Austen Ivereigh è docente incaricato di Storia della Chiesa contemporanea presso la Campion Hall di Oxford; è biografo di papa Francesco (Wounded Shepherd: Pope Francis and His Struggle to Convert the Catholic Church [2020]; The Great Reformer: Francis and the Making of a Radical Pope [2015]). Il presente articolo – pubblicato dalla rivista inglese The Tablet (18-24 agosto 2024) – è tratto dalla conferenza sul Sacro Cuore e la riforma di papa Francesco che l’autore ha tenuto presso il Sacred Heart Seminary and School of Theology dei padri dehoniani a Hales Corner, Milwaukee, nel novembre 2019. Ringraziamo Austen Ivereigh e il direttore di The Tablet, Brendan Walsh, per averci gentilmente concesso di tradurre e pubblicare il testo.
Nel 1988, un giovane studente di legge si confessò nella parrocchia dei gesuiti nel centro di Buenos Aires. Il sacerdote che ascoltò la confessione di Fabián Báez nella chiesa di El Salvador lo colpì per la sua saggezza e gentilezza. Mentre chiacchieravano alla fine della confessione, il sacerdote diede a Báez un libro che prese da una scatola che teneva vicino alla sua sedia, dicendogli: «Questo piccolo libro ti aiuterà a pregare». Si trattava del Devocionario del Sagrado Corazón de Jesús, una raccolta di preghiere devozionali del Sacro Cuore che la casa editrice dei gesuiti dell’epoca aveva i diritti di stampare in Argentina.
Lo studente divenne poi sacerdote, ordinato dal cardinale arcivescovo di Buenos Aires, che era il gesuita che aveva ascoltato la sua confessione quel giorno. Molti anni dopo, nel 2014, padre Báez si trovava a Roma con dei pellegrini argentini. Durante l’udienza generale del mercoledì in Piazza San Pietro, lo stesso gesuita, ora vestito di bianco, lo notò e lo invitò a salire sulla papamobile.
Dieci anni dopo, in occasione di un’altra udienza generale del mercoledì all’inizio di giugno di quest’anno, papa Francesco ha annunciato un suo documento sul Sacro Cuore di Gesù, «per riproporre oggi, a tutta la Chiesa, questo culto carico di bellezza spirituale». Il documento sarà pubblicato a settembre, a metà del 350° anniversario della prima delle tante visioni avute da suor Margherita Maria Alacoque nel suo convento nella Francia orientale. Promettendo «un documento che raccolga le preziose riflessioni di testi magisteriali precedenti e di una lunga storia che risale alle Sacre Scritture», Francesco ha detto: «Credo che ci farà molto bene meditare su vari aspetti dell’amore del Signore che possano illuminare il cammino del rinnovamento ecclesiale; ma anche che dicano qualcosa di significativo a un mondo che sembra aver perso il cuore» (Udienza, 5 giugno 2024).
Riproporre una devozione
Dicendo «riproporre» la devozione, il papa non esagera. Questo sarà il quarto documento di un papa sul Sacro Cuore – dopo l’Annum Sacrum di Leone XIII (1899), la Miserentissimus Redemptor di Pio XI (1928) e la Haurietis Aquas di Pio XII (1956) – ma sarà il primo dopo il Concilio Vaticano II. Per quale ragione Francesco, un papa che è privo di nostalgia, che si preoccupa del rinnovamento della Chiesa, che è attento ai segni dei tempi e che, naturalmente, è convintamente fedele al Concilio Vaticano II, desidera che si ripercorra questa antica strada?
Per molti al giorno d’oggi la devozione al Sacro Cuore è un anacronismo degli anni Cinquanta, associato soprattutto all’oleografia che era appesa alla parete della cucina di ogni famiglia cattolica, l’apice del kitsch devozionale. Un Gesù dagli occhi da cerbiatto, effeminato e dal viso pallido indica il suo cuore al di fuori del suo corpo, che sanguina ed è circondato da una corona di spine. A una devozione tanto penalizzata dalla sua rappresentazione artistica si avvicina soltanto il Gesù della Divina Misericordia con la spada di luce.
Tuttavia, come dimostra l’aneddoto di padre Báez, per Jorge Mario Bergoglio quella devozione non è mai tramontata. Il confessore di suor Margherita, san Claudio de La Colombière, era un gesuita e la spiritualità del Sacro Cuore fu diffusa principalmente dalla Compagnia di Gesù nel XVIII secolo.
Si è radicata soprattutto in America Latina, alla fine del XIX secolo, ed è un elemento chiave della religiosità popolare che Francesco apprezza così tanto. In un videomessaggio prima della visita a Cuba, nel settembre 2015, Francesco si è detto felice che i vescovi abbiano esortato la popolazione a ripetere più volte al giorno: «Sacro Cuore di Gesù, rendi il mio cuore simile al tuo». Perché, ha detto, questa è «la preghiera che abbiamo imparato da bambini».
Tuttavia molti, se non la maggior parte dei gesuiti, la abbandonarono negli anni Sessanta-Settanta, al punto che il superiore generale della Compagnia di Gesù, padre Pedro Arrupe, lamentò nel suo ultimo discorso alla Compagnia, nel 1981, che «negli ultimi anni l’espressione stessa “Sacro Cuore” ha suscitato sovente, da parte di alcuni, reazioni emotive, quasi allergiche». Arrupe dovette ricordare ai suoi confratelli che la devozione era «il centro dell’esperienza ignaziana» e che doveva essere rinnovata, non abbandonata, perché rimaneva «un mezzo straordinariamente efficace… sia per ottenere la perfezione personale che per il buon esito dell’apostolato».
Colui che lo stesso Arrupe aveva nominato nel 1973 alla guida della provincia argentina non aveva bisogno di essere persuaso che «la Compagnia ha bisogno della forza (dynamis)» contenuta nella devozione. Bergoglio aveva incoraggiato i giovani gesuiti ad abbracciarla tra le altre devozioni popolari e vi è rimasto fedele. Da provinciale, forse incoraggiato da Arrupe, si è assicurato i diritti di pubblicazione del Devocionario, che negli anni Ottanta distribuiva non solo in confessionale ma anche come regalo di Natale.
E ora, forse, è proprio l’esortazione di Arrupe a riflettere e discernere sul significato della devozione «e su quello che dovrebbe significare ancora oggi» a essere alla base del nuovo documento di Francesco. Come dimostra la costante enfasi del papa sulla tenera e misericordiosa natura di Dio, egli concorda con Arrupe sul fatto che il mondo di oggi presenta «sfide e opportunità che possono essere pienamente affrontate solo con la forza di questo amore del Cuore di Cristo». Riflettendo ora sul Sacro Cuore, Francesco vuole mostrarci perché questo è vero, ma anche come questo permetta il rinnovamento spirituale e istituzionale di cui la Chiesa ha un gran bisogno in un mondo post-cristiano, ma anche post-secolare.
Un cuore in fiamme
La prima visione di suor Margherita Maria a Paray-le-Monial (Saône-et-Loire), il 27 dicembre 1673, fu quella del cuore di Gesù, circondato da spine e sormontato da una croce su un trono di fiamme (un’immagine molto diversa dall’oleografia novecentesca che ha conosciuto una larghissima diffusione). La suora raccontò che Gesù prese il suo cuore e glielo restituì «in fiamme».
Quando cercò di condividere questa e le successive esperienze con le sue consorelle della Visitazione, non fu creduta e ne soffrì. Ma trovò un alleato in padre Claudio de La Colombière, un gesuita mite che viveva nelle vicinanze e che divenne il suo direttore spirituale. Nei 18 mesi successivi, mentre le visioni continuavano, p. Claudio si convinse che Dio le stava rivelando qualcosa di importante e aiutò suor Margherita Maria a venerare il sacro cuore di Gesù. I due avrebbero lavorato insieme per diffondere i messaggi ricevuti e le loro implicazioni.
Nel 1676 La Colombière fu inviato in Inghilterra come predicatore della Duchessa di York, moglie del futuro re Giacomo II. Continuò da lì a guidare per lettera suor Margherita Maria. Scampò per poco alla condanna a morte durante l’isteria anticattolica del «complotto papale», tornando in Francia nel 1679 e morendo tre anni dopo.
La suora ricevette una serie di dodici promesse dal cuore di Gesù. Le prime cinque iniziano con «darò» grazie, pace, consolazione, rifugio e benedizioni. La sesta dice che «i peccatori troveranno nel mio Cuore la fonte e l’oceano infinito della misericordia». Tre promesse assicurano che le anime tiepide diventeranno ferventi, le anime zelanti raggiungeranno la perfezione e ai sacerdoti sarà dato «il potere di toccare i cuori più induriti». Altre due si riferiscono alla devozione stessa: coloro che la diffonderanno e i luoghi in cui l’immagine sarà venerata saranno benedetti. Un’ultima promessa è che a coloro che riceveranno la comunione il primo venerdì per nove mesi Gesù mostrerà una speciale vicinanza al momento della loro morte.
Come negli Esercizi Spirituali, l’iniziativa è presa da Cristo, che abilita e potenzia con la sua grazia. Francesco ritorna costantemente su questo aspetto del divino, che coglie nei suoi famosi neologismi primerear e misericordiar: Dio è sempre lì davanti a noi, ci ama, si impegna per noi. Questo è quanto la devozione al Sacro Cuore illustra in modo tanto esplicito.
Non sono la conoscenza o lo sforzo a ottenere l’amore e la misericordia di Dio; tutto è dono e grazia. La nostra fede non è un commercio con Dio, ma una risposta grata a un’esperienza che non scaturisce da un’idea o da una proposta etica, ma da un incontro, come ha scritto Benedetto XVI. Ciò che rende la devozione «contemporanea» è che la fede è infiammata dall’esperienza di un incontro anziché assunta attraverso le consuetudini e la cultura.
Conversione all’amore
La conversione è il modo in cui l’uomo risponde alla synkatabasis e alla kenosis di Dio – ovvero, al suo scendere e avvicinarsi, al suo svuotarsi – attraverso l’offerta di sé stesso. Un simile scambio è reso possibile dal fatto che, nonostante la distanza tra Creatore e creato, Dio è una presenza ferita, misericordiosa, che dona sé stesso e che permette a noi (esseri feriti, limitati, imperfetti e affamati d’amore) di essere abbracciati da Lui. Non dobbiamo essere «buoni» per essere amati; diventiamo buoni accettando l’amore di Cristo per noi.
Dobbiamo però lasciarci trasformare dal suo gesto di donazione, cosa che la devozione vorrebbe favorire. Infatti, sosteneva sant’Agostino, non è l’osservanza dei comandamenti che ci fa guadagnare l’amore di Dio, ma il contrario: Dio ci offre incondizionatamente la sua misericordia e il suo amore e, ricevendoli, noi comprendiamo il nostro vero valore. Siamo trasformati e diventiamo a nostra volta operatori di trasformazione o, nel linguaggio della devozione, di «riparazione».
Questo può suonare come una forma di ricatto legato al senso di colpa. Condannati come peccatori, dobbiamo in qualche modo cercare di tornare nelle grazie di Dio. Ma la devozione rivela piuttosto il contrario: l’idea di un Dio distante, che disprezza il peccatore e che esige il suo sacrificio è una fantasia umana. Dio è amorevole, misericordioso, tenero, clemente, «ferito»; il suo potere (dynamis) non è un potere impositivo, ma l’impatto catalizzatore della misericordia su una persona che si fa tanto umile da riceverla.
Riparazione «è quando diventiamo collaboratori di questo amore nelle nostre famiglie, comunità e nel nostro mondo, e diventiamo ministri della compassione e operatori di guarigione», afferma il teologo gesuita britannico James Hanvey in un articolo del 2016 su Thinking Faith dedicato al Sacro Cuore. «Nel voler ricambiare questo amore, nel fare ammenda per ciò che noi o altri hanno spezzato, non agiamo per senso di colpa ma per riconoscenza e con gratitudine».
Citando il messaggio del Sacro Cuore in occasione di una udienza a Roma nel settembre 2018, Francesco ha parlato del risveglio del mondo moderno di fronte a tale rivelazione della misericordia di Dio come forza di trasformazione umana:
«È un messaggio che ci è pervenuto più forte negli ultimi tempi: dal Sacro Cuore, da Gesù misericordioso, dalla misericordia come proprietà essenziale della Trinità e della vita cristiana. Oggi la liturgia ci ricordava la parola di Gesù: “Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso” (Lc 6,36). La tenerezza può indicare proprio il nostro modo di recepire oggi la misericordia divina. La tenerezza ci svela, accanto al volto paterno, quello materno di Dio, di un Dio innamorato dell’uomo, che ci ama di un amore infinitamente più grande di quello che ha una madre per il proprio figlio (cf. Is 49,15). Qualsiasi cosa accada, qualsiasi cosa facciamo, siamo certi che Dio è vicino, compassionevole, pronto a commuoversi per noi. Tenerezza è una parola benefica, è l’antidoto alla paura nei riguardi di Dio, perché “nell’amore non c’è timore” (1Gv 4,18), perché la fiducia vince la paura. Sentirci amati significa dunque imparare a confidare in Dio, a dirgli, come Egli vuole: “Gesù, confido in te”» (Ai partecipanti al convegno promosso dal Centro familiare «Casa della tenerezza»).
Come un manifesto
«Quando l’uomo si sente veramente amato», ha detto Francesco nella stessa occasione, è capace di «uscire dall’egocentrismo che deturpa la libertà umana» e si sente chiamato «a riversare nel mondo l’amore ricevuto dal Signore, a declinarlo nella Chiesa, nella famiglia, nella società, a coniugarlo nel servire e nel donarci». E a fare tutto questo «non per dovere, ma per amore, per amore di colui dal quale siamo teneramente amati».
Nel documento finale dell’incontro dei vescovi latino-americani ad Aparecida, nel maggio 2007, il cardinale Bergoglio – che del testo fu il principale redattore – ha descritto questa dinamica come el encuentro fundante, l’incontro «fondante», perché è quello che crea il discepolo, anzi la Chiesa stessa. Nel discernimento di Francesco la stessa dinamica è la fonte della riforma odierna della Chiesa, che deve essere (ri)plasmata dall’incontro con la misericordia. Tale Chiesa del futuro sorge ora, proprio mentre il cristianesimo culturale – una Chiesa segnata dal conformismo sociale, dai legami con il potere, dal moralismo borghese, dal clericalismo ecc. – sta scomparendo. Il cambiamento viene descritto nell’Evangelii gaudium e sarà reso possibile dalla sinodalità, che è il tentativo di incarnare lo «stile di Dio» nella cultura e nelle strutture della Chiesa.
Francesco parte dalla conclusione di Aparecida: nell’epoca secolare e tecnocratica di oggi, la Chiesa non può più moralizzare da una posizione di autorità, né evangelizzare conquistando lo Stato, bensì testimoniare attraverso il servizio e la misericordia – come un ospedale da campo, non come un crociato che tiene la bandiera.
Tale opzione è contestata dalle forze «integriste» negli Stati Uniti, tra cui molti cattolici pro-Trump che cercano di riconquistare lo spazio pubblico: essi vedono l’enfasi di Francesco sulla misericordia come una capitolazione davanti alle forze disgregatrici della modernità liberale. Ma Francesco è inamovibile: la missione evangelizzatrice nel nostro mondo deve comunicare oggi chi è e come è Dio.
La Chiesa «decade inesorabilmente quando scambia la potenza della forza con la forza dell’impotenza, attraverso la quale Dio ci ha redenti», ha detto ai vescovi americani a Washington nel settembre 2015. Mettendoli in guardia dal fare della croce «un vessillo di lotte mondane», non comprendendo che «la condizione della vittoria duratura è lasciarsi trafiggere e svuotare di sé stessi». Questo è un manifesto del Sacro Cuore.
Nelle anime e nelle società
In questo riassetto dell’impegno della Chiesa, la devozione potrebbe rivelarsi una dynamis potente per Francesco in risposta al populismo nazionale, come lo fu per Leone XIII nell’affrontare i reazionari realisti francesi alla fine del XIX secolo. Due delle encicliche chiave di Leone, Rerum Novarum (1891) e Au Milieu des Sollicitudes (1892), ritagliarono un nuovo spazio per l’influenza etica della Chiesa in un mondo democratico o almeno post-monarchico, dove c’era libertà di creare organizzazioni e movimenti.
La chiave di tutto ciò fu padre Leone Dehon (1843-1925), fondatore della Congregazione dei Sacerdoti del Sacro Cuore di Gesù, l’ordine conosciuto anche come Dehoniani, a cui affidò la missione di promuovere tale insegnamento. Dehon assunse una devozione che era diventata un simbolo della restaurazione monarchica e la riformulò come strumento di rinnovamento sia nella Chiesa che nella società: la riparazione sociale significava il règne social du Sacré Coeur, il regno di Dio nei cuori degli uomini e nelle società, attraverso la promozione degli interessi dei lavoratori e, in generale, della «civiltà dell’amore» della Rerum Novarum.
Nell’Annum Sacrum (1899), papa Leone promuove la «forma più eccellente di devozione che ha per oggetto il Sacro Cuore di Gesù» come modo per articolare questo regno sociale. Il potere sovrano di Cristo si esercita nei cuori dei credenti e dei non credenti, nella verità, nella giustizia e nella carità. Consacrando il mondo intero al Sacro Cuore di Gesù, Leone intendeva rispondere al «muro che viene innalzato tra la Chiesa e la società civile» e al «disprezzo della legge divina». Tuttavia, la sua risposta non fu né una condanna reazionaria né un ritiro quietista, ma si rivolse alla forza e al potere della devozione al cuore amorevole di Cristo. «In quel Sacro Cuore devono essere riposte tutte le nostre speranze e da esso si deve chiedere con fiducia la salvezza degli uomini», ha scritto.
Nell’Evangelii gaudium Francesco afferma qualcosa di simile, ovvero che la proposta del vangelo è il Regno di Dio: «si tratta di amare Dio che regna nel mondo»; e che «nella misura in cui Egli riuscirà a regnare tra di noi, la vita sociale sarà uno spazio di fraternità, di giustizia, di pace, di dignità per tutti». Un simile linguaggio in bocca ai papi della fine del XIX e dell’inizio del XX secolo lo avrebbe espressamente identificato con la pletora di ordini e associazioni dedicate al Sacro Cuore.
Quale significato avrà la proposta
Che significato avrà la devozione che Francesco proporrà «a un mondo che sembra aver perso il suo cuore», come ha detto in uno dei suoi Angelus di giugno? Credo che si parlerà molto delle ferite dei poveri e degli emarginati in un mondo globalizzato e tecnocratico e del modo in cui queste ferite – quelle degli scartati e degli esclusi, le ferite della terra stessa – sono il luogo in cui incontriamo le ferite di Cristo e quindi sperimentiamo l’«incontro fondante». Forse la contrapporrà esplicitamente alla tentazione del potere, del rifiuto della ferita in favore del trionfalismo e del dominio, delle sirene nazional-populiste.
C’è forse un ultimo indizio nel discorso che Francesco rivolse al clero e ai religiosi presso il santuario di El Quinche nel 2015, a conclusione della sua visita di tre giorni in Ecuador. Era rimasto colpito da come, ovunque fosse stato, le persone fossero gioiose, contente, gentili e pie; e che dai più giovani ai più anziani tutti avessero chiesto la sua benedizione, tanto che aveva passato il tempo a fare il segno della croce in continuazione. Qual era il segreto di questo popolo? Si era chiesto, rimuginando sulla questione e chiedendo a Gesù in preghiera la risposta. Quella mattina aveva ricevuto un’intuizione: lo si doveva al fatto che l’Ecuador aveva «avuto il coraggio» di consacrare sé stesso al Sacro Cuore nel 1874.
Mi sono chiesto come mai un papa come Francesco si riferisse a un avvenimento che, all’epoca dei fatti, era utilizzato dai conservatori per affermare il potere temporale della Chiesa contro le forze liberali e massoniche. (È noto che l’anno successivo alla consacrazione pubblica da parte del legislatore, il presidente Gabriel García Moreno fu assassinato dai massoni). In seguito, ho compreso che Bergoglio non aveva in mente alcun riferimento a quelle battaglie, ma stava lodando la bellezza della fede di un popolo evangelizzato, che era stato plasmato dall’incontro con il cuore misericordioso di Gesù. E che questo gli aveva offerto una visione del futuro della Chiesa.
Insieme ad un certo senso mistico il sacro cuore è uno degli elementi portanti della mia fede. C’è posto per tutti in questo cuore divino.
A me sorprende sempre il fatto che a Papa Francesco piace presentarsi come il rivoluzionario della Chiesa Cattolica e con un colpo di spugna intende cancellare quello che hanno detto, fatto, meditato e scritto i suoi predecessori. Come dire: voi non avete capito niente di Dio, mentre io ho capito tutto.
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Papa Francesco, provenendo dall’ambiente latino americano, è molto legato alle devozioni, mentre in Europa queste sono ritenute un feticcio. Ritengo pertanto che attualmente in Italia sia molto imbarazzante riproporre la devozione al Sacro Cuore di Gesù, ma se ce lo chiede il Papa, dobbiamo farlo. Almeno per poter dire che non abbiamo lasciato nulla di intentato.