I papi sono Benedetto XVI e Francesco, il curato è Giovanni Maria Vianney, patrono di tutti i parroci del mondo. La lettera di papa Francesco ai sacerdoti per il 160° anniversario della morte del santo curato d’Ars (4 agosto 2019, qui il testo) può essere letta in parallelo a quella di Benedetto XVI di dieci anni prima, in occasione della indizione dell’anno sacerdotale (2009-2010). Con sorprendenti affinità e non meno evidenti distanze: a testimonianza di come le memorie spirituali attraversino e si modifichino nei diversi momenti storici.
La recente lettera di Francesco è un atto di stima e di affetto verso presbiteri che lavorano in trincea e che ci «mettono la faccia». È strutturata in base ad alcuni sentimenti e orientamenti spirituali, privilegiando il vissuto del prete: dolore, gratitudine, coraggio e lode. L’intento complessivo è quello di stimolare la fedeltà creativa entro il cammino della riforma ecclesiale.
La lettera di Benedetto XVI ha lo stessa volontà di consolazione, ma cresce attorno alla conferma di una identità teologica e istituzionale: ufficio e sacramento, santità soggettiva e oggettiva. Vianney diventa un modello di immediata praticabilità, mentre per Francesco resta una sorgente esemplare, ma sullo sfondo.
Vianney: modello o ispirazione
Comune è il riconoscimento ai preti di portare una rappresentatività ecclesiale nel quotidiano cammino del popolo di Dio, di costituire un «immenso dono… non solo per la Chiesa, ma anche per la stessa umanità» (Benedetto), messi alla prova dalle sofferenze che incrociano, dalle incomprensioni e, talora dalle persecuzioni. Francesco aggiunge: «si sentono ridicolizzati e colpevolizzati a causa di crimini che non hanno commesso».
Il riferimento è alla lunga vicenda degli abusi che Benedetto sottolinea non tanto nella lettera di indizione, ma nell’omelia alla fine dell’anno sacerdotale. «Era da aspettarsi che al “nemico” questo nuovo brillare del sacerdozio non sarebbe piaciuto; egli avrebbe preferito vederlo scomparire, perché in fin dei conti Dio fosse spinto fuori dal mondo. E così è successo che, proprio in questo anno di gioia per il sacramento del sacerdozio, siano venuti alla luce i peccati di sacerdoti – soprattutto l’abuso nei confronti dei piccoli –, nel quale il sacerdozio come compito della premura di Dio a vantaggio dell’uomo viene volto nel suo contrario». Un decennio travagliato, ma per Francesco «i tempi della purificazione ecclesiale che stiamo vivendo ci renderanno più gioiosi e semplici e, in un futuro non troppo lontano, saranno molto fruttuosi».
Per ambedue i pontefici il prete è figura inaggirabile dell’esperienza ecclesiale. Benedetto insiste molto sulla sua identità teologica e istituzionale, sulla «sua totale identificazione col proprio ministero», sulla «straordinaria fruttuosità tra la santità oggettiva del ministero e quella soggettiva del ministro». Fa sua, con una impercettibile distanza, la centralità assoluta del prete espressa negli scritti di Vianney: «Dopo Dio, il sacerdote è tutto!».
Per Francesco il sacerdote è dentro, davanti e dietro il suo popolo, legato ad esso dal servizio e dalla gratitudine: «ringraziamo anche per la santità del popolo fedele di Dio che siamo invitati a pascere e attraverso il quale il Signore pasce e cura anche noi con il dono di poter contemplare questo popolo».
Tristezza dolciastra
Molti vicini i testi dei due papi sulla centralità della preghiera nella vita del presbitero, nel legame fra sacramento eucaristico e sacramento della penitenza, nell’affermazione di una vocazione che è «per sempre». «Questa immedesimazione personale al sacrificio della croce conduceva (il curato d’Ars) – con un solo movimento interiore – dall’altare al confessionale. I sacerdoti non dovrebbero mai rassegnarsi a vedere deserti i loro confessionali né limitarsi a constatare la disaffezione dei fedeli nei riguardi questo sacramento» (Benedetto). «Grazie, perché celebrate quotidianamente l’eucaristia e pascete con misericordia nel sacramento della riconciliazione, senza rigorismi né lassismi, facendovi carico delle persone e accompagnandole nel cammino della conversione» (Francesco).
Sovrapponibile anche il richiamo all’ascesi, fino a riconoscere la tentazione estrema dell’angoscia. «Possono addirittura esserci dei momenti in cui dovremmo immergerci “nella preghiera del Getzemani, la più umana e drammatica delle preghiere di Gesù”» (Francesco). La valle oscura della morte richiama le «valli oscure della tentazione, dello scoraggiamento, della prova, che ogni persona umana deve attraversare. Anche in queste valli tenebrose della vita Egli è là» (Benedetto: omelia alla fine dell’anno sacerdotale).
Più distante nei due pontefici il modo di illustrare il rapporto fra prete e popolo di Dio. Benedetto parla di «collaborazione» coi laici. Per Francesco c’è equivalenza fra il legame costitutivo dell’identità sacerdotale con Gesù e quello con il popolo: «Non isolatevi dalla vostra gente e dai presbiteri o dalla comunità. Ancora meno non richiudetevi in gruppi chiusi ed elitari». Diverso anche l’accento sui legami con gli altri preti all’interno del presbiterio: «cercate di rafforzare i legami di fraternità e di amicizia nel presbiterio e con il vostro vescovo, sostenendovi a vicenda, curando colui che è malato, cercando chi è isolato, incoraggiando e imparando la saggezza dell’anziano, condividendo i beni, sapendo ridere e piangere insieme» (Francesco).
Per Francesco sono due i segnali che misurano la qualità del servizio ministeriale: da un lato, la capacità di accompagnare la povertà e il dolore, senza fuggire nell’intellettualismo e nel fatalismo, dall’altro, la resistenza all’accidia. «Delusi dalla realtà, dalla Chiesa o da noi stessi, possiamo vivere la tentazione di aggrapparci ad una tristezza dolciastra, che il padri dell’Oriente chiamavano accidia», quella tristezza che paralizza il coraggio di proseguire nel lavoro, nella preghiera, nella cordialità dei rapporti, «il nemico peggiore della vita spirituale».
L’amore che libera.
Solo la luce dell’amore sereno, a misura, guarisce, dà vita. Cinque pani e due pesci. Non fare chissà che cosa ma cercare di vivere ciò che la grazia fa maturare, in un percorso ben al di là degli schemi, verso il pieno, personalissimo, compimento del vangelo in me. La fede e’ lasciar operare Dio. Dunque non moralismi, risposte prefabbricate e su questa serena scia anche sempre meno complicazioni, ferite, paure. Riprendo contatto col mio cuore semplice, libero, nella luce che lo porta.
La strada si svela momento per momento, nella vita concreta, in contatto con gli altri. Non con progetti a tavolino che mettono in ansia perché spesso smentiti dalla realtà. Né, in tanti casi, nella disincarnata assenza di piste maturate eppure sempre da riscoprire nel cuore di Dio. Cresce la fiducia in un Dio buono, che pensa a tutta la mia umanità, che desidera donarmi ogni bene. E non mi darà cose che mi fanno male.
Dunque non intellettualismi, spirituali, psicologici, non pragmatismi ma amore a misura. Ognuno sul suo autentico, semplice, cammino. Anche un ateo, con i suoi tanti doni che magari io ancora non ho. Si ricompone l’umano, prima scisso, astrattizzato. Luce dell’amore a misura. Piccoli, naturali, liberi. Via di rinascita integrale. Il cuore che si lascia leggere dallo Spirito di Gesù, Dio e uomo, che scende come una colomba poi legge sempre più nel cuore degli altri, le loro vie, i loro bisogni. Nel cuore di ogni cosa. Nodi che si sciolgono, strade che si aprono. Olio sulle ferite, vino di vita, di speranza.