Il recente annuncio dello spostamento di un certo numero di preti nella diocesi di Bologna ha ancora una volta colto del tutto di sorpresa le comunità interessate, non senza qualche disappunto. Proprio mentre in diocesi è aperto e in corso di svolgimento il processo sinodale, che dell’ascolto diffuso e della comunicazione fa uno dei pilastri di uno stile capace di esprimere la natura del «camminare insieme» proprio delle comunità cristiane, ci si domanda se la ripetizione della prassi consueta nel trasferimento dei preti non sia stata in questo caso un’occasione mancata. Alcuni amici hanno condiviso con noi delle riflessioni.
Sono da sempre abbonata ad Avvenire, ora in digitale, con il relativo inserto di Bo7.
Sono spontaneamente attratta, all’apertura dell’inserto domenicale, dalla pagina che contiene «Il cartellone», una sorta di gazzettino/notiziario di novità, che permette di sapere un po’ di cose di «famiglia ecclesiale». Il paragrafo «Nomine» è un angolino di sapore: da lì in genere si imparano i trasferimenti dei preti da una parrocchia all’altra, o meglio, sempre di più alle altre.
In genere per me sono sorprese. Mi piace, grazie a quelle poche righe del «Cartellone», seguire il cammino territoriale di molti preti che conosco, perché incrociati in tante esperienze, che negli anni hanno toccato varie sponde della diocesi.
Capita che dopo la lettura delle novità avvengano tra amici anche scambi di chat: «Hai visto? Sapevi qualcosa? Te l’aveva detto? Te lo ricordi? Poveretti quelli che se lo prendono! Che fortunati! Speriamo bene per lui…».
Questo il botto della notizia.
Più seriamente sono convinta che lo «spostamento» corrisponda nella vita del prete e nella responsabilità del vescovo a un passaggio tutt’altro che leggero e disinvolto, pregno di significato, inserito pienamente nell’esercizio del ministero presbiterale ed episcopale.
Sono altrettanto convinta che non si tratti solo di un affare da sbrigare, meglio se liscio e non conflittuale, tra vescovo e prete, ma di un evento che non può limitarsi a toccare le comunità cristiane solo nelle conseguenze, positive o negative che siano.
Non ho intenzione di appellarmi ad alcun diritto/dovere presunto o di fatto in capo alle comunità per sostenere la necessità del loro coinvolgimento rispetto al trasferimento del «loro» prete.
Mi soffermo piuttosto su un profilo della vita comunitaria che, se trascurato in questi passaggi, lascia l’amaro in bocca e la consapevolezza di dovere fare ancora tutti molta strada.
Il prete, con tutte le variazioni del caso, negli anni della sua permanenza in una comunità «fa famiglia» o per lo meno è chiamato a farla, auspicabilmente in una corrispondenza di intenti: non so se questa sia un’esperienza piena diffusa, difficile infatti non vedere anche tante solitudini, chiusure e corazze, che provocano inghippi nell’efficacia pastorale oltre che malesseri esistenziali e nelle relazioni.
Allora penso al momento in cui, o per maturazione personale o per richiesta del vescovo, un prete intravvede la necessità o l’opportunità di andare via dalla parrocchia in cui è rimasto per anni.
In ogni caso, deve intendersi come occasione di grazia, anche a caro prezzo, e di libertà obbediente.
Ma perché la possibilità dello spostamento diventi un fatto significativo, qual è il cammino che il prete compie personalmente, nel rapporto con il vescovo e con la comunità? Mi sembra giusto che la comunità, e non mi sfugge certo la gradazione di vicinanza e di confidenza delle persone con il prete, sia parte importante dell’esercizio di discernimento rispetto al cosa fare, perché anche la comunità è chiamata a crescere nel riconoscere nella volontà del Signore quello che è meglio e per questo ad accompagnare il prete nella costruzione di una decisione consapevole e serena.
Può essere che lo stesso prete, dopo un certo numero di anni, senta il bisogno di rinnovarsi e si ponga la domanda sull’opportunità di un suo trasferimento: perché non coinvolgere anche la comunità nella ricerca di prospettive buone?
C’è bisogno, certo, di molti elementi per fare questo cammino comunitario, compresa la conoscenza del disegno pastorale chiaro e complessivo sotteso alle scelte del vescovo rispetto alla collocazione dei preti.
Nell’attuale situazione, il trasferimento di un prete richiede il concomitante trasferimento di un confratello. A questo riguardo, solo uno sprovveduto può pensare che la realizzazione del disegno non conosca gli intoppi provocati anche dalle reazioni di preti orientati diversamente e non disponibili a spostarsi per i più svariati motivi, con conseguenti e reiterati adattamenti del progetto pastorale e organizzativo nel suo complesso.
Pazienza occorre, da molte parti, e sguardo lungo, in un cammino in cui tutti abbiamo molto da imparare. Ma nella ricerca della convergenza comunitaria, in cui l’ascolto, il confronto, il volersi bene, la franchezza e anche la durezza dei passi devono avere spazio ed espressione, sta la pace della Chiesa.
La lettera del vescovo con cui nella Messa domenicale si annuncia che il prete va da un’altra parte dovrebbe essere l’epilogo di un cammino in cui tutti ci si riconosce, che non sorprende, non delude, non offende e non provoca mormorazioni.
Da qui anche con il «magone» per il distacco tra persone che si stimano e si vogliono bene può consolidarsi la capacità di dire grazie e di sperare ancora una volta nella novità del Vangelo.