L’annuale discorso del papa per gli auguri alla curia (21 dicembre) è stato commentato sulla base di quanto scritto e alluso. Con scarsa attenzione all’indiretta distanza dall’idea di dimissioni.
Sulla legittimità delle dimissioni del suo predecessore e sulla possibilità delle proprie, papa Francesco è tornato più volte. Ad esempio nel maggio del 2014 («Un papa che sente che le sue forze vengono meno… deve farsi le stesse domande che si è posto papa Benedetto») e del luglio dello stesso anno («E se io non me la sentissi di andare avanti? Farei lo stesso»).
Nel testo di quest’anno si accenna ad aspetti della curia che «non sarà difficile, nel prossimo futuro, elencare e approfondire». Chi pensa a dimissioni non si esprime così. Come non sottolineerebbe la «pazienza, dedizione e delicatezza» dei processi di riforma.
La ricezione mediale si è esercitata sui complotti» e «piccole cerchie», sui «traditori di fiducia» e gli «approfittatori della maternità della Chiesa». Ed ecco i nomi proposti: card. Müller, Libero Milone (Ior), Giulio Mattietti (Ior), Lucio Angel Vallejo Balda, card. Sarah ecc. In realtà, le dimensioni significative dell’intervento riguardano temi trasversali e spirituali come la funzione diaconale della curia, i sensi (udito e occhio) strutturanti il suo servizio, la sua funzione di antenne emittenti e riceventi.
Novità e conferme
Guardando “ad extra”, cioè alle realtà a favore delle quali la curia deve operare, il papa ricorda nell’ordine: il rapporto con gli stati (diplomazia pontificia), con le Chiese particolari (i dicasteri), con le Chiese orientali (congregazione per le Chiese orientali), il dialogo ecumenico (pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani e dicasteri), i rapporti con ebraismo, islam e altre religioni (pontificio consiglio per il dialogo interreligioso e dicasteri).
Molte le conferme e alcune novità. Fra queste: la terza sezione della Segreteria di stato, la modalità della visita ad limina, la progettata riforma della nomina dei vescovi orientali.
La terza sezione è chiamata a seguire la scelta, lo spostamento e la cura di persone e cose delle nunziature. Una competenza prima alloggiata nella prima sezione (sostituto mons. Becciu), che perde anche la competenza sul personale di curia.
La visita ad limina si è arricchita in tre casi di un incontro finale dei vescovi con il papa e i dicasteri interessati a un particolare ambito territoriale: è accaduto per Quebec, Perù e Cile.
Per le Chiese orientali si tratta di «approfondire e di revisionare la delicata questione dell’elezione dei nuovi vescovi ed eparchi».
In tutti i cinque discorsi fatti alla curia dal 2013 ad oggi ritorna la volontà di una riforma dello strumento: anzitutto spirituale e poi strutturale.
Gli elementi maggiori sono già riconoscibili: le due segreterie, oltre a quella di stato, cioè dell’economia e della comunicazione, i due nuovi dicasteri (dei laici e per la giustizia e la pace) e lo Ior. Rimane da definire il dicastero dell’evangelizzazione che incorporerebbe Propaganda fide e il Pontificio consiglio della nuova evangelizzazione. Con una domanda trasversale e di fondo.
Il rinnovamento della curia può rispondere ad una efficienza maggiore in ragione di una rinnovata centralizzazione oppure ad un riconoscimento effettivo dell’autonomia e della responsabilità delle conferenze episcopali. Papa Francesco è per il secondo esito, ma l’eterogenesi dei fini potrebbe evidenziare la prevalenza del primo.
I cinque interventi del papa
Gli interventi del papa con i suoi collaboratori più diretti configurano ormai una sorta di compendium curiale. L’introduzione (2013) con l’invito alla professionalità, al servizio e alla santità di vita. I tre interventi successivi sulle tentazioni (15), le virtù (12) e i criteri (12) dell’attività di chi serve l’esercizio del primato papale. Infine gli ambiti di servizio proposti nell’ultimo discorso.
Fra le citazioni vi è quella divertente battuta di mons. Frederic De Merode (1820-1874), vice-ministro delle armi a difesa dello stato pontificio e urbanista geniale per la Roma di quel tempo: «Fare le riforme a Roma è come pulire la Sfinge d’Egitto con uno spazzolino da denti». Non erano moltissimi quelli che allora sapevano dov’era l’Egitto e il mito della Sfinge, ma quasi nessuno conosceva lo spazzolino da denti che è entrato nell’uso comune dopo la seconda guerra mondiale, sull’esempio dei militari statunitensi. Anche gli intransigenti ultramontanisti erano capaci di profezia.
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