Il ritorno dei campi

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Un migrante sbarcato al porto di Shengjin, Albania. mercoledì 16 ottobre 2024 (AP Photo/Vlasov Sulaj)

Vi confesso che ormai faccio sempre più fatica a parlare di migranti e politiche migratorie. Perché la polemica del giorno tende a mangiarsi la sostanza delle cose, quella recente è Giorgia Meloni che in Parlamento che se la prende con la organizzazione non governativa che salva migranti nel Mediterraneo Sea Watch, guarda caso una ONG come quella al centro del caso che vede il ministro Matteo Salvini a processo, e venerdì c’è l’udienza con tanto di manifestazione eversiva di ministri, politici e militanti davanti al tribunale di Palermo.

Vedete che siamo già finiti alla polemica politica da social?  Basta un attimo per distrarsi dalla sostanza. E la sostanza è che, quasi 80 anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, l’UE sta valutando la possibilità di costruire dei campi di concentramento e che l’Italia è il modello per questa scelta.

Come già dovevano essere modello per il progetto – illegale – del governo conservatore inglese guidato da Rishi Sunak che sperava di deportare immigrati dalla Gran Bretagna al Rwanda. Nel gergo europeo i campi di concentramento si chiamano «hub di ritorno», ma ormai nella discussione a Bruxelles l’espressione più usata è «centri di deportazione».

Modello Italia

La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha mandato una lettera ai vari governi in vista del Consiglio europeo del 17 e 18 ottobre nella quale si annuncia una nuova proposta di legge che vuole favorire i rimpatri di migranti e valutare la costruzione di questi hub di ritorno in Paesi fuori dall’UE, e si fa un esplicito riferimento all’esperimento dell’Italia con l’Albania, «potremo trarre lezioni dall’attuazione di questa esperienza».

Fermiamoci un momento qui: l’UE pensa di mettere centri di rimpatrio di migranti in Paesi fuori dall’UE, dove deportare i migranti salvati in mezzo al mare e forse alcuni di quelli che non si riesce a rispedire nel Paese di origine. Perché fuori dall’UE? In modo che i migranti non abbiano gli stessi diritti che avrebbero dentro la UE, in modo che non si possano muovere, in modo che eventuali violazioni dei diritti non siano sanzionabili dagli organismi di controllo europei.

Certo, le persone deportate in questi centri potranno fare domanda di asilo in Europa. Ma quelli che non sono riusciti a sbarcare in quale Paese faranno domanda? Nel migliore dei casi rimarranno in un limbo burocratico, nel peggiore – cioè se la domanda di asilo viene respinta – saranno costretti a rimanere nel campo di concentramento fino a una espulsione che nessun Paese europeo è in grado di organizzare, figuriamoci l’Albania.

Peraltro, c’è una questione di sovranità non indifferente: i migranti vengono deportati in Albania, ma il premier albanese Edi Rama sostiene che nei centri sarà in vigore la legge italiana e verrà fatta rispettare da poliziotti italiani. Ma come fa a essere sospesa la legge albanese? I centri non sono ambasciate; se però vengono trattati come parti del territorio italiano significa che i migranti sbarcati lì dovrebbero avere tutti gli stessi diritti di chi riesce ad arrivare in Italia, solo che non potranno esercitarli.

La cosa paradossale è che i Paesi ai quali si chiede di fare questo lavoro sporco sono Paesi candidati a entrare nella UE, perfino la Turchia è ancora formalmente un aspirante membro dell’Unione anche se le trattative sono congelate, mentre l’Albania è molto più vicina a un accesso.

Gran parte della polemica contro l’esperimento albanese riguarda i costi: si dice che 600 milioni di euro per cinque anni rinnovabili sono uno spreco di risorse, che la prima nave Libra della Guardia costiera diretta in Albania aveva a bordo soltanto 16 migranti intercettati in mare, che costava meno mandarli in aereo in business class.

Ma queste critiche, di nuovo, ci portano fuori strada: a un progetto che viola ogni punto dello spirito europeo, che serve – lo ripeto – a creare campi di concentramento per conto dei Paesi dell’Unione, non si può contestare la scarsa efficienza. Altrimenti si finisce per adottare la logica di Adolf Eichmann, il nazista al centro del processo raccontato da Hannah Arendt ne La banalità del male.

Per Eichmann il genocidio era una questione di efficienza, lui si preoccupava di garantire che i treni per Auschwitz arrivassero in orario. Il problema dei campi di concentramento in Albania non è che sono uno spreco di denaro del contribuente italiano, ma che sono campi di concentramento, come denuncia la portavoce di Sea Watch, Giorgia Linardi, e che per questo genera la reazione furibonda di Giorgia Meloni.

Finanziare i trafficanti

Sea Watch, come tante ONG, non difende i trafficanti. Ma denuncia il fatto che i soldi europei vanno a finanziare i gestori del traffico, cioè le Guardie costiere e altri corpi di polizia dei Paesi di transito, in particolare la Libia.

Il governo Meloni, come hanno fatto in passato anche i governi Gentiloni e Conte I, continua a diffondere la menzogna che le ONG sono complici dei trafficanti. Ai tempi del governo Gentiloni e del ministro dell’Interno Marco Minniti c’era anche un gran fermento di pezzi dei servizi segreti per costruire prove fasulle a sostegno di questa tesi. Con tanto di infiltrati, giornalisti intercettati, informazioni manipolate passate ai giornali.

Oggi, però, è la Corte dei conti europea in un rapporto di fine settembre a denunciare che perfino il fondo europeo per l’Africa che vale ben 5 miliardi viene usato in modo opaco. Un quinto di quei soldi viene dall’Italia.

La Corte dei conti ha provato a capire come vengono usate quelle risorse ed è arrivata alla conclusione che non soltanto l’Unione europea paga soggetti che gestiscono i migranti senza poter verificare in alcun modo il rispetto dei più elementari diritti umani, ma che soldi e mezzi potrebbero finire addirittura a supportare gli stessi trafficanti: «Il sostegno del Fondo dell’Unione europea per l’Africa potrebbe aver facilitato il trasferimento dei migranti nei punti di sbarco, aggravando il sovraffollamento», si legge per esempio.

Anche un report delle Nazioni Unite è arrivato alle stesse conclusioni, peraltro confermate da moltissime inchieste giornalistiche: noi finanziamo i complici dei trafficanti:

«Il carattere continuo, sistematico e diffuso dei crimini documentati dalla Missione suggerisce fortemente che il personale e i funzionari della Direzione per la Lotta contro l’Immigrazione Illegale, a tutti i livelli, siano coinvolti.

Inoltre, la Missione ha trovato motivi ragionevoli per ritenere che alti dirigenti della Guardia Costiera Libica, dell’Apparato di Supporto alla Stabilità e della Direzione per la Lotta contro l’Immigrazione Illegale abbiano collaborato con trafficanti e contrabbandieri, che risultano essere collegati a gruppi di milizia, nel contesto dell’intercettazione e della privazione della libertà dei migranti.

La Missione ha inoltre rilevato ragionevoli motivi per credere che le guardie abbiano richiesto e ricevuto pagamenti per il rilascio dei migranti. Traffico di esseri umani, schiavitù, lavoro forzato, detenzione, estorsione e contrabbando hanno generato entrate significative per individui, gruppi e istituzioni statali».

Già nel 2018 la Corte dei conti europea aveva denunciato problemi simili, non è servito ma almeno all’epoca c’era qualcuno disposto ad ascoltare e sensibile al tema. Oggi non sembra più essere così. Anzi, la Commissione Europea vuole estendere il modello libico ad altri Paesi di transito dei migranti, come il Mali e la Mauritania.

La Polonia, che non è più la Polonia sovranista del PiS di Jarosław Kaczyński ma si comporta allo stesso modo, ha chiuso le frontiere ai rifugiati dalla Bielorussa che scappano dal regime putiniano di Aljaksandr Lukashenko. E questo sarebbe illegale, perché non si possono respingere aspiranti rifugiati verso Paesi nei quali rischiano la vita.

Nelle comunicazioni di Ursula von der Leyen si fanno minacciosi riferimenti a trovare una qualche soluzione per il mezzo milione di ucraini arrivati nell’UE che hanno una protezione temporanea ma che scade nel 2026. Se per allora la guerra non sarà finita, che succederà loro? Ad oggi, la Commissione non sembra in condizione di promettere nulla se non aiuti ai Paesi che li ospitano.

Funzionano?

A questo punto potreste farvi una domanda: i metodi drastici e inumani che l’Italia sperimenta da anni nella gestione dell’immigrazione e che ora diventano la linea europea, almeno funzionano? Se il successo si misura dall’effetto deterrente, o dal numero degli sbarchi, o dai respingimenti, sembra di no.

Gli sbarchi nel 2023, primo anno pieno di Giorgia Meloni al governo, sono stati oltre 140.000, quasi il doppio che nel 2022. Nel 2024 c’è stata una estate particolarmente tranquilla, e ad oggi sono soltanto a 54.000 ma in crescita da fine settembre, a fine anno saranno in linea con il 2022. Dunque nessun «effetto destra» sugli sbarchi, anzi.

Ma di nuovo non dobbiamo cadere nella trappola di discutere queste politiche sulla base della loro efficacia. Il punto non è se l’effetto dissuasivo c’è o meno. Il punto è che sono politiche illegali e che minacciano l’esistenza stessa dell’economia e della società europea. Lo ha detto nel suo rapporto sulla Competitività europea Mario Draghi: all’economia europea mancheranno 2 milioni di lavoratori ogni anno per effetto della riduzione della natalità e dell’invecchiamento della popolazione. Con meno persone, il PIL è più basso, e si va verso un declino che è matematico, non uno dei tanti scenari disponibili.

Ma invece che parlare di questo, cioè di come avere più migranti magari qualificati, l’UE discute di come averne meno. E se il 5 novembre dovesse vincere Donald Trump negli Stati Uniti, che promette la deportazione di massa di milioni di immigrati senza documenti, l’ossessione migratoria che ha contagiato ormai tutta l’Unione diventerà ancora più forte.

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