Poche ore dopo l’omelia di Francesco a L’Aquila, ho letto la formulazione di una tesi intrigante: il papa avrebbe fatto bene a elogiare Celestino V, ma avrebbe sbagliato dando per certo che Dante si riferisse a lui nella condanna per viltà: Francesco ha detto: «Celestino V non è stato l’uomo del no, è stato l’uomo del sì».
Il Celestino V di Dante e quello di papa Francesco
Che Dante non abbia scritto il nome di colui che fece per viltade il gran rifiuto è vero, ma è pur vero che non sopportava il successore di Celestino V, ossia Bonifacio VIII che ha collocato all’inferno per simonia, oltre che, molto probabilmente, per l’avversione storica che questi aveva manifestato per la parte fiorentina dello stesso Dante, causa del suo esilio.
Ma tutto questo sembra contare poco, né qui conta che Dante avesse tutte le ragioni di scagliarsi contro la simonia. Ciò che conta è chi sia Dante. Dante è un grandissimo poeta, il sommo poeta, ma neppure lui può essere letto con le lenti del letteralismo. Se così non fosse dovremmo ritenere che Dio è – davvero – sì spietato da condannare a fiamme e tormenti eterni: terribile ne è solo l’idea.
Dunque, non conta chi Dante abbia voluto condannare in quel passo: secondo me, proprio Celestino V. Quello che conta è il letteralismo sbagliato che tradisce il senso poetico più profondo, quello che ignoriamo tutti – o quasi –, quando condanniamo nel nome del rigore e dell’inflessibilità morale, sovvertendo i sensi della misericordia e dell’umana pietà.
La grandezza del primo pellegrinaggio papale della storia a L’Aquila per la festa della Perdonanza sta tutto qua: nel capovolgere di nuovo ciò che è stato da noi già sovvertito, non capendo Dante. “Noi” abbiamo deciso che Dio ha condannato Celestino V – e con lui molti altri, ad esempio Maometto quale falso profeta –, ergendoci a giudici implacabili, ad esempio, di un miliardo e ottocento milioni di esseri umani, qualificati di falsa umanità. Mentre Dante ha creato un capolavoro eterno, appunto, perché è capace ancora di parlarci nella lingua di Francesco, una lingua che sa di poesia più che di manuale di teologia morale.
Il probabile – poco misurato – impeto di questo papa, calato nel mondo contemporaneo, è mosso infatti dalla teologia o dalla poetica della misericordia.
Celestino V – nella lingua di Francesco – è divenuto il «santo Papa», «il testimone coraggioso del Vangelo». E, in effetti, deve essergli servito tanto coraggio per rinunciare al soglio pontificio e ritornare umile monaco al servizio della Chiesa, già avanti nell’età e pieno di malanni. Purtroppo, in questo millennio, questa non sembra essere il consiglio più praticato.
Celestino: un esempio per i nuovi cardinali?
Il criterio non è tentare di discernere e umanamente chiedersi: perché lo ha fatto? Se Celestino V si fosse dimesso perché in San Pietro stava rischiando la vita – a quei tempi poteva pure accadere –, il giudizio potrebbe essere altro.
Se, invece, il criterio del discernimento è il servizio – e lui non poteva più servire –, ecco risulta che «il cristiano sa che la sua vita non è una carriera alla maniera di questo mondo, ma una carriera alla maniera di Cristo, che dirà di sé stesso di essere venuto per servire e non per essere servito». «Finché non comprenderemo che la rivoluzione del Vangelo sta tutta in questo tipo di libertà, continueremo ad assistere a guerre, violenze e ingiustizie, che altro non sono che il sintomo esterno di una mancanza di libertà interiore». «Lì dove non c’è libertà interiore, si fanno strada l’egoismo, l’individualismo, l’interesse, la sopraffazione, e tutte queste miserie».
Secondo me, sta in queste parole il motivo per cui Francesco ha inserito – tra l’inizio e la conclusione del Concistoro – la sua visita a L’Aquila. I nuovi cardinali – i 16 elettori – sono stati creati poche ore prima di questo discorso. Evidentemente il vescovo di Roma ha inteso fare del continuo capovolgimento di paradigma – dalla viltà alla testimonianza coraggiosa – l’asse centrale della sua predicazione evangelica ai pastori (e non solo). Praedicate Evangelium è infatti la denominazione della costituzione che riforma la Curia Romana.
Per cambiare etichette e dimensioni degli uffici serve predicare il Vangelo? Serve, se si capisce che la riforma vuole cambiare, oltre all’organizzazione, anche il modo di essere Chiesa. Gli scandali ne hanno mostrato l’urgenza: e quelli non si affrontano solo con ritocchi normativi.
Pensare che Celestino V sia stato un vile perché ha rinunciato ad essere capo, aiuta a farsi un’idea della Chiesa che ha in animo Francesco. La convocazione dei principi della Chiesa allora non serve a discutere della struttura, bensì della sua operatività, ora che nel Collegio ci sono anche le voci di Paesi che mai nessuno aveva prima considerato: l’ultimo esempio è la Mongolia.
La riforma della Curia
Dopo il discorso de L’Aquila, i cardinali – ascoltate le relazioni – hanno discusso tra di loro, in commissioni linguistiche: anglofoni, francofoni e così via. Questo incontro, di due giorni, un tempo famoso perché convocato per prendere atto dei nuovi santi o per registrare l’ingresso dei nuovi cardinali, non si è limitato quindi a recepire cose già decise: non hanno dibattuto sulla riforma – quella c’era già –, ma su come va realizzata, per “metterla a terra”, a Roma, come nel resto del mondo.
Sta prendendo forma una Chiesa sinodale, cioè una Chiesa collegiale, non verticista, non centralista? Io non lo so, ma certamente, anche solo scorrendo l’elenco dei porporati, si percepisce che le periferie sono presenti e che i loro rappresentanti si confrontano col centro incarnato dai cardinali di curia, esprimendo le loro opinioni e le loro esigenze.
Ho letto che, secondo il cardinale Brandmüller, in conclave dovrebbero votare solo i cardinali residenti a Roma: il verticismo centralista è evidentemente in difficoltà.
Ma non in ragione della nuova struttura della Curia Romana, bensì perché questa riforma cambia il modo di lavorare: propone che la curia sia al servizio delle Chiese particolari, di tutto il collegio episcopale, non il contrario; la piramide verrebbe così capovolta. Come aveva detto Francesco in occasione del 50° anniversario del sinodo dei vescovi, il papa deve divenire persino «il vertice basso»: un cambiamento enorme che molti osteggeranno e che richiederà anni di impegno. Ma senza la teologia e la poetica della misericordia – quale bussola della Chiesa – questo sarà impossibile.
Questa riforma è simile a una fontana, nella quale l’acqua non esce da una sola bocca centrale, ma dalle mille cannule periferiche provenienti dalla vera vita della Chiesa: vuol dire che, al centro, devono convergere tanti zampilli che – insieme – fanno la Chiesa universale, nell’incontro di diverse culture cristiane e priorità pastorali.
Questa prospettiva è fondata sulla misericordia e non sul rigorismo, sulla sinodalità e non sul centralismo dirigista. La più autentica tradizione non è forse questa? Secondo gli Atti degli Apostoli non dovrebbe darsi il centralismo, bensì la sinodalità. Ciò mette in discussione la dottrina? Non penso: il Vangelo parla di misericordia, non di centralismo rigorista.
Un papa oltre gli schemi
Il confronto tra rigorismo e misericordia impone chiarezza. Il caso delle parole del papa al riguardo della figlia di Dugin consente di fare, nei fatti, tale chiarezza. Le sue parole sono state equivocate per mille ragioni, non ultima quella del rigorismo pacifista che nuoce all’immagine di Francesco e alla sua teologia della misericordia più di quanto non l’aiuti.
Quando il papa ha condannato l’attentato che ha ucciso Darja Dugina, ha parlato di vittime innocenti della guerra. Cosa ha voluto dire? La figlia di Alexander Dugin – ora sappiamo – promuoveva in prima persona idee non certo “innocenti”. L’odio non è mai innocente: né quando è proclamato, come nel suo caso, né quando è praticato, come nel caso di chi l’ha assassinata in maniera tanto feroce, sotto gli occhi del padre. Siamo al cospetto però di condanne diverse, nulla giustifica l’atto.
La reazione ucraina è risultata comprensibile, ma ha dimenticato – in un attimo – tutto quanto Francesco ha detto in questi mesi, in particolare del patriarca di Mosca, e come solo Francesco abbia avuto il coraggio spontaneo di definirlo il «chierichetto di Putin».
Il Vaticano ha chiarito ulteriormente, in modo forte, col suo comunicato.
Io penso che l’equivoco sia stato originato anche dal fatto che il pacifismo ideologico evoca spesso Francesco nella chiave del pregiudizio antiamericano e antiatlantico.
L’ideologia antiamericana origina nel mito messianico di Mosca capitale del bene. Certa sinistra ha condiviso, con la liturgia della Terza Internazionale, la fede nell’impero del Bene, la Terza Roma, sebbene atea. In definitiva, tale visione non è dissimile da quella di Kirill: l’Occidente è corrotto, solo la Terza Internazionale guidata da Mosca può creare l’uomo nuovo, non cristiano, ma sovietico.
L’altra sorgente di pacifismo ideologico antiamericano origina, secondo me, in certi ambienti cattolici terzomondisti, indignati per quanto realmente fatto dagli USA nel mondo, soprattutto nel Terzo e Quarto Mondo. Qui per rabbia – in buona misura autocritica – si rimuovono i torti degli “altri”.
Questi cattolici si sentono parte dell’Occidente: vogliono cambiare l’Occidente dal di dentro, denunciarne gli orrori e farne il verbo del bene. Ma in questo modo perpetuano il mito coloniale. Dire, ad esempio, che la guerra poteva essere evitata se solo l’Occidente avesse accettato la smilitarizzazione dell’Ucraina, toglie di fatto all’Ucraina il diritto di autodeterminarsi e di coltivare una propria strategia di difesa.
Francesco rifiuta di farsi il chierichetto di Biden, di Washington o della Nato, perciò può rimbrottare il «chierichetto di Putin». Rigetta l’idea di un impero del bene e di uno del male. Per lui, a mio avviso, non c’è mai un fondamentalismo che sia antifondamentalista, un colonialismo anticolonialista. Ciò “taglia l’erba sotto i piedi” ad ogni imperialismo e colonialismo, russo, americano, europeo o altro.
L’impegnativa – del tutto spontanea – scelta di Francesco è l’unica che toglie fuoco pure a chi pensa all’Ucraina unicamente in chiave antirussa, e non per sé stessa.
Il fraintendimento – presto archiviato – appare il prodotto di un’urgenza ucraina, quella di sentirsi riconosciuta in primo luogo, nel nome di Dio, posto che, con quel nome, sono attaccati da Mosca. Non si può non ricordare infatti che il patriarca di Mosca ha definito questa guerra «esistenziale», con un linguaggio di tipo apocalittico deteriore, da giudizio finale.
Se Francesco avesse detto no alle armi all’Ucraina avrebbe legittimato – ex-post – Budapest e Praga; se avesse detto sì alle armi a Kiev, le avrebbe benedette, riportandoci ai tempi delle crociate.
L’enormità di quanto ha detto al Corriere della Sera, quando il direttore gli ha chiesto se fosse giusto rifornire di armi gli ucraini, sta in queste parole: «Non so rispondere, sono troppo lontano, dall’interrogativo se sia giusto rifornire gli ucraini». Le risposte di Francesco si pongono su un altro piano – poetico o profetico – l’unico con cui si possa guardare al futuro.