Spesso mi capita di tornare con la mente e col cuore ai fotogrammi che ritraggono papa Francesco ed Emma Bonino mentre conversano amabilmente come vecchi amici, ciascuno seduto su una carrozzina.
Due persone malate e stanche, provate dagli anni e dalla vita, che, semplicemente grazie ai loro corpi, ci suggestionano. Paiono infatti suggerirci che la nostra presenza qui, sulla terra, è radicata nei nostri corpi.
E si relativizza assai la differenza che intercorre tra corpi sofferenti o gaudenti, teneri o provati dal male o da un’esistenza che si protrae dalla prima metà del secolo scorso, armoniosi o deformi.
E quei cioccolatini e quei fiori donati dal vescovo di Roma alla leader radicale stanno lì a indicare uno scambio che non è mercimonio, bensì suggello di affetto e di tenerezza.
Già – per designare l’atmosfera nella quale i due erano immersi parlerei più di tenerezza (filótes) che di agápe (o caritas). E poi vi è la dimensione della philía: l’amicizia, tale da infrangere i confini fra un uomo che scorge nell’interruzione volontaria di gravidanza un omicidio e una donna che si è trovata ad abortire, aiutando tante altre a farlo.
Due persone, insieme, forti e fragili, che hanno fatto del conflitto, di polemos, la cifra di tante loro scelte (non dimentichiamo che Francesco è un gesuita) e che, nello stesso tempo, sanno porgere, evangelicamente, l’altra guancia, riuscendo a rendere la comune umanità (la grande religione laica di cui parla Bonino) un momento, anzi una condizione permanente di condivisione.