Intervista a Paolo Motta (sacerdote appartenente alla Comunità Missionaria di Villaregia) sulla situazione politico-sociale, ecclesiale e interreligiosa in Burkina Faso. Dopo un’esperienza in Costa d’Avorio e un periodo di servizio a livello generale della Comunità, vive e opera in Burkina Faso dal 2017.
Da quanto tempo sei in Burkina Faso e qual è la situazione complessiva del paese attualmente?
Questi due anni mi sono serviti a malapena a conoscere qualcosa di questo paese a sud del Sahara che conta una ventina di milioni d’abitanti, in maggioranza sotto i 18 anni. Lo Stato è una repubblica presidenziale, sul modello francese ereditato dal tempo delle colonie.
Il presidente Roch Kabore è stato eletto nel 2015 in seguito a una rivoluzione popolare che ha cacciato il precedente presidente, che era insediato ormai da una trentina d’anni. Le istituzioni democratiche sembrano svolgere il loro ruolo, anche se l’ideale democratico è ancora lontano.
C’è un piano di sviluppo quinquennale basato sugli obiettivi mondiali dello sviluppo sostenibile; sulla base di questo piano ogni entità pubblica o privata si muove per collaborare all’evoluzione del paese. Le sfide sono molteplici: siamo in coda alla classifica mondiale dell’indice di sviluppo umano, con un reddito pro capite che non vale un ventesimo di quello italiano a parità di potere di acquisto, un tasso d’alfabetizzazione che non raggiunge il 40%, enormi difficoltà per l’approvvigionamento dell’acqua, 6 case su 7 non hanno l’elettricità…
Ma c’è tanta gente che ha voglia di rimboccarsi le maniche e migliorare le proprie condizioni; non si contano le ONG attive che realizzano sempre nuovi progetti di cooperazione e sviluppo. Anche la Chiesa cattolica, come pure altre realtà confessionali, si impegna molto in questo senso.
Una geografia sociale complessa
Dove è la tua missione e quali sono le caratteristiche, i problemi e le risorse del posto in cui abiti con la gente?
Siamo a Ouagadougou, la capitale che conta circa 3 milioni di abitanti ed è in continua espansione a causa della crescita demografica e della immigrazione dalle campagne. La nostra è una nuova parrocchia fondata sul territorio di due villaggi che stanno per essere inglobati nella periferia della città.
Le caratteristiche di questi villaggi, come di molti altri villaggi africani, stanno nelle relazioni intense all’interno di un’unica etnia e di un’unica lingua, nella condivisione globale della vita, in una situazione economica non troppo difforme tra le varie famiglie, in una amministrazione del territorio capillare affidata alle autorità tradizionali, in un forte controllo sociale, in un certo livellamento verso il basso (nel senso che non si ama che gli individui emergano particolarmente per le loro condizioni economiche rispetto al resto della comunità: meglio tutti poveri che alcuni ricchi), nel riconoscersi intorno a tradizioni comuni e in rituali di fronte ai quali c’è un certo obbligo da parte di tutti, con conseguente rischio di emarginazione da parte, per esempio, dei cristiani che rifiutano di compiere certi riti considerati contrari alla loro fede, come i sacrifici di animali agli spiriti protettori del villaggio o cose simili…
La città è invece caratterizzata da molta più libertà e varietà, che diventa disomogeneità e anonimato; troviamo così persone molto ricche e istruite a fronte di altre molto povere, senza istruzione né formazione; ci sono sacche di povertà che si sviluppano accanto a quartieri di lusso.
Questo dà origine a emarginazione e malavita, a giovani sfaccendati o presi dai vizi; a mendicanti di professione, a imbroglioni, approfittatori e opportunisti che vivono all’ombra della prosperità dei più ricchi.
Queste due situazioni, villaggio e città, si stanno ora incrociando nella nostra missione e noi ci troviamo a fare i conti da una parte coi villaggi e le loro tradizioni e relazioni vincolanti, dall’altra con le risorse economiche e culturali della città, ma anche con la disuguaglianza, l’anonimato, la delinquenza.
Ci sono persone che abitano in una stanzetta di fango essiccato e hanno l’acqua a centinaia di metri di distanza, altre che hanno una casa a più piani con acqua corrente, pannelli solari e condizionatori, automobili…
Il terrorismo islamico e il dialogo interreligioso
Puoi spiegare in particolare la vicenda delle infiltrazioni e del terrorismo di cui abbiamo sentito parlare in Italia?
Tra i problemi emersi negli ultimi anni c’è lo svilupparsi di gruppi terroristici armati di stampo estremista islamico, gruppi che tendono a insediarsi nel Sahel, la fascia ai bordi del Sahara che attraversa vari stati. Le cause sono molteplici.
Da una parte c’è l’impoverimento del territorio, con la tendenza alla desertificazione; le risorse naturali scarseggiano e la gente cerca altre fonti di reddito, aprendosi anche alle proposte di arruolamento nei gruppi armati. Dall’altra c’è uno spostamento delle basi dei gruppi terroristici dal medio oriente, dalla guerra di Siria e da altri conflitti: Al Qaida e lo Stato Islamico hanno dovuto rilocalizzare i loro quartieri generali e hanno trovato nel Sahel un luogo adatto allo scopo.
Il terrorismo in Burkina Faso non ha una strategia unica: ha seminato paura nei villaggi di confine, dove spesso l’amministrazione statale è stata cacciata o ha preferito abbandonare il luogo per motivi di sicurezza; molti villaggi sono perciò senza autorità civili, senza scuole, né centri medici. Altre volte il terrorismo ha colpito nella capitale, nei quartieri ricchi, quale segno della capacità di turbare la tranquillità dei benestanti e degli stranieri che vengono per affari.
Ultimamente, da aprile di quest’anno, il terrorismo ha colpito i cristiani durante il culto; questo sembra un segnale voluto per sottolineare fortemente la matrice islamica degli attentati e per fare più effetto in occidente, perché ormai i “normali” attacchi terroristici locali non facevano più notizia nei nostri distratti mezzi di informazione occidentali, più preoccupati di allertare sull’arrivo di gente dall’Africa che di spiegare perché questa gente emigra.
Quando gli attentati provocano la morte di “gente comune”, tra cui molti musulmani e anche imam cosiddetti “moderati”, ossia che credono nella possibilità di una convivenza pacifica, non fa molta notizia in occidente; ma quando si attaccano i cristiani in quanto cristiani, durante l’esercizio del culto, uccidendo preti, pastori, catechisti, allora si risveglia un po’ di più d’interesse.
È dunque questa una delle strategie che il terrorismo sta seguendo, ma non l’unica; vari attentati non sono rivendicati perché, con buona probabilità, i gruppi terroristi si alleano con delinquenti “comuni” o con unità che vogliono la destabilizzazione del potere per motivi di opposizione politica. Questo diventa un miscuglio esplosivo: c’è chi cerca soldi, chi cerca potere, chi il controllo del territorio nelle zone di confine (sulla rotta del commercio di armi e di droga da e verso la Libia e l’Europa), chi vuole affermare la propria ideologia.
Puoi brevemente descrivere le espressioni religiose della gente del tuo territorio, qual è e come si pone la presenza cattolica in mezzo ad esse? Quali i rapporti ecumenici e interreligiosi?
Il panorama religioso dell’africa subsahariana è sempre complesso. La penetrazione dell’Islam è plurisecolare; esso è arrivato tramite le carovane di commercianti arabi che attraversavano il deserto. Il cristianesimo è arrivato invece da poco più di un secolo, in occasione della penetrazione coloniale negli entroterra.
Ma il substrato è rimasto quello di una religiosità tradizionale, che attribuisce molta importanza alle forze della natura, a presenze soprannaturali che influenzano o determinano la vita degli umani. I cristiani considerano ormai queste credenze come superstizioni, ma quando si presentano difficoltà nella loro vita, soprattutto se più di una se ne presenta contemporaneamente, è ovvio che si interroghino: se ho perso il lavoro, mio figlio si è ammalato e pure la ruota della moto è bucata… ci sarà qualcuno che vuole farmi del male? O sarà perché ho rifiutato di partecipare al sacrificio cultuale che la mia famiglia ha organizzato al villaggio?
Poiché la vita nel nostro tempo è via via più complessa, domande come queste saranno sempre possibili e l’evangelizzazione dovrà continuare a fare i conti con questo modo di pensare.
In Burkina Faso più di metà della popolazione si professa musulmana; le percentuali cambiano molto in funzione delle etnie, alcune delle quali sono esclusivamente musulmane. L’Islam tradizionale ritma la vita della gente, con gli appelli del muezzin che risuonano a partire dalle 4.30 del mattino, i flussi di persone che vanno alla moschea o i gruppetti che pregano per strada, ragazzi o adulti che chiedono l’elemosina facendone un mestiere.
C’è poi l’avanzare di un Islam più radicale, per effetto del quale si vedono donne completamente vestite di nero col velo che lascia spuntare solo gli occhi, uomini che non salutano gli sconosciuti e vengono meno alla tradizione della accoglienza rispettosa; aumentano le scuole coraniche che insegnano l’arabo, proliferano le moschee di varie tendenze. Mentre l’Islam tradizionale afferma una convivenza pacifica lunga di secoli, quello più fondamentalista è caratterizzato da una certa chiusura al suo interno; ciò è preoccupante: i cristiani hanno timore di avvicinarsi a questo tipo di musulmani.
Tra i cristiani, i cattolici sono la netta maggioranza; la denominazione evangelica più diffusa e strutturata sono le “Assemblee di Dio”, caratterizzate da un deciso attacco al feticismo in vista dell’adesione all’unico Signore Gesù e dalla promessa di una vita prospera sotto la benedizione di Dio.
Questo secondo aspetto le rende molto attraenti per la gente, che, se viene dai cattolici, si sente dire che Gesù proclama beati i poveri… e non promette loro ricchezza! Ci sono poi altre denominazioni, Chiese o sette, quasi tutte sono per lo più ancora imperniate sul proselitismo tramite un’aggressiva critica a vari aspetti del cattolicesimo, spesso travisati, con argomenti rimasti a ciò che si diceva in Europa nel XVI secolo. Ciò rende il dialogo, l’ecumenismo, pressoché impraticabile, anche se sempre possibile in casi individuali.
A causa dell’avanzare del terrorismo di matrice islamica radicale, la Chiesa cattolica si rende conto che mantenere un dialogo il più possibile ampio tra le religioni è estremamente importante; si stanno investendo risorse nel creare commissioni di dialogo islamo-cristiano, soprattutto valorizzando il fatto che sono numerosi i matrimoni fra persone di fede diversa, per cui l’aspetto della convivenza è all’ordine del giorno. Essa, però, non è mai scontata.
Povertà delle gente ed esercizio del ministero
Il Burkina è un sicuramente un paese “povero” e tu ti trovi a vivere tra i poveri del mondo: come vedi le questioni delle povertà e dello sviluppo e, rispetto a queste, come si pone la “missione” del tuo Istituto?
La povertà economica estrema è un dramma che in Italia abbiamo praticamente dimenticato dal dopoguerra; anche se l’Istat parla di 5 milioni di italiani sotto la soglia di povertà, il criterio per definire tale povertà è ben diverso da quello usato nei paesi meno avanzati del mondo.
Non sapere cosa mangiare, cosa dare ai propri figli, come curarsi, essere impossibilitati a garantire un minimo di istruzione e non avere la possibilità di ricorrere ad aiuti di assistenza sanitaria e sociale… tutto questo è il dramma di tante famiglie africane. Ma sono stati fatti anche qui molti progressi: nella nostra missione è difficile vedere qualcuno che letteralmente “muore di fame”, pur essendo ancora numerosi i malnutriti.
La povertà però presenta un altro volto drammatico, che è quello della disuguaglianza. Ogni anno in tutto il mondo aumenta il divario tra ricchi e poveri e anche in questo Paese la forbice si fa sempre più visibile. Per fare un esempio: da poco abbiamo iniziato un’attività di microcredito e abbiamo organizzato una formazione per donne che fanno piccole attività di commercio e che richiedono un prestito di 70-80€ da restituire in un anno; gli esperti che impartiscono questa formazione possono chiedere 2000€ al giorno di onorario.
In pratica in un’ora di lavoro guadagnano quello che una povera donna spera di mettere da parte in tre anni, e noi che organizziamo il microcredito spendiamo in una settimana di formazione la stessa cifra che ci permetterebbe di finanziare quasi 200 donne per un anno. Per quanto queste donne possano poi migliorare la loro condizione di vita, è evidente l’abisso che le separa da coloro che sono stati loro formatori.
Poi c’è l’impoverimento dovuto ai problemi ambientali. Sappiamo quanto l’avanzare dell’inquinamento e dei cambiamenti climatici metta a rischio quel po’ di progressi che si sono potuti realizzare fin qui; i paesi più poveri sono anche quelli più colpiti da questi problemi che sono causati principalmente altrove, e per di più hanno meno mezzi per farvi fronte.
Anche questa è un’ingiustizia enorme che va combattuta su tutti i fronti, dallo stile di vita individuale – anche evidentemente il povero ha la tendenza a scimmiottare il peggiore dei comportamenti del ricco! – alle decisioni politiche a livello mondiale.
Per questo noi cerchiamo di lavorare a livello della formazione, per cambiare la mentalità, e contemporaneamente dell’azione, coinvolgendo le realtà socio-politiche locali. In Burkina Faso è forse più facile che altrove, per l’esistenza, di cui parlavo, di un piano di sviluppo sostenibile a livello nazionale che permette di inserirsi in una rete di azioni che vanno nella stessa direzione.
Nello stesso tempo è importante far giungere la nostra voce di missionari fino al paese da cui siamo partiti; essendo la nostra un’esperienza di “prima linea”, godiamo comunque di un certo ascolto e rispetto, come sottolineano spesso gli ambasciatori italiani.
Tu sei presbitero della Chiesa italiana: puoi dire che cosa vuol dire per te, con quale mandato e con quali idee sei partito dalla tua Chiesa, e ora che significato dai a questa “appartenenza”?
La mia fede è nata e si è sviluppata nel contesto familiare e sociale in cui ho vissuto i primi vent’anni della mia vita, ed è stato in questo contesto che ho capito quale enorme ricchezza fosse; guardando al resto del mondo, al numero di non cristiani e ai problemi della povertà di tanti uomini, mi è sembrato doveroso non tenere per me questa ricchezza di fede e di risorse ed impegnarmi in un’opera di “giustizia mondiale”, per quanto il mio contributo possa essere insignificante.
Ma, come si sa, si parte per dare e si finisce per ricevere, poiché il contatto con altre realtà, persone, culture, insegna tante cose e apre a nuove prospettive. Così mi sento mandato dalla Chiesa italiana a condividere la fede con altri popoli, ma mi sento anche in dovere di trasmettere quanto ho potuto imparare da altri alla Chiesa da cui provengo.
Spesso è un compito ingrato, il missionario si sente a casa sua in ogni paese e nello stesso tempo straniero anche nel suo stesso paese d’origine: la gente non ti capisce, non ti crede. Finché sei “in missione”, sei un eroe, quando torni sei uno che ha la testa da un’altra parte e predica teorie che non possono funzionare in casa.
La stessa esperienza, comunque, si fa nei paesi in cui si è inviati: la gente ti rispetta perché hai lasciato la tua terra per venire da loro, ma tante volte ti fa anche capire che sei troppo distante da loro per comprenderli. Si appartiene un po’ a tutti e a nessuno, e alla fine si capisce di appartenere solo a Gesù Cristo; ma questo va benissimo.
Missione e Chiesa locale
Qual è per te lo specifico della missione e del missionario, almeno lì dove ti trovi a operare?
Missione “ad gentes” è anzitutto essere un segno che Dio è un Padre che non dimentica nessuno dei suoi figli, per quanto possano sembrare sperduti e abbandonati. Missione è annunciare con fatti e con parole che Dio è questo Padre, così come Gesù ce l’ha fatto conoscere.
Missione è mostrare che lo Spirito del Risorto agisce oggi in mezzo a noi e suscita vita nuova anche nei luoghi dove sembra che la morte regni sovrana. Missione è costituire comunità con coloro che si sentono raggiunti da questo messaggio. Questo vale in ogni luogo; nel nostro contesto specifico ho già parlato delle sfide principali.
La CMV a cui appartengo crede che il fatto di essere comunità umana è già missione, perché mostra che è possibile vivere insieme non in nome di legami di sangue, ma della figliolanza in Dio; nello stesso tempo la missione punta a costruire queste comunità alle quali si aggiungono sempre nuove persone raggiunte dall’annuncio.
I poveri evangelizzano la Chiesa. La Chiesa viene evangelizzata dai poveri nelle missioni. Così si dice. Questo per te che cosa vuol dire?
Il povero evangelizza con il suo stesso esistere, perché è richiamo del Vangelo: “l’avete fatto a me”. Il povero è quell’altro-Altro che sempre disturba, sempre spinge a uscire da se stessi, dalle proprie ricchezze, sicurezze, schemi.
Non c’è bisogno che il povero parli, basta guardarlo, pensare a lui per sentirsi disturbati. Solo se mi lascio disturbare posso compiere un passo di conversione, perché non c’è conversione se non avverto un disturbo, un disagio rispetto alla mia vita; il povero è “maestro di disturbo”. L’insistenza di certi poveri, inoltre, ci insegna anche l’insistenza che dovremmo avere con Dio nella preghiera.
Poi, tra i poveri, ci sono quelli che testimoniano il vangelo nella loro vita. Questi ti strappano le lacrime, la loro fede è sconvolgente, il loro abbandono fiducioso a Dio è travolgente. Ti senti piccolo piccolo di fronte a un povero che ti dà il niente che possiede perché tu, come missionario, rappresenti, in qualche modo, Dio per lui.
La Chiesa di un paese povero è costituita da poveri, ed è evangelizzata da essi nella misura in cui si lascia “disturbare”. Non è scontato che un povero ascolti un altro povero, i giudizi sugli altri sono sempre presenti; anche per una Chiesa di poveri lasciarsi evangelizzare significa entrare in un’ottica in cui “la misericordia ha la meglio sul giudizio”, in cui l’altro è portatore di valori al di là di quello che fa o che ha.
Qual è la situazione della Chiesa e del clero locale autoctono in Burkina Faso?
La Chiesa in Burkina ha una storia di poco più di un secolo, ed è segnata dall’evangelizzazione operata dai Padri Bianchi (Missionari d’Africa). Essi hanno dato un’impronta basata sull’annuncio del vangelo da parte dei laici, dei catechisti, che sono stati formati come guide di comunità disperse e difficilmente raggiungibili dal clero.
Poi, 40 anni fa, è stata fatta un’altra scelta fondamentale: strutturare la Chiesa come grande famiglia, a partire dalle comunità di base, nelle quali si può sperimentare un volto di Chiesa a dimensione familiare (la categoria di “Chiesa famiglia di Dio” è stata assunta anche a livello continentale dal Sinodo del 1994).
In questo modo la Chiesa è di tutti, chiunque vuole dare il suo contributo trova un posto, si distribuiscono numerosi incarichi legati al funzionamento di ogni gruppo, ognuno può sentirsi a suo modo protagonista. Il pericolo è che quello che è nato come novità dopo un po’ di tempo tenda a standardizzarsi e finisca in un fissismo che lascia poco spazio alla creatività e che racchiude tutto in una tradizione ingessata.
Riguardo al clero e ai consacrati, ho trovato una bella collaborazione fraterna. Anche qui l’impronta data dai Padri Bianchi è chiara: tutte le parrocchie sono rette da comunità di preti, per cui la fraternità è innanzitutto testimoniata dall’equipe presbiterale. Molti sono anche i religiosi che cooperano nella pastorale o hanno varie opere sociali.
Il clero locale non è ancora numeroso, ma è in graduale crescita. Qui funziona ancora bene il seminario minore; i ragazzi cominciano già a otto-nove anni a manifestare il loro desiderio di diventare prete o suora; naturalmente ci vuole un lungo cammino per verificare questo desiderio, ma la strada della donazione a Dio non è vista in modo discriminante da parenti e amici.
La pastorale segue delle linee direttive abbastanza chiare a livello diocesano, con un piano pastorale programmato su cinque anni, articolato in obiettivi strategici e attività da realizzare ai vari livelli. In questo modo, chi vuole darsi da fare sa in che “direzione remare”. Per coloro che operano nei vari ambiti pastorali, siano essi laici o consacrati, sono previste formazioni curate dalla diocesi.
Anche l’economia è oggetto di attenta cura, con trasparenza del bilancio e formazione degli operatori.
La Caritas si è via via strutturata a livello nazionale come organizzazione per lo sviluppo, non limitandosi ai soli aiuti di emergenza, ma facendosi promotrice di progetti di sviluppo su tutto il territorio.
Come vedi la prospettiva della autonomia della Chiesa cattolica locale dalle Chiese occidentali (e italiana in particolare)?
Il termine autonomia si presta a varie interpretazioni, e si gioca su diversi aspetti. Se parliamo di autonomia economica, è da augurarsi, senza però dimenticare che la Chiesa dovrebbe dare l’esempio a livello mondiale di solidarietà nella equa distribuzione della ricchezza.
Se parliamo di autonomia in altri settori, secondo me ci sono termini più adatti ad esprimerla; per esempio si può parlare di rispetto delle diversità all’interno della comunione ecclesiale. Qui in Burkina Faso ad esempio, nella liturgia, che pure è rigorosamente romana, emergono tutte le caratteristiche della cultura locale, senza che ci sia una pretesa di “autonomia liturgica”.
Spesso coloro che curano la liturgia sono “più romani di Roma”, ma poi l’espressione culturale di un popolo emerge da tutte le parti, e un minimo di senso pastorale rispetta queste espressioni quando esse sono conformi allo spirito del mistero che si celebra.
In altri campi, come quello della dottrina, ma soprattutto della morale e dell’impegno nella società, è evidente che si tratta di modellare gli orientamenti universali sulle problematiche locali; le conferenze episcopali nazionali e regionali giocano tutto il loro ruolo.
A mio parere la tendenza attuale è dunque prevalentemente quella di sentirsi legati a Roma e di fare le cose il più possibile come vengono richieste a livello centrale; non mancano comunque anche sensibilità opposte, ma per il momento non mi sembra si arrivi a particolari conflitti.
Guardando al futuro
Un’ultima domanda: se e quando tornerai nella tua Chiesa di origine che cosa sentiresti di poter portare con te da tanti anni di missione in Africa?
Ogni realtà ha le sue particolarità, eppure l’essere umano è lo stesso dappertutto, come pure il Vangelo che lo interpella. Non c’è luogo in cui Dio non operi, non c’è storia che non sia storia divina. Riuscire a leggere l’intervento del Padre in ogni storia e riuscire a farsene suoi collaboratori: questo farei in qualunque posto mi trovi.
Tuttavia, il luogo dove sono nato e cresciuto conserva qualcosa di particolare. Gusti, odori, dettagli, denominazioni, modi di dire… molte cose che si imparano nei primi anni di vita vibrano con una risonanza speciale e lasciano pur sempre un fascino, quello di sentire di essere “tornati a casa”. Ma in patria è anche difficile (impossibile?) essere profeti.
L’Italia e la mia città hanno bisogno di imparare la gioia della vita, imparare a essere felici. Mantova è uno dei posti più vivibili del mondo che ho attraversato, ma questo non significa che vi abbia trovato persone particolarmente felici; è una questione culturale, si impara da popoli che hanno “capito” che la felicità non dipende principalmente da ciò che è fuori di te. Mi piacerebbe portare questo, perché la vita sulla terra è una sola, e vale la pena di viverla nella gioia, al di là di quanto ci si aspetti dall’altra parte.
Paolo Motta è nato a Mantova dove ha vissuto fino a 21 anni. Dopo alcuni mesi di lavoro nel campo della fisica nucleare a Bologna e a Ginevra, ha scelto di occuparsi dei poveri e di annuncio del Vangelo “fino ai confini della terra”, scelta maturata durante il servizio civile vissuto nella Caritas di Mantova, conclusosi nel momento in cui entra a far parte della Comunità Missionaria di Villaregia (CMV) nel 1987. Dopo gli studi di teologia a Padova e la licenza in teologia ecumenica a Venezia, viene incorporato definitivamente nella CMV e ordinato nel 1996. In seguito, passa alcuni anni in Costa d’Avorio, per poi ritornare in Italia e occuparsi di servizi a livello generale nella CMV. Nel 2017 è partito per Ouagadougou in Burkina Faso, una nuova missione in cui si trova tuttora. Fin dal 1992 svolge una vita prevalentemente contemplativa.