Ci sono perdite che non scuotono solo il cuore e gli affetti delle persone più vicine, della comunità cristiana in cui la fede è stata vissuta come appassionato servizio alla fede degli altri e come cura affettuosa sulle loro vicende umane, ma rendono anche un po’ più povera tutta una Chiesa locale.
Lo sono perché la storia di chi ci ha lasciato si è intrecciata, attraverso le generazioni, con quella di uomini e donne che hanno intessuto il loro vissuto, personale e civile, sulla trama del Vangelo del Signore. Lo sono perché questi intrecci fecondi si sono sviluppati in congiunture della Chiesa e del mondo in cui essi hanno saputo inserirsi con sapienza, rigore, e amore per la parola di Dio.
Un tessuto comunitario allargato, il cui disegno viene a toccare e segnare nel tempo tutta una Chiesa locale, non è mai l’opera di un singolo: ci vogliono molte mani, ci vogliono spiriti liberi che sanno gioire dei doni che gli altri apportano all’edificazione di una Chiesa desiderosa di vivere all’altezza del Vangelo, e alla costruzione di una città che sia umanamente abitabile da tutti – senza esclusioni di nessun genere.
Qualcosa del genere sta vivendo la Chiesa di Bologna con la morte di don Tarcisio Nardelli, parroco dal 1989 della comunità del Cuore Immacolato di Maria alla periferia nord della città. E lo sta vivendo non solo perché i suoi 56 anni di ministero hanno intersecato molti aspetti della vita diocesana (assistente FUCI, Azione Cattolica e AIMC; missionario in Tanzania e direttore dell’Ufficio diocesano per l’attività missionaria; parroco e delegato per le Missioni ad gentes), ma soprattutto per il modo in cui don Tarcisio ha messo la sua fede a servizio della vita di una Chiesa e una città, ampliandone gli orizzonti e rendendole sensibili alle marginalità che esse continuano a produrre nelle loro logiche ecclesiali e politiche.
Ha chiesto esplicitamente che, con la sua morte, non si parlasse di lui ma si lasciasse parlare la parola di Dio. Anche se in un qualche modo stiamo tradendo questo suo lascito, abbiamo il dovere di raccoglierlo proprio nel tentativo di abbozzare una memoria grata e fedele.
In fin dei conti, è molto semplice: il Vangelo come ministero, niente di più niente di meno di questo. Il Vangelo come ministero vuol dire non assuefarsi mai alla parola di Dio, ma sentirla e viverla nella propria carne sempre come un’istanza critica che, al tempo stesso, inquieta e introduce nella gioia della fede; vuol dire la pazienza di costruire legami comunitari che ti portano e custodiscono nel momento stesso in cui ti spendi per essi; vuol dire trovare il giusto e difficile equilibrio per stare ai crocicchi delle strade della storia umana e ritirarsi sul monte dell’intimità con Dio nell’esercizio di una preghiera fedele che intercede per tutti coloro che sono stati incontrati su quelle strade; vuol dire l’umiltà di apprendere dalla fede e dalla vita di altri la direzione verso cui orientare il proprio ministero.
Vuol dire molto altro, e ognuno che ha conosciuto don Tarcisio può mettere il suo tocco personale su questo ministero che cercava di farsi Vangelo, davvero buona notizia capace di aderire con rispetto a ogni storia di vita che incontrava.
Quando figure come quella di don Tarcisio vengono meno, è dovere di una Chiesa locale e di una comunità parrocchiale chiedersi cosa questo significhi per loro. Non volgendosi nostalgicamente al passato, oramai saldamente custodito nella nostra fede, ma guardando ai giorni che verranno e, soprattutto, alle generazioni a venire. Nel fare questo, che credo fosse il suo desiderio, ci sentiamo certo tutti un po’ più soli, ma non orfani. Segno di una paternità buona del ministero che è riuscita a generare alla maturità della vita cristiana.
E mentre ora “egli danza” con il “Dio che balla fra i muri e broli col cuore pieno di terra e di mari” (Pasolini), noi ci sentiamo tutti portati dall’accordo di questa musica e passi che ci ha fatto gustare stando tra noi – appunto, il Vangelo come ministero.
Ero in carcere e mi è venuto a trovare portandomi conforto ma anche i suoi abiti!