Il 30 novembre 1919, al termine della prima guerra mondiale, Benedetto XV ha reso pubblica la lettera apostolica “Maximum illud” con cui inaugurava una nuova epoca della missione “ad gentes” della Chiesa. Il papa esortava i missionari a entrare nelle peculiarità culturali dei popoli e, soprattutto, a formare un clero locale. Padre Gabriele Ferrari, missionario ed ex superiore generale dei Padri Saveriani, commenta in questo articolo scritto per la rivista Testimoni (n. 9/2019), il grande significato di quella lettera apostolica e gli sviluppi che ne sono derivati nella comprensione della missione evangelizzatrice della Chiesa fino all’attuale visione di papa Francesco.
Il 22 ottobre 2017 papa Francesco ha indetto un mese di straordinaria animazione missionaria in occasione del centenario della promulgazione della lettera apostolica Maximum illud, pubblicata il 30 novembre 1919. Con quella lettera Benedetto XV volle rilanciare la responsabilità missionaria del popolo di Dio, lo fece con i termini della teologia di allora che non aveva ancora aperto un capitolo sulla missiologia.
Era il 1919, e da poco si era concluso quel tremendo conflitto mondiale, che Benedetto XV, solo, in mezzo a molti che sostenevano la validità di quella guerra, aveva osato chiamarla un’«inutile strage». In quel novembre 1919 il papa avvertì la necessità di rilanciare la missione nel mondo riqualificandola evangelicamente, perché fosse libera da qualsiasi incrostazione coloniale e si tenesse lontana da quelle mire nazionalistiche ed espansionistiche che tanti disastri avevano causato.
Una Chiesa universale per nulla straniera
Oggi Francesco ripete la parola di Benedetto XV il quale afferma che «la Chiesa è universale, per nulla straniera presso nessun popolۚo» ed esorta a rifiutare nella missione qualsiasi forma di interesse, in quanto solo l’annuncio e la carità del Signore, diffusi con la santità della vita e con le buone opere, potevano giustificare la missione.
Benedetto XV, con un linguaggio per noi oggi obsoleto, si proponeva di dare speciale impulso alla missio ad gentes e, in particolare, alla creazione del clero locale e di risvegliare, in modo speciale presso il clero, il senso della responsabilità missionaria. Consigliato dal beato Paolo Manna e con l’autorevole appoggio di san Guido Maria Conforti, Benedetto XV promosse l’Unione missionaria del clero, convinto che da una migliore coscienza missionaria dei preti sarebbe venuta una generale lievitazione della coscienza missionaria nel popolo cristiano.
Non si sbagliava. I decenni seguenti portarono, infatti, un notevole risveglio missionario che sfociò nel concilio Vaticano II. Francesco sa che anche oggi ci sarebbe bisogno di un simile rinnovamento per riprendere lena nell’accogliere con nuovo fervore il perenne invito di Gesù: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura» (Mc 16,15). Obbedire a questa parola del Signore non è un’opzione facoltativa accolta da alcuni, che in tal modo sgraverebbe gli altri dalla loro responsabilità, né può essere un’opera buona da fare una volta all’anno… La coscienza missionaria è una dimensione perenne della vita cristiana ed ecclesiale; un «compito imprescindibile», come opportunamente ha ricordato il concilio Vaticano II che ha fatto evolvere positivamente la dottrina della missione e ha affermato che la Chiesa è «per sua natura missionaria» (Ad gentes 2) .
I pontefici successivi
Paolo VI ha ulteriormente chiarito che «evangelizzare è la grazia e la vocazione propria della Chiesa, la sua identità più profonda» (Evangelii nuntiandi 14). Per corrispondere a questa identità e proclamare il vangelo del Signore crocifisso e risorto, volto della Misericordia che salva, «è necessario che la Chiesa, sempre sotto l’influsso dello Spirito di Cristo, segua la stessa strada percorsa da questi, la strada cioè della povertà, dell’obbedienza, del servizio e del sacrificio di se stesso» (Ad gentes 5) e offra così al mondo un «modello dell’umanità nuova, cioè di quell’umanità permeata di amore fraterno, di sincerità, di spirito di pace, che tutti vivamente desiderano» (ibid. 8).
Quello che chiedeva Benedetto XV cent’anni fa e che il decreto conciliare Ad gentes ha riproposto ormai più di cinquant’anni or sono, non è stato ancora realizzato: «La missione di Cristo redentore, affidata alla Chiesa, è ancora ben lontana dal suo compimento». Anzi se guardiamo il mondo, dobbiamo riconoscere che «la missione è ancora agli inizi» (Redemptoris missio 1). Questo nel 1990, quando Giovanni Paolo II scriveva Redemptoris missio.
Francesco ripropone di nuovo all’attenzione di tutti l’urgenza di continuare questa impresa chiedendo un «rinnovato impegno missionario», nella convinzione che la missione «rinnova la Chiesa, rinvigorisce la fede e l’identità cristiana, dà nuovo entusiasmo e nuove motivazioni» (ibid. 2). Mentre oggi dobbiamo riconoscere che in molti luoghi, soprattutto del mondo occidentale, la fede sembra perdere slancio, la comunità cristiana troverà ispirazione e sostegno grazie a un rinnovato impegno nella missione universale.
Francesco, indicendo il mese straordinario della missione, ha ricordato che «la causa missionaria dev’essere la prima», anche perché è il paradigma di ogni opera della Chiesa. La missione è un impegno improrogabile: «Ha un significato programmatico e dalle conseguenze importanti. Spero che tutte le comunità facciano in modo di porre in atto i mezzi necessari per avanzare nel cammino di una conversione pastorale e missionaria, che non può lasciare le cose come stanno. Ora non ci serve una “semplice amministrazione”. Costituiamoci in tutte le regioni della terra in uno “stato permanente di missione”» (Evangelii gaudium 25).
Il papa invita a intraprendere, con fiducia in Dio e coraggio, «una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione. La riforma delle strutture, che esige la conversione pastorale, si può intendere solo in questo senso: fare in modo che esse diventino tutte più missionarie, che la pastorale ordinaria in tutte le sue istanze sia più espansiva e aperta, che ponga gli agenti pastorali in costante atteggiamento di uscita e favorisca così la risposta positiva di tutti coloro ai quali Gesù offre la sua amicizia. Ogni rinnovamento nella Chiesa deve avere la missione come suo scopo per non cadere preda di una specie d’introversione ecclesiale» (Evangelii gaudium 27).
Il coraggio di varcare i confini
La lettera apostolica Maximum illud aveva esortato i fedeli, con spirito profetico e franchezza evangelica, a varcare i confini della propria nazione per testimoniare la volontà salvifica di Dio nella missione universale della Chiesa. Vogliamo sperare che la celebrazione del centenario di questo importante documento stimoli i cristiani di oggi a superare la ricorrente tentazione d’introversione ecclesiale e di chiusura autoreferenziale nei propri confini sicuri, e di pessimismo pastorale o di sterile nostalgia del passato, per aprirsi invece alla novità gioiosa del Vangelo.
Anche in questi nostri tempi – scrive Francesco – dilaniati dalle tragedie della guerra e insidiati dalla voglia “sovranista” di chiudere le proprie frontiere, accentuando le differenze, e di fomentare gli scontri, «la Buona Notizia che in Gesù il perdono vince il peccato, la vita sconfigge la morte e l’amore vince il timore sia portata a tutti con rinnovato ardore e infonda fiducia e speranza».
Cercare cammini adatti al nostro tempo
Celebrare il centenario della Maximum illud che, a suo tempo, ha dato impulso alla missione ad gentes, chiede inoltre di cercare con libertà e parresia quei cammini missionari che sono i più adatti al nostro tempo per realizzare il desiderio di Dio che «vuole che tutti gli uomini si salvino e giungano alla conoscenza della verità» (1Tm 2,4). Questo centenario e questo mese straordinario aiutino a procedere coraggiosamente in quella «conversione pastorale e missionaria che non può lasciare le cose come stanno» (Evangelii gaudium 25).
Non possiamo sapere dove ci porterà questo cammino. Sicuramente ci farà abbandonare per sempre certe scelte proprie degli anni della missione coloniale e postcoloniale che, malgrado tutto, persistono qua e là. Disponiamoci a intraprendere e ad andare fino in fondo ai cammini nuovi che lo Spirito suggerisce, vincendo la pigrizia pastorale e il facile criterio del «si è sempre fatto così» (Evangelii gaudium 33.25).
Con il pontificato di Francesco molte cose sono cambiate. Il papa ci ha ripetutamente chiamati a fare missione attraverso la testimonianza evangelica e non attraverso il proselitismo, perché «le vie della missione non passano attraverso il proselitismo, ma attraverso il nostro modo di essere con Gesù e con gli altri» (così il papa ai sacerdoti e ai religiosi a Rabat il 31 marzo 2019). Lo ha ripetuto con forza ai missionari del PIME lo scorso 20 maggio: «C’è un pericolo che torna a spuntare, sembrava superato ma torna a spuntare: confondere evangelizzazione con proselitismo. No. Evangelizzazione è testimonianza di Gesù Cristo, morto e risorto. È Lui che attrae. È per questo che la Chiesa cresce per attrazione e non per proselitismo, come aveva detto Benedetto XVI. (…) Poi la presenza, la presenza concreta, per cui ti domandano perché sei così. E allora tu annunci Gesù Cristo. Non è cercare nuovi soci per questa “società cattolica”, no, è far vedere Gesù».
Oggi la missione passa per il dialogo interreligioso, percorre con determinazione e perseveranza la strada dell’inculturazione, e quella – spesso affermata ma scarsamente percorsa – della coraggiosa scelta dei poveri.
Non è più possibile far finta di nulla
Questi atteggiamenti suggeriti già da Evangelii gaudium modificano profondamente la missione e, insieme con Laudato si’, implicano un cambio di paradigma missionario. I viaggi del papa in Turchia, in Svezia, in Egitto, in Arabia Saudita e in Marocco nel cuore dell’islam attuale mostrano ambiti privilegiati della missione. Non è che il papa abbia modificato la storia: egli ha soltanto colto i cambiamenti della storia e sta accelerando le risposte della missione alla storia. Ora non è più possibile far finta di nulla e rimanere legati a un passato… passato!
Questo è l’«audace progetto » (così Guido M. Conforti chiamava la sua decisione di fondare il nostro Istituto missionario) per il quale dobbiamo renderci disponibili: una missione nuova o, quanto meno, profondamente rinnovata. Non andremo più a conquistare a Cristo i popoli offrendo la nostra fede e la nostra civiltà, ma a vivere la fede e a condividerla con chi cerca la speranza, il senso della vita, a testimoniare insomma il Vangelo vissuto. E quando le porte si apriranno… saremo pronti ad accogliere la fede e ad introdurre nella Chiesa quelli che si sentono chiamati a seguire Gesù.
Lasciamo cadere le pretese di insegnare, fare e salvare che nascondono un’inconscia volontà di potenza estranea al Vangelo: noi missionari siamo i primi ad avere bisogno della grazia e della salvezza. Viviamo con generosa dedizione la sequela di Gesù e non preoccupiamoci ansiosamente di reclutare nuovi missionari, per altro sicuramente necessari: il Signore della messe, cui sta a cuore la salvezza del mondo, ce li offrirà nella misura che noi cercheremo davvero il suo regno.