Santiago de Compostela, marzo
Andrés Torres Queiruga è un teologo gallego molto noto in Spagna e anche al di fuori. Autore di volumi di ampio respiro teologico, è membro autorevole del Comitato internazionale di direzione della rivista Concilium, che ha festeggiato di recente i cinquant’anni del suo primo numero. Torres Queiruga, nell’ultimo numero della prestigiosa rivista fondata da Yves Congar, Hans Küng, Johann Baptist Metz, Karl Rahner ed Edward Schillebeekx, affronta il tema del «compito della teologia dopo la restaurazione postconciliare», osservando che la rivista nacque con il proposito di generare un notevole sforzo di creatività teologica e di sintonia con i grandi problemi umani in un contesto di secolarità.
– Torres Queiruga, i teologi oggi vivono un clima diverso da quello del passato, quando correvano il rischio di essere indagati e addirittura condannati. Basti riandare ai tempi di Ratzinger, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. Ora lo spirito con papa Francesco è cambiato. Con i papi cambia anche il modo di fare teologia?
Propriamente non dovrebbe cambiare, perché il magistero pastorale rispetta l’autonomia del magistero teologico. Hanno funzioni distinte e complementari. Però, la verità è che il clima ecclesiale, che dipende molto dal magistero pastorale, influisce sui teologi. Soprattutto aprendo un clima di maggior libertà e, sicuramente, anche di coraggio e di speranza. È quello che sta succedendo con il comportamento conseguente del papa pastorale che è Francesco: realizzando con vigore evangelico il suo compito di pastore, sta rafforzando il compito dei teologi nel loro lavoro di attualizzare la comprensione della fede.
– Si ha l’impressione che dalla teologia cosiddetta speculativa si sia passati a una teologia piuttosto pratica. Ciò potrebbe comportare una sorta di declassamento, una perdita di qualità, quasi una corsa continua alla quotidianità nuda e cruda.
La teologia, se vuole essere tale, deve sempre essere speculativa, nel senso che deve essere rigorosa, assicurando la coerenza e la significatività della fede, perché il suo ruolo è dare ragione della nostra speranza. La differenza sta nei temi, nei destinatari e nelle finalità concrete affrontate in ciascun caso. Un tema di discussione sistematica su problemi teologici intricati non può essere trattato con lo stesso stile di ragionamento di quando si tratta di chiarire un problema per renderlo accessibile nella predicazione o vivibile nella pietà. In ogni modo, quest’ultima finalità non va mai persa di vista. In definitiva, ogni teologia è al servizio del vissuto e della pratica della fede.
– I teologi sembrano essere un po’ appannati oggi, sopraffatti da sociologi, antropologi, massmediologi, psicoanalisti… Si ha la sensazione di trovarsi in alto mare.
Sta proprio qui un grande problema per la teologia di oggi. Il cambio di cultura provocato dalla rivoluzione moderna e, a suo modo, dalla riflessione post-moderna ha cambiato radicalmente il contesto. La teologia lo deve riconoscere, se vuole attualizzare la comprensione della fede, riconoscendo le nuove difficoltà e le nuove sfide, ma anche le nuove possibilità. La connessione e il passaggio tra le risposte elaborate all’interno del paradigma antico e quelle che oggi sono necessarie non risultano facili. Di fatto, ho l’impressione che una parte molto importante – forse troppo ampia – dello sforzo teologico si dedichi non solo alla conoscenza offerta dalle altre scienze – antropologia, sociologia, psicoanalisi… – ma anche all’investigazione in questi campi. Il pericolo è una specie di clericalismo inconscio che si sente responsabile di investigazioni o di teorie che ricadono nell’autonomia di queste discipline. Con la conseguenza che lo sforzo non viene indirizzato a quel lavoro specifico, che la teologia deve realizzare in accordo con le norme e le esigenze della propria autonomia. Solo così è possibile un dialogo serio e fecondo con le altre scienze, imparando dai loro risultati specifici e offrendo anche i risultati propri.
– Forse conviene chiarire ulteriormente il pensiero.
Mi sforzo, perché risponde a una profonda preoccupazione mia e cerco di fare ulteriore chiarezza. Il problema radicale sta nel fatto che il cambio socio-culturale obbliga a ripensare e a rinnovare a fondo anche i temi teologici fondamentali, così che risultino intelligibili e portino una fecondità umanizzante ai destinatari di oggi del messaggio evangelico. Qui abbiamo una grave carenza. Realmente, chi non sente oggi la tremenda difficoltà di chiarire davanti a un uditorio mediatamente critico la comprensione cristiana di temi come il peccato originale, l’efficacia dei sacramenti, la transustanziazione, la Bibbia come parola di Dio, la risurrezione o il problema del male…, per non parlare dell’Incarnazione o della Trinità? Questi temi, in generale, o non si toccano direttamente o se ne parla all’interno di un linguaggio teologico o dogmatico marcatamente tradizionale (ad un certo punto, ho parlato di teologías bonitas, di teologie belle), che gira intorno alle formule ereditate, confondendo talvolta l’ornamento formale con il ripensamento rigoroso, o supponendo che il significato sia assicurato con la ripetizione ortodossa di parole, di formule e di concetti ereditati. Comprendo che molti teologi se la svignino davanti al lavoro – necessario e indispensabile! – di accompagnare il cristiano nel suo impegno socio-pratico o di offrire una visione cristiana della cultura del momento. Ripeto: questo è strettamente necessario, però si impoverisce se non è sostenuto e accompagnato da una comprensione della fede criticamente attualizzata, che motivi dal di dentro, assicurando il senso profondo dell’esistenza umana e alimentando una speranza realistica, a prova di scoraggiamenti e di pragmatismi immediati.
– Argomenti come l’anima, il cervello, la corporeità, il gender attirano di più degli argomenti, chiamiamoli classici, fino a temi come il silenzio. Si veda l’ultimo numero del 2015 di Concilium. L’uomo, come l’universo, è ancora un mistero.
Sono buoni esempi di quanto intendo dire. Considerarli, conoscere le loro questioni fondamentali e imparare dai risultati delle scienze corrispondenti, è logico e necessario. Però le questioni propriamente teologiche, per il fatto che toccano direttamente la fede e il suo vissuto, hanno un proprio livello e all’interno di esso si deve realizzare lo sforzo fondamentale. Concretamente: sono molto interessanti gli studi sulla ripercussione e anche la localizzazione cerebrale dell’esperienza religiosa, ed è buona cosa sapere tutto il possibile. Però, quali che siano i risultati, per la religione – come per la poesia e la matematica! – ciò che è decisivo è capire il significato specifico della novità irriducibile e strettamente umana che emerge da questi condizionamenti. I quali possono aiutare a capire meglio aspetti della verità, però non la determinano, perché questa si muove in un altro ambito. Anche una formula matematica ha le sue radici e ripercussioni nel cervello; però questo non impedisce di continuare ad affermare che due più due fa quattro, né spinge a chiudere le facoltà di matematica. La ripercussione biologica del vissuto religioso è molto più intensa, dovuta alla sua maggiore implicazione esistenziale. In definitiva, non è qui, ma nell’ambito irriducibile e specificatamente umano, che la teologia ha da incentrare il suo lavoro, chiarendo la verità dell’esistenza di Dio ed esplorando il suo significato per la vita umana.
– Karl Rahner, il grande teologo tedesco, diceva che «il cristiano del futuro o sarà mistico o non sarà neppure cristiano». Secolarizzazione e secolarismo non sembrano avere dato il colpo mortale alla religione, anche se, soprattutto in Occidente, si sta assistendo a un forte calo della pratica religiosa. L’ondata fondamentalista poi pone dei grossi problemi.
La situazione è grave, però non più che in altri momenti della storia. Succede che – soprattutto in certi strati della cultura à la mode e in ambienti modellati dai mass media – siamo ancora nella crescita della marea causata dalla rivoluzione culturale della modernità con le sue conseguenze secolarizzanti. Rivoluzione irreversibile, necessaria e proficua per molti aspetti, come riconobbe il Vaticano II. Però, come avvertiva già Hegel e avverte anche il concilio, può fermarsi, osservando il dito dell’immediato senza percepire il fondo – o l’altezza – della sua profondità trascendente, come dice Hegel, o ignorare la sua relazione con il Creatore, come dice il concilio. Questa profondità, questo essere abitati dalla presenza attiva e amorevolmente instancabile di Dio, continua ad essere presente e a muovere le acque più profonde dello spirito umano. Ho l’impressione che in molti punti la marea superficiale stia già scontrandosi con i propri limiti, così che la marea inizia a rifluire e va lasciando allo scoperto, come un’ampia spiaggia piena di detriti e di promesse, la fame di trascendenza. I numerosi movimenti che parlano di nuova spiritualità e coltivano pratiche alternative ne sono, a mio parere, una prova eloquente.
– Nelle sale cinematografiche si proietta Spotlight sugli abusi sessuali compiuti da preti sui bambini a Boston. Impressionante! Ha ricevuto l’Oscar. Le affermazioni di questi giorni del card. Pell sono inquietanti.
È un tema insistente, che ha bisogno di un trattamento chiaro ed energico, ma che è anche pieno di profonde ambiguità. Vorrei essere chiaro, perché in questi temi la cosa più facile è un trattamento semplicistico e lineare, senza la necessaria acutezza dialettica, che, insistendo su un aspetto, non lo converta nella negazione dell’altro. È evidente che mai si sottolineerà con sufficiente energia l’orrore morale di alcuni rappresentanti della Chiesa e il terribile danno provocato a tante vittime innocenti. Però, proprio per questo, la sottolineatura dev’essere fatta cercando veramente il rimedio al problema fondamentale: finirla con questa peste sociale, perseguendola in tutti gli angoli dove viene esercita e dove si nasconde.
Qui credo si stia cadendo in una gravissima incoerenza morale e in un’immensa ipocrisia sociale: incentrare il problema sui delinquenti ecclesiastici, ingenera l’impressione che questo sia l’unico problema; in modo tale che, denunciati e castigati i colpevoli, tutto sarebbe risolto. Però, sappiamo molto bene che ciò di cui si sta trattando è solo una parte minima, la punta dell’iceberg di un abuso immenso (mi pare si riferisca all’1% delle vittime). Quale indignazione morale e quale energia giuridica e poliziesca si sta reclamando ed esercitando contro coloro che abusano e che sono l’altro 99%? Come si affrontano veramente gli abusi all’interno della famiglia, dei genitori, dei fratelli e degli altri familiari; nel mondo della medicina, dell’insegnamento in generale, dello spettacolo, dello sport e di diverse associazioni giovanili? Dio mi liberi – e lo dico letteralmente – dall’intento di discolpare quelli che, nella Chiesa, incorrono in questi abominevoli delitti o di chiedere che si allentino l’investigazione e la punizione. Accentuare il problema solo in ambito ecclesiastico è un atteggiamento moralmente ipocrita, se la punizione ecclesiastica non serve come detonatore per provocare un’autentica campagna generale, un’ondata d’indignazione per impegnarsi a fondo su tutto il fronte in difesa di migliaia e migliaia di bambine e di bambini che vengono abusati nei diversi ambiti e gruppi sociali.
So, per esperienza, che questo discorso incontra resistenze, anche negli ambienti cristiani. Però credo che sia urgente farlo espressamente, se veramente ciò che interessa è l’orribile abuso che continua a fare danni nell’immensa maggioranza delle vittime innocenti. Ho visto Spotlight. Ho ammirato la sua lettura e condiviso la sua indignazione. Però lo spettatore ingenuo o semplicemente chi non si preoccupa della propria capacità critica, esce con l’impressione che l’abuso esista solo in istituzioni religiose e che la religione sia la vera colpevole, così che il problema sarà risolto quando finiranno gli abusi…, intanto, en passant, si delegittima la fede religiosa. A questo mi riferisco quando parlo di incoerenza morale e di ipocrisia sociale. La difesa apparente può convertirsi in una copertura molto reale.
– Dopo una lunga carriera di docente, di autore di libri e di saggi d’indubbio valore, con una fama che va al di là della Spagna, mi pare giusto che Torres Queiruga dica come vedrebbe collocata la ricerca teologica e quali piste dovrebbe percorrere.
Credo, in maniera indiretta, di aver detto ciò che, a mio parere, è fondamentale. Però, l’ultimo problema mi permette di soffermarmi su un argomento che resta pendente e che considero di somma importanza: il ripensamento delle relazioni tra la religione e l’etica o la morale (a livello profondo non è rilevante questa seconda distinzione). Riconoscere e trarre le conseguenze dell’autonomia delle scienze ha avuto il suo costo, ma è un compito che possiamo ritenere realizzato. Nessuno si accosta più alla Bibbia per spiegare questioni scientifiche e certe discussioni come quelle del creazionismo obbediscono a semplici malintesi da parte di fondamentalisti tanto scientifici come religiosi, che – come direbbe Rahner – sono residui ottocenteschi. Però, con l’autonomia della morale non succede lo stesso. Si riconosce, già da Platone e da san Tomaso, che le cose non sono buone perché Dio le comanda o cattive perché le proibisce. E il Vaticano II estende espressamente l’autonomia anche alla società stessa, che gode pure di proprie leggi e valori. La morale o l’etica parla del buono o del cattivo perché riconosce che vi sono condotte individuali o collettive che impediscono l’autentica realizzazione dell’umano. E per sapere quali siano queste condotte, bisogna studiarle analizzando le loro leggi e valori, precedenti all’opzione religiosa o non religiosa. In questo senso, sapere se un concetto è corretto o no non è oggetto diretto dell’insegnamento biblico, benché alcune norme siano così evidenti che le dà per supposte e le afferma come tali: è, per esempio, il caso dei comandamenti.
Però, quando a causa dell’evoluzione storica o dei mutamenti culturali, appaiono questioni nuove, è la ragione etica o morale che deve affrontarle. La Bibbia offre uno speciale contesto di scoperta che può aiutare nella ricerca. Così è successo, fino al punto che, per esempio, grandi valori morali dell’Occidente, inclusa la rivoluzione sociale, siano impensabili senza l’influsso biblico. Benché la stessa Bibbia, male interpretata, possa essere utilizzata per contraddirli. Questo non significa che la religione non abbia a che vedere con la morale o che pensi a questo quando dico che la Bibbia non è un libro-di-morale. La religione, come la Bibbia, è profonda e irrinunciabilmente morale. Però, lo è a un livello proprio e specifico, quando chiama alla decisione di essere morali, animando e appoggiando lo sforzo per conseguirlo. Cioè, l’autentico ruolo della religione nella morale non è quello di scoprire o dettare norme, ma di animare e aiutare a compierle, a partire dalla fede che ha il suo fondamento ultimo nella bontà creatrice di Dio e nella fiducia finale nel suo appoggio.
So che anche qui sorgono resistenze, dovute in generale all’impressione che questo significherebbe sia un abbandono della missione – anche moralizzatrice – della Chiesa, sia una diminuzione della sua autorità in questo campo. Personalmente sono convinto del contrario: situerebbe il messaggio ecclesiale nel nucleo stesso del suo dovere e garantirebbe l’autentica efficacia della sua autorità. Credo che il comportamento di papa Francesco, con il cambiamento di enfasi nei contenuti e nel modo di presentarli, a partire dai genuini e indiscutibili valori evangelici, stia dimostrando che questa è la strada certa e capace di vera efficacia.