La Chiesa è il popolo di Dio che cammina nella storia, in quanto è costituita da uomini e da donne chiamati a interpretare e a vivere la fede cristiana all’interno del loro tempo. Così secondo DV 8 questa fede è qualcosa di vivo, di dinamico, tanto che viene trasmessa da una generazione dei credenti all’altra nella forma di una Tradizione. Non ci si deve stupire, quindi, che ogni contenuto dottrinale sia oggetto di uno sviluppo, pur all’interno di una continuità fondamentale: lo Spirito del Signore guida la sua Chiesa ad una comprensione sempre più profonda dell’esperienza cristiana, anche per dare risposta alle nuove e diverse situazioni in cui essa deve svolgere la sua missione.
Anche sul tema dell’autorità ecclesiale sono avvenuti diversi cambiamenti nell’arco della storia. Nel NT essa è nata come una funzione dei Dodici e degli altri apostoli, quella di custodire l’autentica fede in Gesù nelle comunità cristiane, con tutto ciò che questo poteva comportare. Proprio il bisogno che l’esperienza cristiana non fosse fraintesa dai credenti ha fatto sì che gli stessi apostoli scegliessero dei successori, poi definiti vescovi, in grado di continuare questo loro compito dopo la loro morte (cf. lettere pastorali).
Questa visione molto precisa e delimitata dell’autorità, però, si è ben presto modificata, e ha ceduto il passo ad una visione ben più ampia. In particolare, tra il XIX e il XX secolo, l’autorità è stata compresa in analogia all’ambito civile, dove rappresentava il fondamento dell’unità degli stati nazionali. Questi, infatti, essendo divenuti laici e non potendo più contare su una condivisa fondazione religiosa, rischiavano di frammentarsi a causa dei diversi e contrastanti interessi dei loro cittadini. Solo se questi avessero obbedito ad un’autorità forte e unitaria, si pensava, questa frammentazione sarebbe stata scongiurata.
Di fatto, la stessa visione è entrata nella teologia cattolica del tempo e ha plasmato la mentalità di intere generazioni di credenti: secondo tale visione, anche la Chiesa ha bisogno di ruoli forti e autoritari, per evitare di frammentarsi e di collassare. Per mantenere in vigore questa concezione politica, però, sia nello stato sia nella Chiesa l’autorità doveva essere riconosciuta e celebrata come una figura di ordine superiore, cioè dotata di una dignità maggiore degli altri individui, perché da questo dipendeva l’unità e la stessa sussistenza dell’intera collettività.
Tale condizione non poteva che essere evidenziata da una serie di riti, di modi di vestire, di elevata condizione economica e di altri privilegi.
Il Vaticano II ha recuperato la visione dell’autorità ecclesiale caratteristica del NT e della prima patristica, e ha quindi cambiato sostanzialmente questa impostazione. Così LG 32 insegna che «vige fra tutti [i membri della Chiesa] una vera uguaglianza riguardo alla dignità e all’azione comune a tutti i fedeli nell’edificare il corpo di Cristo». Dunque, tutti i credenti hanno la medesima dignità, sebbene possano avere ruoli e responsabilità molto diversi nelle loro comunità.
Questa visione conciliare rende ormai inutile, e anzi dannoso, tutto ciò che in passato è servito a sottolineare la dignità superiore di coloro che erano rivestiti di autorità. Ovviamente, non si tratta di mettere in discussione il loro ruolo in quanto tale, ma solamente quelle consuetudini, quei titoli onorifici o quei compiti ormai poco più che formali che, in altri tempi, hanno contribuito ad esprimere la loro condizione di superiorità, ma che oggi non sono più in sintonia con la visione conciliare di Chiesa.
Certo, occorre tutelare il ruolo di chi ha ricevuto un ministero ecclesiale, ma questo lo si fa con una buona catechesi che illustri le ragioni e la vera funzione di quel ministero, e non celebrandone una presunta superiorità.
Purtroppo, se nei primi anni del postconcilio si sono cercate nuove vie per mettere in pratica la convinzione che tutti i cristiani hanno la medesima dignità, da alcuni decenni si ha l’impressione che talora vi sia un ritorno a stili ecclesiali passati, in cui si sottolinea volentieri la differenza di rango tra chi detiene un ministero e gli altri membri del popolo di Dio.
Anche le persone che accedono oggi ai vari servizi ecclesiali, sebbene la loro età li faccia supporre figli del Concilio, rivelano in alcuni casi un certo desiderio più o meno esplicitato di accedere ad una dignità ecclesiastica superiore come modo per trovare finalmente un’identità, per sentirsi qualcuno di importante.
La situazione più disgraziata si determina quando il celibato viene accettato passivamente come condizione per accedere a questa condizione di superiorità, e non scelto liberamente per accogliere il dono carismatico di vivere una certa solitudine affettiva perché essa sia riempita da una presenza speciale dello Spirito del Signore. Da opzioni del genere possono derivare solo grandi disastri, sia per gli interessati che per le loro comunità.
Ancora una volta, lo stile di papa Francesco – il suo modo di vestire molto semplice, l’essenzialità dei suoi paramenti liturgici, il suo dialogare con le persone ecc. – unitamente alla sua evidente capacità di assumersi le onerose responsabilità del suo ruolo, dimostrano che un buon esercizio del ministero ecclesiale non dipende dal senso di superiorità che si è in grado di esprimere, ma solo dalla propria fedeltà al Vangelo e dalla disponibilità a vivere fino in fondo l’incarico ricevuto dal Signore.