituisce un luogo di confronto teologico senza “vidimazioni”, sponsor istituzionali, riconoscimenti dietro le quinte. Ciò fa sì che possiamo andare zu den Sachen selbst, alle cose stesse!
Provo anch’io a dire qualcosa partendo dal dibattito in corso tra Massimo Nardello e Andrea Grillo in merito al diaconato femminile. Io sono a favore del diaconato femminile e senza “pregiudiziali” del tipo: sì, ma blindando nel dettaglio la sua concezione e i suoi compiti, onde evitare di passare poi ad altri gradi del sacerdozio. Io, al contrario, credo che per ora la Chiesa sia chiamata a dare “questa” risposta, lasciando ai credenti del futuro la capacità e possibilità di discernere su cosa sarà più opportuno. La Chiesa deve e dovrà farlo cercando di mettere in campo procedure. Aggiungo solo che a questo proposito il Diritto canonico (chi l’avrebbe mai detto sotto il pontificato di papa Francesco!) sta diventando il grande (non unico) convitato.
Costruire una tradizione
In merito al dibattito vorrei riferirmi ad alcune posizioni di Nardello che credono necessitino di un ulteriore approfondimento. Per prima cosa credo che Massimo ponga la Scrittura e la tradizione come una sorta di argine (normatività) rispetto alle istanze culturali. Ed è proprio questo presupposto che occorre “decostruire”. Ho usato apposta questo termine, molto caro ad esempio al teologo Pierre Gisel, perché non credo sia un termine da proibire nella teologia. Decostruire significa smontare, capire, collegare tenendo presente i rapporti di forza (potere), le istanze e i valori che muovono ad alcune scelte (un presente) e i desideri di legittimazione (politica). Non si tratta di un’operazione obbrobriosa.
Decostruire non significa annientare; significa ragionare. Quanto alla tradizione, significa mostrare gli ineludibili presupposti culturali attraverso cui lo Spirito parla alle Chiese. La tradizione risulta una costruzione a partire da vari fattori. Una costruzione che, a sua volta, fa storia perché lega e crea identità. Ho detto “lega” e “crea”, proprio per sottolineare che la tradizione non è una meteorite che giunge dal cielo, o un fatto contro cui urtiamo. A chi pensa: dato che è una costruzione, allora è falsa; devo rispondergli che dire “falso” presuppone che ci sia un vero nel senso di “esteriore”, non fatto da mani d’uomo.
Sui fattori che sostanziano le tradizioni mi sto occupando da un po’ di tempo (nei prossimi mesi uscirà un mio volume in proposito). Ebbene, entrando in dialogo con teologi dal calibro di Ruggieri, Theobald, Seewald, Gisel, Grillo, storici come Certeau, e soprattutto filosofi come Nietzsche e Foucault, comprendo bene come la tradizione costituisca “un gesto fondamentalmente storico” (Gisel). Un gesto attraverso cui possiamo finalmente concepire le continuità non più (o non tanto) come ritrovati storici, bensì come produzioni di senso entro discontinuità di tempi, mentalità e credenze. Vorrei dire molte cose su ciò, ma non mi dilungo, e passo alla seconda considerazione.
Storia e dottrina
La seconda questione che il dibattito tra Nardello e Grillo mette in evidenza riguarda, a mio avviso, l’ermeneutica della storia in teologia. Faccio però due precisazioni.
In primo luogo, non ho detto una “corretta” ermeneutica della storia. Confesso che provo un senso di insofferenza quando sento i teologi utilizzare aggettivi qualificativi. I concetti non si rafforzano con gli aggettivi ma con le argomentazioni. Nessuno quindi sta dicendo che dobbiamo parlare a casaccio. Io non amo la teologia degli slogans e cerco, per quanto mi è possibile, di non cadere in questo tranello.
Una seconda aggiunta. Quando parlo di ermeneutica della storia in teologia, non intendo le imitazioni (copie sbilenche e addomesticate) della filosofia della storia di un Vico, di uno Schelling o di un Hegel, di cui una certa letteratura teologica ha dato prova fino a un ventennio fa. Per storia intendo, come direbbe Lonergan, quella vissuta, che viene poi narrata e interpretata criticamente dalla storiografia. Non una storia speculativa (metafisica), in cui cioè i giochi sono fatti in partenza. Ma anche su questo punto non posso addentrarmi.
Fatte queste due precisazioni, dico subito che la questione di una ermeneutica della storia in teologia è stata affrontata, a mio avviso in modo serio e convincente, da Giuseppe Ruggieri nel corso della sua lunga ricerca. Il teologo siciliano la esplicita soprattutto (ma non solo) quando affronta il problema dell’essenza e/o della verità del cristianesimo[1]. Studiando l’utilizzo del termine “verità” del cristianesimo, egli ammette quale sia stato l’esito finale: l’adeguamento del cristianesimo alla sua dimensione dogmatica.
A questo proposito scrive: «la dialettica, tra l’egemonia dottrinale del cristianesimo da una parte e la sua dimensione vissuta di imitazione del Cristo dall’altra, costituisce uno dei motivi di fondo della storia cristiana e vi si inserisce come spina lacerante»[2]. Più avanti Ruggieri spiega che «le fonti manifestano sempre un dinamismo dialettico dell’esperienza cristiana, per cui questa non adegua mai quello che essa ha ricevuto». Pertanto, «il problema della “verità” del cristianesimo non è concettualmente o istituzionalmente risolvibile in maniera adeguata […] La storia ha visto il moltiplicarsi di tante regole, definizioni, strutture per venirne a capo del problema stesso. Ma la verità sfugge alla presa»[3].
Uno tra i compiti post-sinodali
Proprio collegandomi a questa caratterizzazione della verità cristiana, credo che occorra lavorare per una ricomprensione del magistero, almeno nella sua formulazione dopo il motu proprio Ad tuendam fidem (1998). Sto parlando ovviamente di quel magistero che per comodità chiamo “definitivo”, vale a dire riguardante (come dicono i documenti) quelle dottrine attinenti al campo dogmatico o morale che, sebbene non siano formalmente rivelate, sono ritenute necessarie per custodire ed esporre fedelmente il deposito della fede[4]. Insomma, per chi intende la teologia nel binomio produttivo di vocazione/professione (Berufung) c’è molto da fare!
Sul diaconato alle donne nella Chiesa cattolica
Nardello: Il diaconato femminile, due cautele
Grillo: Il diaconato alle donne, lettera a Massimo Nardello
Nardello: Il diaconato alle donne, risposta ad Andrea Grillo
Dianich: Il diaconato alle donne, del buon uso della tradizione
[1] Come fa per ogni questione teologica, Ruggieri cerca di evidenziare il retroterra storico e culturale della questione. Attraverso questa “storia dei concetti” (Begriffsgeschichte) o “storia delle idee” teologiche, Ruggieri non sta però facendo quella che, scolasticamente/manualisticamente, in teologia è definita la “parte storica”, ovvero una parte non ancora propriamente teologica ma semplicemente preambolare (e asservita) ad una “sistematica”. Questo perché la storia non rappresenta il contorno di una verità altrimenti nota, ma “forgia” quel problema. In base dunque al peso che si accorda a questo luogo generativo, dipende anche il tipo di teologia che uno produce. Aggiungo che, intorno a questa storia della teologia e dei suoi concetti, Ruggieri ha dato il meglio di sé negli scritti deli anni Novanta del secolo scorso. Si vedano, ad esempio, quei termini che di solito appaiono come scontatissimi punti partenza nella teologia: “rivelazione”, “credibilità”, “dottrina” etc., ma che, in realtà, nascono in specifici contesti e si portano dietro un tale mondo (contese, violenze, accordi, compromessi, reticenze). Per non parlare poi della decostruzione che Ruggieri ha offerto a proposito dei “fortini disciplinari” (teologia fondamentale nello specifico).
[2] G. Ruggieri, Cristianesimo, Chiese e vangelo, Il Mulino, Bologna 2002, 44.
[3] Ib., 65.
[4] Cf. J.-F. Chiron, L’infaillibilité et son objet. L’autorité du magistère infaillible de l’Église s’étend-elle aux vérités non révélées?, Cerf, Paris 1999. Sulla discussione aperta dal motu proprio Ad tuendam fidem, si veda l’intero numero di «Cristianesimo nella storia» 21 (2000), con interventi di G. Alberigo, J.P. Boyle, J. Gaudemet, P. Hünermann, J. Komonchak, A. Melloni, D. Menozzi, G. Ruggieri, S. Scatena e C. Theobald.
Ho seguito con molto interesse il dibattito relativo al diaconato femminile dal quale si evince ancora una volta la grande difficoltà, che si riscontra all’interno della chiesa e di conseguenza della teologia, di individuare quel luogo dove iniziare questa benedetta opera di “DECOSTRUZIONE” senza la quale non si inizierà mai nessun auspicabile rinnovamento. Ricordo una cara amica che tutti in parrocchia avevano soprannominato la “femminista” che spesso diceva simpaticamente al parroco: “Non voglio sostituirti a dire messa, ma neanche voglio per tutta la vita pulire la chiesa o fare quello che tu mi proponi….”. Aumentare gli spazi democratici dentro la chiesa non sarebbe male… sapendo che anche dentro la democrazia si muove l’opera dello Spirito.
Chiedo cortesemente all’autore, qualora fosse possibile , un piccolo approfondimento per favorire la comprensione di questa frase .
“Comprendo bene come la tradizione costituisca “un gesto fondamentalmente storico” (Gisel). Un gesto attraverso cui possiamo finalmente concepire le continuità non più (o non tanto) come ritrovati storici, bensì come produzioni di senso entro discontinuità di tempi, mentalità e credenze. ”
L’autore ha già anticipato che non può dilungarsi al riguardo ma è un’affermazione che mi affascina notevolmente e desidererei comprenderla ulteriormente.
QUANDO LA TRADIZIONE È SUFFRAGATA DALLA TRADUZIONE
È chiesto a fine articolo l’intervento di teologhe e teologi sulla questione del diaconato femminile… nessuno spazio per una semplice “laica”?, ci provo lo stesso!
La mia riflessione nasce dopo aver letto gli articoli di don Massimo Nardello, del prof. Andrea Grillo e dei vari commenti apparsi su Settimana News, in merito alla possibilità/opportunità di concedere alle donne il ministero del diaconato.
Parto dalla lettura della lettera ai Corinzi 15,5 Paolo parla delle apparizioni del Risorto a Pietro, ai dodici (forse undici) ai cinquecento non facendo menzione che prima apparve alle donne, precisazione apportata successivamente dagli evangelisti (Mt 28,9-10),(Mc 16,9-11),(Lc 24,1-12)(Gv20,1-18)..e da li in avanti parlando di discepoli si è sempre fatto riferimento ai maschi (ma in quel plurale ci sono anche le donne … perché ci sono discepole e discepoli insieme!)
Anche in Mt. 26,17-20 i “discepoli” chiedono dove ti dobbiamo preparare la Pasqua? Ci immaginiamo i dodici che cucinano, preparano, servono, oppure è lecito pensare che … fossero anche donne (Mc 15,40-41, Mt 27,55-56 Lc 23,49)?
Certo siccome a quel tempo le donne non avevano voce in capitolo, non avevano una soggettività è stato facile lasciar intendere con il plurale utilizzato – discepoli – che fossero solo maschi, ma passati 2000 anni qualche soggettività, qualche riconoscimento del valore, del pensiero, della sensibilità femminile è stato fatto… e non è bello pensare che ciò è avvenuto in tutti gli ambiti sociali …tranne uno; la Chiesa.
La diaconia è stata istituita perché servire alle mense toglieva, agli apostoli, tempo da dedicare alla Parola….quanti servizi rendono le donne al giorno d’oggi: servire alle mense dei poveri, ma anche cucinare, organizzare e assistere chi è nel bisogno (Caritas, San Vincenzo ecc.), pulizia degli spazi ecclesiali, dei paramenti, dei lini per l’altare, sistemazione delle panche e delle sedie, catechismo, lettorato, distribuzione dell’Eucarestia portandola anche agli ammalati cui fanno visita regolarmente, cantano anche l’Exsultet a Pasqua (quando il presbitero non riesce a farlo per intero) mettono a disposizione la loro creatività facendo lavori manuali di ricamo e cucito con i cui proventi aiutano la Parrocchia, gestiscono le corali…….e altro ancora! Più diacone di così… e senza attestato!!
Offrire almeno alle donne – a quelle già preparate (e quante brave teologhe abbiamo anche in Italia) la possibilità di predicare dall’ambone – possibilità attualmente interdetta – lasciando che la sensibilità femminile (certamente diversa da quella maschile) tragga dalle Scritture il messaggio evangelico… non per stravolgere, ma come dice il salmo: “una parola ha detto Dio, due ne ho udite” (61,12)
Questo un primo passo, un piccolo passo che può essere l’inizio per percorrere una strada, per qualcuno al momento, impraticabile!!! … anche se Gesù ci ha lasciato come esempio la possibilità di osare rispetto alla prassi.
Mi permetto di dire che, fermo restando l’interesse per il/del dibattito, ad oggi manca una cornice entro la quale avviare un’opera di decostruzione, per usare un termine caro all’autore di questo testo. In secondo luogo forse un’attenzione alle ragioni teologiche di ciò che avviene già fuori dalla nostra Chiesa renderebbe il tutto meno (pesantemente) cattolico.