Francesco e la letteratura: Dio… che emozione

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Nel tempo d’estate può capitare di imbattersi, sia al mare che in montagna, in qualche “gioiellino” della natura che con la sua bellezza impreziosisce il nostro tempo di riposo e il cui ricordo allieterà questo tempo di ripresa del lavoro quotidiano. Ciò può valere anche dal punto di vista ecclesiale, come ad esempio è accaduto quest’anno con la pubblicazione di una piccola ma densa lettera di Papa Francesco «sul ruolo della letteratura nella formazione» dei presbiteri, degli attori pastorali e di ogni cristiano: un vero e proprio regalo o dono, da scartare piano piano.

Certo, si potrebbe dire che il testo risente del vecchio dualismo tra ragione e sentimento (o emozioni), dato che esso esalta la letteratura quale «via di accesso» (13) alla parte emozionale dell’essere umano, al mondo dei sentimenti umani – quello che Marcello Neri ha (qui) chiamato «affectus». D’altra parte, è anche vero che la teologia e ancor più il magistero sono tuttora in debito verso questa sfera dell’umano: per alcuni perché essa è in fondo inferiore alla razionalità (una sorta di sentimentalismo), per altri perché è talmente superiore da sfuggire ad ogni intelligenza (in una sorta di malinteso misticismo).

Non è un caso che la Chiesa abbia difficoltà nel comprendere e dialogare con i suoi contemporanei: il tempo (postmoderno) in cui viviamo ha messo al centro tale aspetto dell’umano, con tutti i suoi lati (e risvolti) positivi e negativi. Già un secolo fa Eliot parlava di «“incapacità emotiva”» e, sulla scia del poeta inglese, Papa Francesco afferma che «oggi il problema della fede non è innanzitutto quello di credere di più o di credere di meno nelle proposizioni dottrinali. È piuttosto quello legato all’incapacità di tanti di emozionarsi davanti a Dio, davanti alla sua creazione, davanti agli altri esseri umani», il che richiede in via prioritaria «di guarire e di arricchire la nostra sensibilità» (22).

Ecco perché, pur entro tali limiti, mi sembra assolutamente opportuno che un testo del magistero persegua un certo riequilibrio tra la sfera emozionale e quella razionale, pur scontando qualcosa in termini di complessità dell’analisi (quale oggi viene condotta tenendo insieme i due aspetti in modo quasi inscindibile). Lo stesso Neri vede, nella Lettera di Francesco, «l’incipit di una possibile teologia fondamentale a venire – letteralmente l’alter della Fides et ratio di Giovanni Paolo II»: la «fides et affectus».

Il senso della letteratura per la fede

Venendo al testo, allora, emerge chiaramente che la letteratura è considerata quale «accesso privilegiato (…) al cuore dell’essere umano» (4), alla sua «verità» (26), che è anche il suo «mistero» (5). Perché da esso sgorgano tutte le «questioni di senso» (26) legate, da un lato, ai «sogni» (3), agli «ideali» (9), ai «desideri» (6) e alle «passioni» (8); e, dall’altro lato, alle «tensioni» (6) e ai «drammi» (7), sino agli «abissi» (13) dei «vuoti» (7) e della «noia» (28), delle «solitudini» (7) e delle «violenze, paure» (9), «angosce» (26).

La letteratura così intesa, proprio per questa capacità di attraversare senza rimuovere o nascondere ciò che Ignazio di Loyola chiamava l’«oscurità dell’anima» (27), viene (ri)valutata quale fonte di «maturazione personale» (1), come ciò che «permette di far fiorire la ricchezza della propria persona» e «rinnova e amplia il proprio universo personale» (3), come ciò che «apre nuovi spazi interiori» (2), «in direzione (…) di un ampliamento della propria sensibilità umana, e infine di una grande apertura spirituale per ascoltare la Voce attraverso tante voci» (41), evitando così di cadere in quell’«autoisolamento» che costituirebbe «una sorta di sordità “spirituale”» (20), un «grave impoverimento intellettuale e spirituale» (4).

Questa «ampiezza di prospettiva che allarga la nostra umanità» (34) sino a farci comprendere meglio la «meravigliosa diversità dell’essere umano» (35) deriva, per Papa Francesco, innanzitutto dal rapporto di immedesimazione con gli altri che la letteratura permette di instaurare – come colto (qui) anche da Marcello Tarì nei termini di un’«“uscita” verso l’altro o l’altrove (…) che ci salva da noi stessi».

Essa, attraverso «il potere empatico dell’immaginazione» (34), «ci rende sensibili al mistero degli altri, (…) ci fa imparare a toccare il loro cuore» (21) e «ad ascoltare la voce dell’altro che ci interpella» (20). Grazie ad essa, «siamo messi in condizione di “vedere attraverso gli occhi degli altri”» (34), acquisendo la «capacità di identificazione con il punto di vista, la condizione, il sentire altrui» (34): «mentre sentiamo tracce del nostro mondo interiore in mezzo a quelle storie, diventiamo più sensibili di fronte alle esperienze degli altri, usciamo da noi stessi per entrare nelle loro profondità, possiamo capire un po’ di più le loro fatiche e desideri, vediamo la realtà con i loro occhi e (…) ci immergiamo nell’esistenza concreta ed interiore degli altri» (36).

Incontrare altro e altri

Gli altri, inoltre, non sono solo le «persone concrete» con la cui «vita» la letteratura ci mette in «dialogo» (8), ma anche «la cultura del tempo» con cui la letteratura avvia un altrettanto «fecondo dialogo» (13), per coglierne il «cuore» (4), il «centro» (9). Ciò vale per le culture «antiche e nuove» (9): «il cristianesimo delle origini, ad esempio, [ha] bene intuito la necessità di un serrato confronto con la cultura classica…

Ed è proprio da quell’incontro dell’evento cristiano con la cultura dell’epoca che è venuta fuori un’originale rielaborazione dell’annuncio evangelico» (11). È dunque la storia stessa del cristianesimo il banco di prova della importanza e veridicità di quanto ci ricorda Papa Francesco, affermando che «il contatto con i diversi stili letterari e grammaticali permetterà sempre di approfondire la polifonia della Rivelazione senza ridurla o impoverirla alle proprie esigenze storiche o alle proprie strutture mentali» (10).

Tale incontro e confronto continuo con la «pluralità diacronica e sincronica» (35) delle alterità culturali sviluppa o innesta nel noi ecclesiale, ogni volta sempre geo-storicamente contestualizzato, potenzialità ad esso sconosciute o appena intuite. Questo vale in avanti, guardando alla diffusione globale del cristianesimo: «la missione ecclesiale ha saputo dispiegare tutta la sua bellezza, freschezza e novità nell’incontro con le diverse culture -tante volte grazie alla letteratura- in cui si è radicata senza paura di mettersi in gioco e di estrarne il meglio di ciò che ha trovato. È un atteggiamento che l’ha liberata dalla tentazione di (…) credere che una certa grammatica storico-culturale abbia la capacità di esprimere tutta la ricchezza e la profondità del Vangelo» (10).

Ma tutto ciò vale anche all’indietro, sino alla complessità dell’evento Gesù che, senza tutto quello che la letteratura ha scritto (e non solo su di lui), verrebbe mutilato della sua «“carne”»: «quella carne fatta di passioni, emozioni, sentimenti, racconti concreti, mani che toccano e guariscono, sguardi che liberano e incoraggiano, di ospitalità, di perdono, di indignazione, di coraggio, di intrepidezza» (14). In altri termini, ancora più netti, solo «un’assidua frequentazione della letteratura può rendere (…) ancora più sensibili alla piena umanità del Signore Gesù (…) concreto con tutte le ferite, i desideri, i ricordi e le speranze della sua vita» (15).

La maturazione, il fiorire e l’arricchimento della «nostra» (39) personalità e cultura (anche religiosa) – in tutta la sua sensibilità spirituale, intellettuale ed etica – dipende però, nell’ottica di Francesco, anche da altri due atteggiamenti che la letteratura “costringe” a praticare: il discernimento (degli “spiriti”) e il nominare (le “cose”).

Discernere e nominare

Circa il primo, Francesco parla esplicitamente di «una sorta di palestra di discernimento, che affina le capacità sapienziali di scrutinio interiore ed esteriore» (26), «una palestra dove allenare lo sguardo a cercare ed esplorare la verità delle persone (…) che può essere solo parzialmente manifestata in categorie, schemi esplicativi, in dinamiche lineari di causa-effetto, mezzo-fine» (32).

Ciò non deve stupire se si è compreso che la vita è «un terreno poco stabile dove i confini tra salvezza e perdizione non sono a priori definiti e separati» (29) e, in essa, ci si muove dentro squarci luminosi, ma anche oscuri, tra i quali la letteratura educa a penetrare e, appunto, discernere. Questo vale anche in rapporto, non solo alle persone, ma anche alle culture e alla voce dello Spirito che in esse (oltre che ad esse) sussurra: «grazie al discernimento evangelico della cultura, è possibile riconoscere la presenza dello Spirito nella variegata realtà umana, è possibile, cioè, cogliere il seme già piantato della presenza dello Spirito (…) nelle tensioni profonde (…) dei contesti sociali, culturali» (12).

In tal senso, il discernimento educato dalla letteratura non nega il giudizio, «non neutralizza il giudizio morale» – offrendo comunque «criteri di valore (…) del bene e del male, del vero e del falso» – ma lo raffina, lo rende più tenero, compassionevole, misericordioso: «impedisce ad esso di diventare cieco o superficialmente condannatorio» (38), «educa (…) alla lentezza della comprensione, all’umiltà della non semplificazione, alla mansuetudine del non pretendere di controllare il reale e la condizione umana» sino a «tradursi in sentenza di morte, in cancellazione, in soppressione dell’umanità» (39).

In altri termini, la letteratura educa la capacità di discernimento del lettore «al decentramento, al senso del limite, alla rinuncia al dominio, cognitivo e critico, sull’esperienza, insegnandogli (…) l’impossibilità di ridurre il mistero del mondo e dell’essere umano ad una antinomica polarità di vero/falso o giusto/ingiusto» (40), perché essa intende il giudizio «non come strumento di dominio, ma come spinta verso un ascolto incessante e come disponibilità a mettersi in gioco in quella straordinaria ricchezza della storia dovuta alla presenza dello Spirito, che si dà anche come Grazia: ovvero come evento imprevedibile e incomprensibile» (40).

Il discernimento educato dalla letteratura, quindi, consiste in un’operazione di comprensione che permette di scorgere i dettagli e percepire i sussurri; aiuta a vedere i chiaroscuri e ad ascoltare i non detti; insegna a lasciarsi sorprendere e interrogare dalla complessità, ad avere pazienza di fronte alla mescolanza di grano e zizzania. In quanto tale, esso costituisce un atteggiamento che fa maturare e fiorire, nelle persone e in una cultura, una più profonda sensibilità spirituale, intellettuale ed etica.

C’è, infine, un terzo atteggiamento che va in questa direzione e che è strettamente collegato al discernimento. Se quest’ultimo, infatti, consente di cogliere delle persone e delle culture «i loro contorni e le loro sfumature» (senza nasconderli o rimuoverli), ne consegue la possibilità di vedere la letteratura che lo educa come «“un telescopio”» (Proust) – «un laboratorio fotografico» (Spadaro) – puntato sulla vita, in grado di «mettere a fuoco (…) l’insieme dell’esperienza umana [e il] suo significato» (30), capace di «lasciar emergere l’eccedenza infinita dell’essere» e l’«eccesso di senso» presente nel «reale» (32), quindi, «di “nominare”, di dare senso, di farsi strumento [della] Parola e della sua potenza di illuminazione di ogni aspetto della condizione umana» (43): la letteratura «esprime e trasmette la ricchezza dell’esperienza non oggettivandola nella rappresentazione descrittiva del sapere analitico o nell’esame normativo del giudizio critico, ma come contenuto di uno sforzo espressivo ed interpretativo di dare senso all’esperienza» (35). Ciò significa che essa «ci aiuta a dire la nostra presenza nel mondo, a “digerirla” e assimilarla, cogliendo ciò che va oltre la superficie del vissuto» (33).

Comprendere un po’ meglio il «senso» del nostro comune vivere, soprattutto riguardo ciò che sembra «invisibile» (21, 44), permette anche di esprimerlo in modo più adeguato, il che spesso è un ulteriore segno della maturazione e fioritura di una persona o di una cultura.

Ecco perché Francesco scrive che la letteratura, così intesa, «mette in moto il linguaggio, lo libera e lo purifica: lo apre, infine, alle proprie ulteriori possibilità espressive ed esplorative», consentendo di «infrangere gli idoli dei linguaggi autoreferenziali, falsamente autosufficienti, staticamente convenzionali» (42). D’altronde, «acquisire un vocabolario più ampio» ed «imparare ad esprimere in modo più ricco le proprie narrazioni» permette di «sviluppare vari aspetti della (…) intelligenza» – «l’immaginazione e la creatività», «la capacità di concentrazione» – riducendo «i livelli di deterioramento cognitivo» e calmando «lo stress e l’ansia» (16).

Al fondo del dono estivo di Papa Francesco, troviamo dunque – con le parole di Marcello Tarì – «ascolto dell’altro ed esercizio di discernimento», «possibilità di conversione di sé e di sovversione delle narrazioni dominanti». In altri termini, l’ascolto attivo degli altri in cui scoprire l’Altro e il (più) profondo, il discernimento come forma raffinata e (più) comprensiva di giudizio, la rivelazione di un senso eccedente il “si è sempre fatto così” che dona nuova linfa al nostro vivere insieme. Ancora una volta, una sorta di cammino sinodale in piccolo al quale anche la letteratura può offrire il proprio contributo.

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