Confesso che, seguendo dalla Turchia le notizie dell’importantissimo pellegrinaggio della memoria di papa Francesco in Armenia, non siamo stati del tutto dispiaciuti che l’attenzione mediatica, proprio in quei giorni, sia stata quasi totalmente catalizzata dal clamoroso esito della “Brexit”. Il motivo di tale sentimento è la comprovata impossibilità attuale di preservare da strumentalizzazioni politiche un evento che avrebbe dovuto essere eminentemente spirituale e, eventualmente, storico e culturale. Purtroppo, l’uso strumentale e quindi manipolatorio dei fatti è attualmente la cifra di una comunicazione massmediatica in balia di editori che devono rendere conto a poteri forti (economici e politici), preoccupati solo della propria sopravvivenza (questo indipendentemente dall’esistenza di singoli professionisti della comunicazione che cercano in tutti i modi di svolgere il loro mestiere in modo obiettivo e responsabile).
Questa sensazione ha trovato puntuale conferma nel fatto che, per la maggior parte dell’opinione pubblica, il viaggio di Francesco in Armenia sia stato inevitabilmente ridotto da un lato all’uso fatto dal santo padre della parola “genocidio” per definire lo sterminio degli armeni e, dall’altro, all’ennesima piccata reazione dei rappresentanti del governo turco (reazione peraltro proporzionalmente molto più composta di quella di un anno fa, in occasione della celebrazione per il centenario della tragedia armena celebrata nella basilica di San Pietro). Ovviamente, basterebbe leggere nel dettaglio i testi degli interventi papali ufficiali (a disposizione di qualsiasi lettore con accesso ad Internet) per capire che nulla è più lontano dalla realtà del secco giudizio del vice primo ministro turco Nurettin Canikli, che attribuisce al successore di Pietro una mentalità da crociata. Questa costatazione non basta, tuttavia, al superamento dell’empasse che ogni volta blocca sul nascere qualsiasi dialogo su questa delicata questione. Di fatto, ogni volta, gli unici a trarne giovamento sono gli estremisti di ogni schieramento che, alimentando la polarizzazione delle posizioni, allontanano, consapevolmente o meno, il raggiungimento di una verità sulla natura e la matrice dei tragici eventi storici, impedendo anche di voltare pagina e quindi di costruire futuro.
Una laicità disattesa
Dunque, pur condividendo l’estrema sintesi di Andrea Tornielli secondo il quale «Francesco in tutti i messaggi che ha lanciato in Armenia aveva a cuore un unico obiettivo: far sì che l’indispensabile memoria del passato diventi non motivo per nuovi scontri, conflitti o vendette, ma occasione per costruire ponti e offrire perdono e riconciliazione» [cf. Vatican Insider, 26/10/2016], l’interrogativo resta: come far sì che, coloro che faticano a porsi in una prospettiva di “memoria attraversata dall’amore”, di matrice radicalmente evangelica (di non facile recezione neppure in un ambito strettamente cristiano ecumenico), possano tuttavia orientarsi a comporre le divergenze valorizzando quanto unisce più di quanto ancora, dolorosamente, divide?
In una prospettiva “turca” (ma potremmo allargare il quadro al contesto medio orientale in genere), non si può tentare di rispondere a questa domanda senza fare un paio di constatazioni previe. Prima di tutto, a queste latitudini in particolare, non ci sarà mai uno sguardo obiettivo e pacificato alla storia senza una chiara e condivisa opzione politica concernente il ruolo dell’espressione religiosa nello spazio pubblico. In altre parole, dobbiamo riconoscere, oggi, l’esistenza di una totale ambiguità nel dibattito concernente il principio di laicità, ovvero, dell’organizzazione dell’autonomia reciproca, dell’ambito civile rispetto a quello religioso. Una vera laicità dovrebbe permettere di organizzare la vita in una società plurale, favorendo l’esistenza e la coesistenza pacifica delle comunità e, all’interno delle comunità stesse, di una pluralità di modi di definirsi e di vivere da credenti! Troppo spesso si identifica questo principio di laicità con la secolarizzazione, che è il movimento di emancipazione da ogni riferimento religioso prodotto proprio della “modernità”. In realtà, se la laicità è un’opzione politica, espressa da una costituzione, che affranca legalmente e giuridicamente il potere politico da quello religioso, la secolarizzazione è un processo di civiltà.
Ora, nella storia turco-ottomana, questa separazione non è mai esistita di fatto, ma c’è sempre stata una curiosa osmosi tra politico e religioso: la politica ha penetrato il religioso per meglio controllarlo e il religioso, dal canto suo, si è progressivamente infiltrato nell’apparato statale diventando un elemento essenziale della costruzione identitaria nazionalista. Il dibattito sulla laicità, in questo contesto, diventa incomprensibile. Nel caso turco, più precisamente, l’islam si confonde con l’identità turca ed è presentato come uno dei garanti della sua unità. Al tempo stesso, anche l’esistenza delle comunità minoritarie non islamiche si è strutturata e definita su base etnica e il fervore religioso dei membri di queste comunità ha contribuito ad una radicalizzazione reazionaria delle credenze e delle appartenenze. L’immutabilità della religione, della tradizione e dell’interpretazione della memoria comune sono diventate un operatore identitario. Ecco che, se un tempo le credenze erano un’opzione di libertà, un atto attraverso il quale il singolo poteva affrancarsi da ogni costrizione e particolarismo per raggiungere l’universale, esse diventano ora un indice di identità chiusa e autoreferenziale, dove difficilmente c’è posto per “l’altro”, anzi, dove l’esistenza dell’altro appare una minaccia al mio stesso esistere. In un tale contesto, si possono capire (non abbiamo detto giustificare) certe reazioni estreme degli attori in gioco: l’indispensabile memoria del passato diventa inevitabilmente esclusivo approfondimento di ferite mai rimarginate. Al tempo stesso, non si potrà uscire da questo circolo vizioso se non quando, non solo le comunità potranno esprimere liberamente le loro ricchezze confessionali, ma anche quando esse riusciranno a far passare i loro membri da uno statuto di “cittadini per costrizione” a quello di “cittadini per scelta”, iniziando così a diluire i nazionalismi xenofobi.
Recuperare la storia
Capire questo contesto storico-culturale significa iniziare a cogliere il senso di una drammatica opposizione che negli ultimi anni ha approfondito il solco tra armeni di Turchia e armeni della diaspora, ri-evidenziato implicitamente dalla Lettera indirizzata dall’arcivescovo Aram Ateşyan, vicario generale del Patriarcato armeno in Turchia (dove da anni, il patriarca sopravvive in uno stato vegetativo persistente), al presidente della Repubblica turca Tayyip Erdoğan, il giorno dopo il recente voto del Bundestag sul “genocidio” armeno. Esprimendo il profondo rincrescimento per la politicizzazione di un dossier storico, mons. Ateşyan, in modo assai inequivocabile, precisa, tra l’altro, che l’atto politico del Parlamento tedesco danneggia fortemente i cristiano-armeni cittadini turchi, strumentalizzando le loro traversie storiche per punire, nel presente, lo Stato e la nazione turche! Ma la verità storica, aggiunge Ateşyan, si raggiungerà solo indagando su come, al tempo dei fatti, i “poteri imperialistici” hanno abusato della nazione armena (detto in altre parole, sarebbe il caso che anche le potenze europee, che ora si permettono di giudicare la storia attraverso dei voti parlamentari, riconoscessero le loro gravi responsabilità storiche). Nell’oggi, chiosa l’arcivescovo, i due popoli (turco e armeno), che condividono una storia e delle tradizioni simili, devono costruire un orizzonte di pace esprimendo un pieno e leale impegno di cittadinanza. Si rinnova implicitamente il grido dello storico direttore del giornale armeno Agos, Hrant Dink, assassinato nel 2007 in circostanze e mandanti non ancora del tutto chiari a tutt’oggi. Dink, che lottava per un riconoscimento storico della tragedia del suo popolo, nello stesso tempo scagliava i suoi strali contro la politicizzazione del dossier armeno (senza risparmiare aspre critiche alle lobby armene europee, nella fattispecie a quella potentissima parigina che aveva appena trascinato il Parlamento francese a un voto simile a quello tedesco di queste settimane), auspicando l’avvicinarsi del giorno in cui, con il progressivo diluirsi di nazionalismi funesti, sarà l’identità del “cittadino di Turchia” che occuperà la scena, superando la vecchia retorica del “cittadino turco”!
Evitare una lettura strumentale del passato
Papa Francesco, nei suoi interventi nel corso del pellegrinaggio in terra armena, rivolgendosi a dei fratelli cristiani, ha proposto l’esigentissimo percorso della fede cristiana, dove la memoria, attraversata dall’amore, diventa capace di incamminarsi per sentieri nuovi e sorprendenti, dove le trame di odio si volgono in progetti di riconciliazione, dove si può sperare in un avvenire migliore per tutti, dove sono beati gli operatori di pace.
Ma diventa tuttavia un imperativo anche la necessità di trovare un percorso, forse meno radicale ma laicamente condivisibile, che, attraverso una critica della storia comune, passata e recente, si sforzi di capire la costruzione degli immaginari di ciascuno e, soprattutto, smascheri la funzione strumentale di una lettura del passato che esprime una volontà di sacralizzarlo più che di superarlo, senza dimenticarlo, per costruire un futuro solidale. Diventa essenziale un’analisi corretta di una parte delle ricostruzioni storiche delle rappresentazioni collettive e del rapporto stesso all’alterità. In altre parole, bisogna fare una decostruzione dell’immaginario collettivo negativo dell’altro. Oggi, il mondo turco così come quello del cristianesimo orientale e il mondo arabo stesso in generale, vivono in un ripiegamento difensivo tale che nessun serio lavoro di auto-critica sembra possibile, tanto si è ossessionati dall’affermare la propria identità, percepita come sotto costante assedio. Del resto, quando si leggono dei testi a sfondo identitario, si è colpiti nel constatare che non è tanto l’identità in se stessa che preoccupa, quanto l’identità in relazione all’altro. Questa situazione genera un paradosso: si vuole essere artigiani autonomi della propria storia, ma si è al tempo stesso incapaci di pensarla se non in relazione a quella dell’altro che si combatte. È per questo che la scrittura storica, a Sud del Mediterraneo in particolare, è prigioniera di un pregiudizio tipicamente etnico, che porta ad una sopravvalutazione del passato “glorioso” e a una cultura “vittimistica” che impediscono la produzione di un pensiero e di un discorso innovativi. Ne scaturisce un atteggiamento di opposizione ad oltranza che si nutre esclusivamente delle sofferenze passate, ma che è incapace di volgere lo sguardo anche al futuro. Non a caso, papa Francesco ha invitato i fratelli armeni a non lasciare che i ricordi dolorosi si impadroniscano del cuore imprigionandolo.
Certo, la riaffermazione identitaria è senza dubbio una delle forme di resistenza culturale delle popolazioni medio-orientali, siano esse cristiane o musulmane. Ma questa resistenza culturale non deve implicare ineluttabilmente il rifiuto dell’altro! Al contrario, dovrebbe portare a valorizzare maggiormente la propria eredità, arricchita dall’apporto positivo e fecondo delle altre culture, e a negoziare nuove relazioni fondate sul mutuo rispetto. Fino ad oggi, in queste terre la testimonianza della memoria è stata talmente forte che il futuro è stato letteralmente preso in ostaggio dal passato, soprattutto quando quest’ultimo è attraversato da terribili sofferenze ma anche, al contrario, quando lo si mitizza talmente da farlo diventare una sorta di reliquia storica inamovibile.
Tutti i popoli hanno una memoria collettiva. Essa è un elemento costitutivo dell’identità. Ma bisogna sempre fare in modo che la fedeltà ad una memoria costruita non entri in collisione con il dato storico verificato. Il dialogo culturale nel Mediterraneo, sia quello tra la riva Nord e quella Sud o quello all’interno di ciascun paese, passa attraverso un lavoro sulla memoria per integrare il lavoro memoriale dell’altro, senza imporgli i propri giudizi e talvolta le proprie accuse, senza appello. Certamente, i punti conflittuali resteranno senza soluzione fino a quando non si saranno chiarite le responsabilità specifiche all’origine di tragedie storiche, la cui potenza traumatica non è originata solo dal ricordo, ma dal vissuto quotidiano delle popolazioni e delle persone coinvolte. Ma neppure l’adozione di una sorta di “monopolio vittimistico” renderà servizio alla verità. Quest’ultima postura pretende di legittimare, in nome delle prove subite nel passato o nel presente, un diritto prioritario alla compassione. Questo atteggiamento non porta da nessuna parte. Ecco perché il riconoscimento della sofferenza dell’altro e delle paure (talvolta dei fantasmi) che lo attanagliano è una condizione essenziale per un vero dialogo, capace di rimettere in discussione l’uso strumentale di una “storia reinterpretata in chiave difensiva” e convocata, troppo facilmente, più per confortare il presente che per chiarire il passato.[1]
Recuperare “la memoria del popolo”
Restiamo convinti che, nel Medio Oriente, in cui viviamo e lavoriamo, il dialogo ecumenico e quello interreligioso possono apportare un contributo decisivo all’incontro dell’altro, solo se si accompagnano a un lavoro culturale capace di superare i discorsi narcisistici e i dogmatismi, per percepire l’altro non come semplice avversario, religioso o politico che sia, ma come interlocutore indispensabile nella costruzione di una rete di rapporti umani che possa influire positivamente nella vita al quotidiano. Prima ancora di scomodare le fedi, un semplice approccio umanista esige che si smetta di fabbricare nemici immaginari, e di demonizzare società intere o religioni intere, attribuendo loro delle responsabilità collettive per gli atti riprovabili di alcuni dei loro membri e adepti.
Ci sono modi diversi di percorrere il viaggio della memoria che non portano tutti agli stessi frutti. Papa Francesco nei suoi interventi e nei suoi gesti, come sempre, ha testimoniato con vigore la necessità di riandare continuamente alla sorgente delle tradizioni e delle fedi, ma affermando anche con insistenza che tutto questo ha un senso solo con l’obiettivo di fecondare il presente, trasformandolo in quell’amore che per i cristiani è “incarnazione continua del Verbo”. «Una grazia da chiedere – ha ricordato Francesco nell’omelia nel corso della santa messa celebrata a Gyumri – è quella di saper recuperare la memoria, la memoria di quello che il Signore ha compiuto in noi e per noi: richiamare alla mente che, come dice il Vangelo odierno, egli non ci ha dimenticato, ma “si è ricordato” (Lc 1,72) di noi: ci ha scelti, amati, chiamati e perdonati; ci sono stati grandi avvenimenti nella nostra personale storia di amore con lui, che vanno ravvivati con la mente e con il cuore. Ma c’è anche un’altra memoria da custodire: la memoria del popolo. I popoli hanno infatti una memoria, come le persone. E la memoria del vostro popolo è molto antica e preziosa. Nelle vostre voci risuonano quelle dei sapienti santi del passato; nelle vostre parole c’è l’eco di chi ha creato il vostro alfabeto allo scopo di annunciare la parola di Dio; nei vostri canti si fondono i gemiti e le gioie della vostra storia. Pensando a tutto questo potete riconoscere certamente la presenza di Dio: egli non vi ha lasciati soli. Anche fra tremende avversità, potremmo dire con il Vangelo di oggi, il Signore ha visitato il vostro popolo (cf. Lc 1,68): si è ricordato della vostra fedeltà al Vangelo, della primizia della vostra fede, di tutti coloro che hanno testimoniato, anche a costo del sangue, che l’amore di Dio vale più della vita (cf. Sal 63,4)».
Creerà problemi la parola “genocidio”?
Meditando queste parole, che cosa rispondere ancora alle tante persone che ci hanno chiesto: «A voi che vivete in Turchia creerà ulteriori problemi il riutilizzo della parola “genocidio” da parte di papa Francesco?». Direi che la domanda è mal posta, sia perché non siamo capaci di estrapolare una parola dal contesto di tutta una visita (il fatto che purtroppo lo si faccia mediaticamente rivela probabilmente che l’aggiunta a braccio di questa parola, in un discorso scritto che non la prevedeva, non è stata un’intuizione felice, ma non tanto per il “danno” che può arrecare a noi, ma piuttosto per quello che arreca alla forza e complessità del messaggio che il papa ha saputo ancora una volta veicolare) sia perché quello che ci preoccupa non sono gli effimeri schiamazzi della comunicazione urlata, ma una memoria paralizzata che non diventa memoriale e cioè che è incapace di celebrare nell’oggi una “Presenza”. Sperimentare questa Presenza è l’unico modo di trovare percorsi nuovi per essere a nostra volta “presenti all’altro”, per davvero incontrarlo ed arricchirci con la sua diversità che mette in evidenza la preziosità nella nostra unicità!
[1] Sono decisamente interessanti a questo proposito le riflessioni del professor Bichara Khader, direttore del Centre d’Etudes sur le Monde Arabe contemporain dell’Università cattolica di Lovanio, nel suo Pour un dialogue culturel euro-méditerranéen rénové (Pro manuscripto).