In questi ultimi cinquant’anni che ci separano dalla fine del concilio Vaticano II l’insegnamento della Lumen gentium sul ministero episcopale è stato ripetutamente spiegato, elogiato e difeso dai teologi. Pur essendo frutto di alcuni compromessi, la costituzione ha comunque messo in campo una teologia dell’episcopato in grado di completare quanto aveva affermato il Vaticano I sul rapporto tra papa e vescovi. Pensando al collegio episcopale in continuità con quello dei Dodici e al ruolo del papa come analogo a quello di Pietro all’interno del gruppo apostolico (cf. LG 22), il documento conciliare ha potuto finalmente valorizzare il ruolo dell’episcopato in senso collegiale, ponendolo insieme al suo capo, il vescovo di Roma, alla guida dell’intera Chiesa.
Con il pontificato di papa Francesco, il tema della collegialità, introdotto così faticosamente dal Concilio, si è improvvisamente consolidato e sviluppato al punto tale che la teologia non ha più bisogno di tutelarlo di fronte ad orientamenti antagonisti.
Il pontefice stesso ha affermato esplicitamente che «non v’è dubbio che il vescovo di Roma abbia bisogno della presenza dei suoi confratelli vescovi, del loro consiglio e della loro prudenza ed esperienza» (cf. Francesco, Episcopalis communio, 10).
Questo ci consente di aprire una fase nuova nella lettura della Lumen gentium, in cui è possibile riconoscere i limiti della sua dottrina sull’episcopato senza il timore che questa operazione favorisca un ritorno alla teologia e alla pratica preconciliare.
Va cambiato il modello di riferimento
Mossa dal bisogno di riequilibrare il rapporto tra papa e vescovi, la costituzione sulla Chiesa ha sviluppato la sua teologia dell’episcopato non solo a partire dal Nuovo Testamento, ma anche dalla teologia patristica, dal momento che la visione del ministero episcopale dei primi secoli non soffriva ancora di quel centralismo papale che si sarebbe poi sviluppato a partire dal 2° millennio. Tuttavia, in questo modo, la Lumen gentium ha consegnato alla Chiesa un modello di episcopato che, sul piano della guida pastorale, è realmente praticabile solamente in comunità con le caratteristiche di quelle antiche, cioè numericamente molto ridotte e in cui presbiteri e diaconi sono molto vicini al vescovo o addirittura vivono con lui.
È evidente che oggi il quadro è molto differente, dal momento che, in molte diocesi, i presbiteri e i diaconi incontrano il vescovo solo qualche volta all’anno e in modo repentino, mentre la maggior parte delle persone non ha alcuna possibilità di relazionarsi personalmente con lui.
Questa discrepanza tra il modello episcopale patristico e la situazione attuale è stata colta acutamente da alcuni osservatori non cattolici durante il dibattito conciliare. Costoro osservavano che oggi sono i parroci i veri successori dei vescovi del cristianesimo antico (cf. J. Ratzinger, L’insegnamento del Concilio Vaticano II. Formulazione – Trasmissione – Interpretazione, Opera Omnia VIII/1, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2016, 475), perché, al pari di questi ultimi, sono loro ad essere in rapporto quotidiano con il gregge e a vivere in mezzo ad esso.
Effettivamente, anche se sul piano sacramentale per essere vescovi occorre ricevere l’ordinazione episcopale, su quello funzionale l’osservazione degli osservatori non cattolici è pertinente. Ai nostri giorni è il parroco e non il vescovo colui che stabilisce che cosa sia il Vangelo e la missione della Chiesa per coloro che vivono in una comunità parrocchiale. Anzi, se un parroco finisse per ridurre la sua proposta dell’esperienza cristiana all’aspetto che gli è più congeniale – la carità verso i poveri, l’impegno nel mondo, la liturgia ecc. –, ad una devozione particolare o all’insegnamento di uno specifico maestro spirituale, non vi sarebbero vie percorribili per imporgli un approccio pastorale più illuminato. Il suo modo di essere cristiano, con i suoi pregi e i suoi limiti, diventa comunque il modello con cui la sua comunità è obbligata a confrontarsi.
Il vescovo dovrebbe essere “padre”…
Ancora, l’impossibilità per la maggior parte dei presbiteri e diaconi di frequentare assiduamente il vescovo rende difficile considerarlo un vero e proprio padre nella fede (cf. LG 28), al di là della sua santità personale e delle sue qualità pastorali. La paternità spirituale, infatti, consiste nel condividere la propria esperienza credente, e questo richiede non solo la parola – cioè, la predicazione –, ma più ancora una relazione frequente. Senza di essa non si può essere padri, ma solo offrire qualche buon consiglio nei momenti di difficoltà.
Eppure, ancora oggi, si tende a confondere la realtà con la teoria teologica indicata dalla Lumen gentium, dando per scontata la paternità episcopale anche in quei contesti in cui, di fatto, non può attuarsi in ragione del numero dei presbiteri e dei diaconi di cui un vescovo dovrebbe prendersi cura. Da questo punto di vista, sarebbe meglio formare i nuovi ministri ordinati nella consapevolezza che essi difficilmente potranno avere nel loro vescovo quel padre di cui parla la costituzione sulla Chiesa, anche se potranno comunque contare sul confronto quotidiano con la loro comunità e con alcuni dei loro confratelli.
Il nodo “unità pastorali”
Un altro tema in cui si evidenzia il carattere problematico della visione conciliare dell’episcopato è quello delle unità pastorali costituite da parrocchie che hanno parroci differenti. Questa struttura suppone una visione patristica dell’episcopato, secondo la quale il vero pastore della Chiesa locale è il vescovo, mentre i presbiteri sono solamente i suoi collaboratori chiamati a portare avanti la sua visione pastorale, ovviamente stabilita in dialogo sinodale con tutte le componenti della Chiesa locale.
In questo quadro, diventa possibile che diversi parroci possano guidare le loro comunità in modo unitario, dal momento che non sono altro che esecutori intelligenti e creativi degli orientamenti comuni dati dal vescovo. Di fatto, però, il vero pastore di una parrocchia è il parroco, perché è lui che è presente quotidianamente al suo interno, che ne conosce le problematiche e che ha la possibilità di interagire con le persone che la compongono. Ora, se i parroci di parrocchie raccolte in unità pastorale hanno una visione un po’ diversa di cosa sia il Vangelo e di quali debbano essere le priorità pastorali, qualunque collaborazione tra di loro e tra le loro comunità sarà ovviamente pregiudicata in partenza.
Una nuova comprensione dell’episcopato
Per uscire da queste difficoltà, occorre andare oltre la teologia dell’episcopato della Lumen gentium, non nel senso di regredire ad una visione monarchica dell’autorità ecclesiale, ma di considerare il Concilio un punto di partenza e non più una meta.
È necessario, soprattutto, superare il modello teologico del Vaticano II, cioè quello del ritorno alle fonti bibliche, patristiche e liturgiche, perché queste fonti ci consegnano un modello di ministero episcopale non più praticabile.
D’altra parte, i tempi sono maturi per un passo di questo genere. Negli anni ’60, quando l’eco della teologia controriformista e soprattutto della lotta contro il modernismo aveva imposto la convinzione che la fede della Chiesa fosse rigidamente immutabile, non si potevano far evolvere le prospettive teologiche se non ritornando alle fonti, la cui validità non era messa in discussione da nessuno.
Oggi, dal momento che si comincia a riconoscere nella Chiesa la possibilità e la legittimità di un vero e proprio sviluppo dottrinale caratterizzato anche da una certa discontinuità, diventa possibile ipotizzare una nuova comprensione dell’episcopato che, pur in sintonia con l’insegnamento neotestamentario, possa configurare un servizio episcopale realisticamente realizzabile.
È difficile intuire i tratti di questa futura e ipotetica comprensione del ministero episcopale. Forse, però, essa passerà necessariamente attraverso il ripensamento e la valorizzazione del presbiterio. Probabilmente, questo non potrà più essere inteso come l’insieme dei “figli spirituali” del vescovo che, a loro volta, diventano i padri delle loro comunità, ma come un gruppo di presbiteri che guidano la Chiesa locale e le comunità che la compongono sotto la direzione e la supervisione del ministero episcopale.
In altre parole, l’accento dovrebbe spostarsi dalla figura del singolo vescovo – che, in un certo senso, dovrebbe perdere di importanza sul piano teologico – a quella collegiale del presbiterio. In fondo, a ben vedere, la prassi delle nostre Chiese locali sembra già andare in questa direzione.
In effetti è necessario un ulteriore passaggio, graduale ma essenziale: adottare il metodo sinodale, collegio dei presbiteri e laici “adulti”, uomini e donne, anche a livello delle comunità locali. La struttura della parrocchia, come è impostata dal tridentino in poi ,non ne ha favorito la crescita in gran parte delle comunità, ma l’idea conciliare di popolo di Dio, fondamentale nella Scrittura, sollecita un ulteriore sviluppo nella concezione della sinodalità.
Speriamo che ci sia anche tanto spazio per i laici nel collaborare.
Saluti