Sabato 30 giugno, l’UNESCO ha deciso di iscrivere nel proprio patrimonio mondiale dell’umanità 12 siti cristiani nel Giappone sud-occidentale dove, durante il periodo dello shōgunato Tokugawa (1603–1868), i fedeli cristiani vennero perseguitati. Questo ennesima aggiunta dei siti giapponesi da parte dell’Unesco (che ha così portato i siti assegnati al Giappone a 22, di cui 18 culturali e 4 naturali) ha avuto una certa risonanza in Giappone, e quasi tutti i maggiori quotidiani hanno riportato con soddisfazione la notizia. I 12 siti sono tutti localizzati nell’area comprendente la prefettura di Nagasaki e la regione di Amakusa, dove moltissimi cristiani, per sfuggire alle persecuzioni, dovettero praticare segretamente la loro fede. La scelta di queste località è stata dovuta al fatto che i siti «rappresentano una testimonianza unica di una tradizione culturale coltivata dai cristiani nascosti nella regione di Nagasaki, i quali trasmisero in segreto la loro fede nella persecuzione scoppiata tra il XVII e il XIX secolo».[1]
Tra i vari siti possiamo ricordare la chiesa di Ōura (costruita nella città di Nagasaki e la più antica chiesa del Giappone); le rovine del castello di Hara (luogo in cui circa 37.000 cristiani persero la vita durante la rivolta di Shimabara-Amakusa degli anni 1637–1638); le isole Goto (che offrirono rifugio a molti cristiani nascosti e che sono famose per le loro numerose chiese); l’isola Hirado (in cui san Francesco Saverio fondò alcune comunità e il cui porto, durate il periodo isolazionista, diventò l’unica via di accesso per scambi commerciali tra i mercanti europei e i giapponesi); l’area costiera di Sotome (dove, al termine del bando contro il cristianesimo, alcuni missionari costruirono le chiese di Shitsu e di Ono); il pittoresco villaggio di Sakitsu (la cui chiesa è stata costruita sul luogo dove si svolgevano i tragici episodi del fumi-e, termine che indica il calpestamento del crocifisso o dell’immagine della Vergine Maria da parte di un individuo al fine di dimostrare la sua estraneità o la sua abiura nei confronti del culto cristiano).
Tutte queste località sono quindi intimamente legate al doloroso periodo storico delle persecuzioni in cui i giapponesi videro nel cristianesimo un pericolo per il proprio Paese. Sarà quindi utile ripercorrere, anche se brevemente, queste vicende che portarono alla nascita di quel fenomeno che va sotto il nome di kakure kurishitan («cristiani nascosti») e di cui i siti riconosciuti dall’UNESCO vogliono celebrarne la «testimonianza unica».
L’editto di persecuzione contro il cristianesimo firmato il 27 gennaio 1614 da Hidetada, figlio dello shōgun (generale supremo) Tokugawa Ieyasu, affermava che «i cristiani sono venuti in Giappone non solo con le loro navi per scambi commerciali, ma anche con lo scopo di difendere una legge malvagia, distruggere la retta dottrina (dei kami, cioè delle divinità shintoiste, e del Buddha) e così cambiare il governo del Paese e impossessarsi della nostra terra. Questa è l’origine di un grande disordine che deve essere stroncato». Da quel momento in poi la religione cristiana sarà sempre presentata come una «religione malvagia» (jakyō). Si dava quindi ordine ai vari daimyō (o feudatari) di mandare tutti i missionari esteri a Nagasaki, in attesa di una loro deportazione a Macao o Manila. Le chiese costruite finora dovevano essere abbattute e i cristiani spinti a tornare all’antica fede, rinunciando al cristianesimo. Tra il 1617 e il 1621 sotto lo shōgun Hidetada, circa un centinaio di cristiani furono uccisi.
Nel 1622 lo shōgun Tokugawa Iemitsu dette inizio a una delle più violente persecuzioni contro i cristiani. II più spettacolare martirio fu quello conosciuto come Grande martirio di Nagasaki con 51 martiri bruciati vivi il 10 settembre 1622. Nel 1623 Iemitsu chiuse la nazione al commercio estero ed estese Ia persecuzione in tutto il Paese. Appena arrivato al governo, volle dare una dimostrazione del suo potere ai daimyō radunati alla sua corte e li fece assistere al Grande martirio di Edo, nel quale furono bruciati vivi 50 cristiani. Dopo il 1627 Iemitsu diede il via a feroci torture per ottenere l’apostasia. I più comuni tormenti erano l’essere bruciati vivi, l’immersione nelle bollenti acque solforose e il tormento della fossa, in cui i cristiani venivano appesi a testa all’ingiù. Molti furono indotti ad abiurare, e tra questi anche alcuni missionari (il recente film di Martin Scorsese Silenzio, tratto dall’omonimo libro di Endō Shūsaku, è ambientato in questo periodo e narra di queste vicende).
Dopo il 1640, Ia persecuzione si inasprì, ma le notizie non giunsero più nell’Occidente. Si sa che molti cristiani si erano allontanati dalle loro terre di origine per vivere nascosti nei luoghi più lontani: la rete di spionaggio ne scopriva tutti gli anni nei luoghi più disparati. Nel Kyūshū, in quella che potremmo definire la «terra dei cristiani», quasi ogni anno la polizia scopriva cristiani nascosti. Sappiamo che nel 1649, 97 cristiani subirono il martirio; nel 1658, 608 cristiani vennero catturati nei pressi di Ōmura: 411 furono uccisi, 78 morirono in prigione, mentre 99 non resistettero ai tormenti; tra il 1660 e il 1670, sempre nel Kyūshū, oltre 2.700 cristiani furono scoperti e in gran parte uccisi.
Poiché nel periodo 1697–1700 nessun cristiano fu scoperto, il governo credette di essere riuscito finalmente ad estirpare la “religione malvagia”. Ma nel 1865, dopo che il Giappone si era aperto al mondo occidentale, i missionari francesi che avevano costruito la chiesa di Ōura a Nagasaki (ora, appunto, patrimonio mondiale dell’umanità) ebbero la sorpresa di scoprire i discendenti degli antichi cristiani. Erano più di 20mila. La polizia intervenne e circa 4 mila cristiani furono deportati in altre zone del Paese, mentre altri furono uccisi. Questa fu l’ultima persecuzione. In seguito alla pressione dell’opinione pubblica e dei governi occidentali, il governo giapponese, ormai passato dal dominio degli shōgun a quello Meiji, il 14 marzo 1873 decretò Ia fine della persecuzione iniziata nel 1614 e durata quasi ininterrottamente per 259 anni.
A questo punto potremmo chiederci che cosa, esattamente, l’UNESCO ha voluto celebrare elevando questi 12 siti a patrimonio mondiale dell’umanità. La bellezza quasi melanconica delle chiese cristiane presenti in queste aree, e gli scenari quasi unici in cui sono incastonate? Oppure la presenza in queste località di cristiani e loro resistenza di fronte a situazioni pericolose e disperate? A cosa il visitatore è invitato a pensare o a guardare quando raggiungerà questi siti il cui nuovo status, secondo qualche giornale locale, «contribuirà alla preservazione del luogo e alla rivitalizzazione economica della regione»? All’attrattiva del posto o alla fede di quei cristiani nascosti che, se scoperti, li avrebbero portati all’abiura o al martirio (anche se quest’ultimo è già stato commemorato il 24 novembre 2008 con la beatificazione a Nagasaki di 188 martiri giapponesi)? Forse a entrambe le cose, ovviamente.
Per i cristiani giapponesi, questa scelta dell’UNESCO rappresenta senz’altro un ulteriore riconoscimento della loro storia e delle sofferenze che hanno dovuto subire per rimanere fedeli alla loro fede – oltre che per purificarla. Come ebbe a scrivere il noto novellista cristiano Endō Shūsaku: «I kakure giapponesi, lungo l’arco di molti anni, avevano abbandonato tutti quegli elementi della religione che erano incapaci di accettare, e gli insegnamenti di Dio Padre furono gradualmente rimpiazzati dall’anelito verso la Madre – un anelito che è l’essenza stessa della religione giapponese».[2]
Per i giapponesi non cristiani, invece, questi siti potrebbero rappresentare una testimonianza di come i missionari (di ieri, come quelli di oggi) non sono affatto giunti in Giappone per imporre una religione, stravolgere una cultura o conquistare una nazione, quanto piuttosto per trasmettere il messaggio evangelico dell’amore di Dio che, in Gesù Cristo, accoglie e trasforma ogni uomo.
Per la Chiesa tutta, infine, questi siti rappresentano la certezza di come lo Spirito continui a guidare le comunità cristiane, sostenendole nel loro cammino e aiutandole nel loro impegno di annuncio evangelico. Come ebbe a dire papa Francesco durante il discorso tenuto ai vescovi giapponesi in Visita ad limina il 20 marzo 2015: «Quest’anno in Giappone celebrate un altro aspetto della sua ricca eredità missionaria e di fede, ossia la comparsa dei “cristiani nascosti”. Anche quando tutti i missionari laici e i sacerdoti vennero espulsi dal paese, la fede della comunità cristiana non si raffreddò. Anzi, i tizzoni della fede che lo Spirito Santo accese attraverso la predicazione di quegli evangelizzatori e sostenne con la testimonianza dei martiri restarono al sicuro, grazie alla sollecitudine dei fedeli laici che conservarono la vita di preghiera e di catechesi della comunità cattolica in una situazione di grande pericolo e di persecuzione. Questi due pilastri della storia cattolica in Giappone, l’attività missionaria e i “cristiani nascosti”, continuano a sostenere la vita della Chiesa oggi e offrono una guida per vivere la fede».[3]
I 12 siti sono dunque aree dove i nostri occhi possono venir ipnotizzati dalla bellezza del luogo e, allo stesso tempo, sconfinare nella commozione ricordando quella fede in Dio che i cristiani hanno saputo mantenere viva e trasmettere nel silenzio. Occhi di stupore e dolore. Gli stessi occhi dei kakure kurishitan che ora si nascondono in noi rendendoci partecipi delle loro sofferenze e della loro fedeltà.
[1] Sembrerebbe dunque che l’UNESCO abbia utilizzato il terzo dei dieci criteri usati per discernere se un sito deve essere ritenuto di incomparabile valore universale, e cioè “Essere testimonianza unica o eccezionale di una tradizione culturale o di una civiltà vivente o scomparsa”. Per gli latri criteri, si veda: http://www.unesco.it/it/ItaliaNellUnesco/Detail/188
[2] S. Endō, Madri, trad. T. Tosolini, in S. Endō, Haha naru mono, Shinchōsha, Tokyo 1975, 49. Traduzione in corso di pubblicazione.
[3] cf. https://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2015/march/documents/papa-francesco_20150320_ad-limina-giappone.html
Tiziano Tosolini dirige il Centro studi asiatico dei missionari saveriani a Osaka, in Giappone, ed è ricercatore al Nanzan Institute for Religion and Culture di Nagoya. Con EDB ha pubblicato L’uomo oltre l’uomo. Per una critica teologica a Transumanesimo e Post-umano (2015) e Cercare Dio nella palude. Le persecuzioni dei missionari in Giappone da Shūsaku Endō a Martin Scorsese (2016). Ha inoltre tradotto e curato i racconti inediti di Shūsaku Endō, Il giapponese di Varsavia (2017).